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Un’ordinata ripresa in vista

Dopo tante false partenze i dati sugli ordini industriali segnalano l’arrivo della ripresa autunnale, soprattutto per le imprese che vendono all’estero. Ma rischia di essere una ripresa senza lavoro se non ritorna il credito e se, invece di riduzioni estemporanee di Imu e Iva, non si tagliano le imposte sul lavoro.

LA RIPRESA PARTE DAGLI ORDINI INDUSTRIALI
Dopo tante false partenze, dopo tante “luci alla fine del tunnel” intraviste dal politico di turno, ora pare che la sospirata e necessaria ripresa arrivi davvero. E i germogli di ripresa sembrano meno fragili di quelli che si potevano intravedere più o meno un anno fa tanto che la fiducia delle imprese manifatturiere è ai massimi dal marzo 2012.  Sulla previsione stavolta, pur tra molti distinguo, ci ha messo la faccia – e il prestigio dell’istituzione che presiede – il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco che, a margine dell’incontro dei ministri economici e dei governatori nell’ambito del G20 di Mosca, ha parlato di ritorno ad un segno positivo nella crescita del Pil per il quarto trimestre 2013. Per il Governatore, la ripresa arriva in ottobre, hanno titolato i giornali.
In questa occasione, la Banca d’Italia ha a sua disposizione un’evidenza ben più solida rispetto a chi in precedenza si era cimentato nell’impresa di prevedere una ripresa che sembra non arrivare mai. Si tratta dei dati Istat sugli ordinativi industriali.
Schermata 2013-07-24 alle 17.03.59Fonte: Istat
Malgrado l’industria pesi oramai solo per il 24 per cento del Pil complessivo dell’Italia, gli ordinativi industriali continuano ad essere uno degli indicatori anticipatori più affidabili di ciò che succederà al Pil nel semestre successivo. E l’indice relativo ai dati sugli ordini totali delle imprese industriali si è messo a produrre buone notizie in modo finalmente non episodico. Il dato destagionalizzato dell’indice è cresciuto nel maggio 2013 per il terzo mese consecutivo, con un guadagno cumulato del 5,9 per cento rispetto al minimo del febbraio 2013. Il livello degli ordini rimane pur sempre di 10 punti al di sotto rispetto al livello del maggio 2011 (più o meno il punto di massimo prima dell’attuale recessione). Se gli ordini sono ripartiti in marzo, la ripresa del Pil dovrebbe arrivare circa sei mesi dopo, su per giù in settembre. Indicazioni molto simili provengono anche dall’andamento del super-indice Ocse che è costruito su un insieme più ampio di indicatori, compresi due relativi agli ordini industriali. Tutti gli indicatori anticipatori dicono che la ripresa è in arrivo. Coerentemente con l’evoluzione positiva degli indici anticipatori relativi alla prima metà dell’anno, gli indicatori di fiducia delle famiglie e soprattutto delle imprese manifatturiere mostrano evidenti segni di miglioramento delle aspettative, ingrediente fondamentale della ripresa degli investimenti e dei consumi.
CHE TIPO DI RIPRESA CI ASPETTA
Dopo cinque anni di crisi, che ci sia una ripresa è solo una mezza buona notizia. L’altra faccia della medaglia riguarda la qualità della ripresa che ci aspetta. E qui le notizie che arrivano dai dati sugli ordinativi sono purtroppo simili al passato: se sarà ripresa, sarà una ripresa come quella del 2010, una ripresa che divide in due le imprese italiane, tra il gruppo di quelle che vendono all’estero e quelle che lavorano sull’interno. Gli ordini esteri sono infatti già ora ritornati al di sopra dei livelli di maggio 2011. Anzi, come si vede nel grafico si avviano a raggiungere il livello record pre-crisi del febbraio 2008. Il discorso è diverso per gli ordini nazionali che sono significativamente in crescita (come anche confermato dai dati sulle vendite al dettaglio di maggio) ma risultano inferiori del 15 per cento rispetto alla metà del 2011 e addirittura del 35 per cento rispetto ai valori pre-crisi. I dati strabici su ordini esteri e nazionali hanno un significato: vogliono dire che probabilmente le aziende italiane attive sui mercati globali si sono già abituate al nuovo regime di non crescita o crescita lenta dell’Europa e di crescita rallentata nei paesi emergenti, riorientando i loro sforzi verso i mercati che continuano a crescere: Russia, Est Europa, Medio Oriente, nord Africa e, prima di tutto, Stati Uniti che – spinti dal calo della disoccupazione e dalla ripresa del mercato immobiliare – hanno ripreso ad essere a pieno titolo la locomotiva che traina l’economia mondiale. Nella stesa direzione peraltro si stanno muovendo le aziende tedesche. Ma vuol dire anche che i progressi sul mercato del lavoro derivanti dalla crescita saranno lenti ad arrivare, perché le aziende globali hanno sempre più bisogno di delocalizzare segmenti di produzione e fornitori e quindi finiscono per creare meno occupazione a casa.
I dati sugli ordini ci rappresentano in definitiva il rischio di una jobless growth: una ripresa che rischia di creare pochi posti di lavoro e, tra l’altro, solo nel 2014 dato che l’occupazione risponde con un ritardo di circa sei mesi al miglioramento dei fatturati. Per evitare che la fine della recessione economica sia seguita dalla continuazione della recessione sociale già oggi in corso urge un po’ di mano visibile dello Stato che – come ha finalmente cominciato a fare – saldi in fretta una buona parte dei debiti della pubblica amministrazione, riporti il credito alle aziende offrendo garanzie sui prestiti bancari deteriorati e indichi un percorso di riduzione delle regole e del peso fiscale sul lavoro. Se possibile, senza disperdere energie e risorse fiscali in riduzioni estemporanee di imposta su Imu e Iva.

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Le banche italiane si rafforzano così

10 commenti

  1. Federico B

    Grazie per l’editorlale. Ammiro molto lo stile espositivo del Prof. Daveri. Temo sia giunta l’ora che lo Stato Italiano ‘Moloch’ faccia una vera politica industriale settore per settore, ed inizi a razionalizzare la spesa pubblica per tagliare costo del lavoro e cuneo fiscale. Le imprese Italiane sono scarsamente competitive, e devono internazionalizzarsi. Tutto questo va fatto ORA. Sembra di ripercorrere schemi ricorrenti da ‘asilo nido’, o dire cose ogni volta sempre più banali. La domanda che tutti ci poniamo è la seguente: ‘riuscirà lo static management governativo domestico a conformarsi all’aureo precetto “ora et LABORA”, semplificare, razionalizzare, creare un contesto efficiente per fare impresa? jobless growth and very significant expatriation rate….

    • Maurizio Cocucci

      Che ridurre il cuneo fiscale sia auspicabile per lasciare qualche euro in più alle famiglie va bene, ma non concordo sul fatto che il costo del lavoro in Italia sia tra i più alti nel mondo e soprattutto la causa della nostra limitata competitività. Innanzi tutto occorre tenere presente che il costo del lavoro è dato da quanto una azienda spende globalmente per un collaboratore (salario netto, tasse a carico del lavoratore ma versate dall’azienda stessa, contributi SSN a carico del lavoratore e della azienda) per unità di tempo (ora). Spesso tale definizione i nostri imprenditori la confondono con quella del cuneo fiscale. Non è facile fare raffronti considerando che ci sono più categorie di lavoratori e più settori merceologici e quindi non c’è una statistica uniforme, però quasi sempre si arriva alla medesima classifica dove l’Italia non compare ai primi posti come vorrebbero farci credere i nostri imprenditori. Prendiamo ad esempio questa elaborata dall’OCSE con dati del 2010 e vediamo dove si attesta il nostro Paese e soprattutto se si individua tra quelli che ci stanno avanti, qualcuno che si trova in una situazione di crisi economica maggiore della nostra nonostante appunto un costo del lavoro più elevato.

      • Federico B

        Il prelievo forzoso sul lavoro in Italia è tra i più alti dell’Eurozona e il gap appare ancora più elevato se confrontato con paesi quali il Regno Unito, il Giappone o gli Stati Uniti (che poi sono taluni dei paesi verso cui non a caso ci si orienta un po’ tutti..). il costo del lavoro in Italia per un lavoratore non sposato è circa due volte lo stipendio netto contro un rapporto pari a 1.7 per la media dell’area euro e a circa 1.5 proprio per la media dei Paesi Ocse citata. Per incidere in misura sostanziale su consumi, produttività del lavoro e crescita occorrerebbero risorse. Una riduzione del costo del lavoro di 2.5 punti percentuali, inizierebbe ad avere un impatto aggregato di rilievo. A fronte di uno stipendio lordo di 30k, al lavoratore andrebbero 250 euro all’anno, e l’azienda ne risparmierebbe. Ad ogni modo, è la produttività totale dei fattori il vero handicap del sistema Paese, come noto. Bisogna trasferire potere d’acquisto a chi lavora (relativ. alta propensione marginale al consumo) e produce, e risollevare la depressa domanda aggregate interna. Le aziende Italiane che ‘tirano’ sono quelle che vendono all’estero, come noto.

  2. albert missinger

    Resta il fatto che una ampia fetta della disoccupazione deriva da chiusure della industria manifatturiera; fabbriche che non esistono più.
    Inoltre nel corso di qualche lustro, in Italia verrà a mancare la conoscenza artigianale su cui si sviluppò l’industria della manifattura e avremo una forza lavoro priva della conoscenza storica della produzione.
    Le scuole professionali collegate alla manifattura era e resta la base per una florida industria manifatturiera.

  3. Piero

    Il pil 2013 -2%; ma dove sta la ripresa, un timido aumento degli ordini dall’estero non può permettere a nessuno in questo momento di fare simili affermazioni:
    Saccomanni, a fine anno c’è la ripresa; ma cosa vogliamo dire, ogni giorno abbiamo il peggioramento della situazione.
    La differenza con Monti, il pessimismo aveva invaso tutti, oggi con Letta vi è la speranza, i fatti concreti sono gli stessi.

    • Alessandro

      Verissimo Piero….. l’unico modo per creare domanda è una ripresa degli investimenti…ed in Italia questo si fa solo con le Banche….monetizzazione dei debiti…pubblici e privati ripulirebbero i bilanci…e poi l’unico modo per aumentare gli stipendi e una ripresa dell’occupazione…non trovo personale quindi aumento la retribuzione…diversamente cuneo o non cuneo…gli stipendi faranno sempre la corsa in giù!

  4. Asterix

    Concordo con le considerazioni contenute nell’articolo. Si continua a puntare solo sulle imprese che operano con l’estero che in realtà già da qualche anno sono sulla strada di un ripresa. Anche il famoso cuneo fiscale ha un senso per le imprese che generalmente esportano (ed infatti è stata utilizzata dalla Germania per superare la crisi post unificazione) non per chi opera all’interno perché se la riduzione dei costi lo fai attraverso una riduzione dei salari (utilizzo intenso di contratti flessibili) ti ritrovi una domanda interna debole. Tra l’altro perché un impresa italian che opera interamente sull’estero dovrebbe poi mantenere la produzione in Italia (con costi PA, fiscali, criminaltà, ecc.)? Ottimo l’intervento sui ritardi nei pagamenti della PA in Italia (problema unico in UE), ma manca un progetto di shock della domanda. Certo se poi la ripresa della domanda in italia è affidata ai progetti di stage a 516 euro mensili per l’Expo 2015 o ai piani “greci” di riduzione del personale…

  5. Maurizio Cocucci

    Io sono poco fiducioso se si dovesse attuare una sola riduzione del cuneo fiscale, perchè da una parte è vero che questo consentirebbe ai lavoratori occupati di percepire una retribuzione netta maggiore, ma per i nuovi assunti è ipotizzabile che i vantaggi verrebbero goduti quasi esclusivamente dalle aziende. Questo perchè normalmente i lavoratori non trattano in fase di colloqio la retribuzione lorda annuale ma quella netta mensile, pertanto in presenza di uno ‘sconto’ fiscale è possibile che trattando appunto la parte netta mensile, se il lavoratore non ha oggi potere contrattuale (vista la carenza di offerta di lavoro), sarebbe l’azienda a imporre lo stesso salario e godere di conseguenza di un minore costo. Poi dal lato dell’azienda i vantaggi sarebbero in ogni caso poco incisivi e questo perchè in media in una azienda manifatturiera la componente del costo del lavoro non superà il 20% di quello complessivo di prodotto. Io seguirei la via di un abbassamento delle imposte (prima fra tutte l’IRAP), di una riduzione della burocrazia e di interventi sulla logistica (vie di comunicazione soprattutto), in questo modo sì che le aziende avrebbero un sensibile vantaggio. Contemporaneamente servirebbe un abbassamento delle imposte sul reddito (esempio per redditi fino a 30 mila euro).
    Rimane la questione di dove trovare le risorse per finanziare questi interventi. Io rimango sempre dell’opinione che il problema non è tanto di dove tagliare, ma della volontà di farlo, perchè di esempi di sprechi e di possibili tagli a spese inutili o poco proficue ne abbiamo davvero molti.

  6. Marco Quadrelli

    Propongo una cosa: al rientro dalle ferie, diciamo l’ultima settimana di agosto, chi va a lavorare lasci a casa l’auto, e così sino al 20 dicembre. Forse oltre, perché prima o poi dovremo tagliare i costi familiari.
    Conseguenze pratiche: non spendo in benzina; sospendo l’assicurazione e risparmio; non mi serve il meccanico….
    Se l’auto è ferma non pago anche gli oneri amministrativi vari connessi alla circolazione.
    Quali conseguenze ?
    Un ragionamento grossolano, alla buona, quasi da bar, ma chiaro.
    Tanti signori della nostra burocrazia saranno a far niente o quasi.

  7. alias

    non teniamo abbastanza conto che in Italia ci siano, grosso modo, 10 milioni di cittadini-consumatori (stranieri, o di origine straniera) sui 60 milioni circa di residenti; continuiamo, noi e i creativi pubblicitari, a dar per scontato che l’Italia sia fatta da romani, siciliani, milanesi, veneti e invece abbiamo un bel pò di gente con gusti e consumi che ignoriamo. Potremmo avere lo ius soli, e chiedere in cambio dei soldi (una tassa di cittadinanza, tanto per dire). è un patto così scellerato? cinismo giuridico? così come siamo, invece, ci possiamo lamentare dei costi pubblici (scuola, sanità, pronto soccorso), e della scarsa qualità dei servizi, ma senza accettare l’esistenza dei nostri co-residenti di serie B. E così, oltretutto, fanno tutti, imprese in testa, a cercare l’export led growth, invece che produrre cose buone a prezzi abbordabili che possano piacere al mercato interno.

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