I rischi per l’Italia ma anche per la stessa Fiat messi in evidenza da Fabiano Schivardi, purtroppo sono lungi dall’essere fugati dal comunicato congiunto governo-azienda stilato a valle dell’incontro di sabato.
I dubbi restano numerosi tuttavia possono ricondursi a un’inevasa domanda di fondo: se ci sia o meno un futuro per l’auto Made in Italy, anche coi marchi meno nobili e nelle versioni più economiche.
Detto in altre parole, e prendendo spunto dalle recenti polemiche tra pezzi di industria italiana, ci si chiede come mai, se nelle Marche continuano a fare (e ideare) scarpe, a Torino, e di conseguenza nel resto dell’Italia, non possano ancora prodursi automobili.
Termini e contorni della questione sono invero parecchio complessi, tuttavia vorremmo fare alcuni esempi molto concreti partendo da uno di successo come la 500.
La principale qualità del modello è quella di assomigliare all’originale, e spesso si dimentica che essa viene prodotta nello stesso stabilimento in cui si assembla la Ford Ka. Le due auto, sono tanto simili da poter montare invertiti i rispettivi paraurti. Il prezzo minimo della Ka è 10 mila euro quello massimo 13 mila, la 500 ha un prezzo d’attacco di 12 mila e supera, nelle versioni Abarth più speciali e limitate, i 40 mila euro, senza contare le versioni da corsa e gli accessori. Forse il legame tra Fiat e Italia va cercato in questi numeri. Anche perché non si spiega come si sia potuto decidere di produrre la 500 in Polonia e, contro ogni logica, la Panda a Pomigliano. Nello storico stabilimento Alfasud, infatti, non si producono più le Alfa Romeo, forse perché i tedeschi sono imbattibili nei segmenti D-E, auto medie e medio grandi; ma è proprio vero? L’Alfa 156, prodotta fino al 2005, venduta in 66 Paesi, è stata un grandissimo successo (qui un trionfale comunicato stampa ancora in rete). Se la sua sostituta, la 159, non ha brillato, difficilmente si può attribuire la colpa alle maestranze o alle regole del mercato del lavoro italiano.
Ridurre, razionalizzare la capacità produttiva in Italia forse è inevitabile ma, per esempio, rinviare la sostituzione della Punto è tutta un’altra questione. L’ultima Punto ha confermato il successo della precedente e nel segmento B la Fiat ha ricoperto posizioni di leadership, in Europa non solo in Italia, dai tempi della 127.
Perché dunque i bozzetti prodotti dal centro stile di Torino sono stati bocciati e la gestazione del modello è passata a Detroit? Non ci risulta che gli Americani siano diventati esperti nel progettare utilitarie, per giunta da vendere in Europa. Eppure nel comunicato si legge che Fiat sarebbe intenzionata a riorientare il proprio modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, piena disponibilità a valorizzare le competenze e le professionalità peculiari italiane, come l’attività di ricerca e innovazione.
Non è chiaro poi come si possa esportare, e in particolare fuori dall’Europa, se alcuni modelli, dal nome italianissimo, sono stati già riallocati fuori i confini dell’eurozona.
Per esempio la Giulia, che ricoprirebbe il vuoto lasciato dalla 159, verrà sviluppata e prodotta negli Stati Uniti, anche se non prima del 2014 e in uno stabilimento ancora da individuare.
La strategia del rinvio, della bocciatura del progetto, l’abbiamo già vista in particolare alla Lancia(1): oggi il suo emaciato listino si commenta da solo. Tacciamo sulle glorie sportive, ma perché chiamare Thema una Chrysler che di italiano ha solo il nome. Certo ci sono i sedili poltrona Frau e i motori diesel prodotti dall’italiana VM, ma con rispetto e solidarietà nei confronti dei fornitori, come si può pensare di vendere un’ammiraglia che ha un autotelaio vecchio di oltre 10 anni. E fare ancora peggio con la Flavia. Nel 2007, quando si chiamava Chrysler Sebring, montava un motore turbodiesel da 183 g/km di CO2 (2). Oggi che ha il marchio Lancia, stesse prestazioni velocistiche e stesso prezzo, monta un motore americano 2.4 benzina da 221 g/km di CO2, che non è ingeneroso definire anacronistico, almeno per il mercato della vecchia Europa.
Massimo Mucchetti, in prima pagina sul Corriere della Sera, ha scritto negli Stati Uniti si fabbricano principalmente dei baracconi. Difficile dargli torto, anzi l’amministrazione Obama ha avallato e aiutato l’ingresso di Fiat in Chrysler, proprio perché grazie al know-how di Torino anche a Detroit si potessero costruire auto piccole e a basso consumo e non certo viceversa.
Per ora i risultati di Chrysler scontano ancora la circostanza che gli stabilimenti si erano proprio fermati e nel ripartire non era poi così difficile crescere a due cifre.
L’unico nuovo modello dopo l’arrivo di Fiat, la Dodge Dart, che ha permesso alla società italiana di ottenere un ulteriore 5 per cento della proprietà di Chrysler, oltre ad arrivare con un certo ritardo non sta riscuotendo il successo sperato (3), o meglio ad agosto le vendite si sono triplicate ma i migliori modelli della categoria vendono sette od otto volte di più. Indubbiamente la concorrenza, in particolare quella giapponese, è molto agguerrita e può contare su una solida tradizione, ma perché esordire senza cambio automatico, quando lo preferisce oltre il 90 per cento degli automobilisti americani.
Molti dei tanti perché di queste righe c’entrano con la capacità, la volontà e la rapidità di investimento del gruppo Fiat-Chrysler. Da un’azienda che, nel tempo e col favore di molti, ha acquisito pressoché tutti gli altri marchi italiani ci si aspetta risposte migliori; e non solo per l’Italia.
(1) La sostituzione della Dedra con la Lybra per fare dei nomi esemplari.
(2) L’emissione di CO2 esprime anche l’efficienza dell’auto: meno si emette, meno si consuma. Le emissioni della Flavia sono sempre maggiori delle cabriolet tedesche, Audi e BMW, anche quando queste hanno potenze quasi doppie dell’italiana.
(3) Si veda il seguente articolo, non ripreso dai principali giornali italiani.
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