Anche sul credito, la Legge di stabilità presenta incertezze e contraddizioni, pur andando nella giusta direzione. Corregge l’anomalia della deducibilità delle perdite su crediti, ma non incrementa a sufficienza l’incentivo alla ricapitalizzazione delle imprese. E aumenta la patrimoniale sui titoli.
TRATTAMENTO FISCALE DELLE PERDITE SU CREDITI
Il provvedimento che riduce da diciotto a cinque anni il periodo sul quale “spalmare” la deducibilità fiscale delle perdite sui crediti bancari va nella giusta direzione. Finora, quando una banca fa emergere in bilancio una prevedibile perdita su un prestito, rettificandone il valore, può dedurla dall’imponibile solo in un arco di diciotto anni. Questo costituisce un disincentivo a fare “emergere” nei bilanci bancari le situazioni critiche e penalizza le banche italiane rispetto alle concorrenti estere, che possono generalmente dedurre le perdite in periodi assai più brevi. Da più parti (ad esempio Abi e Fmi) era stato giustamente richiesto che il periodo di deduzione fiscale delle perdite venisse accorciato. Oltre ad allineare il loro trattamento al quadro internazionale, ciò dovrebbe dare alle banche italiane un incentivo a fare emergere nei bilanci le prevedibili perdite sui crediti: servirebbe a dare maggiore trasparenza ai bilanci e a mostrare eventuali necessità di ricapitalizzazione. La stessa Banca d’Italia da tempo opera una sistematica azione di pressione sulle banche affinché le “sofferenze” (così si chiamano nel gergo bancario i prestiti a soggetti insolventi) siano coperte da adeguati accantonamenti in bilancio. Solo partendo da bilanci trasparenti e da adeguati livelli di copertura patrimoniale si può sperare che le banche italiane siano in grado di finanziarsi sui mercati e di prestare soldi alle imprese in misura maggiore rispetto alla situazione attuale. È un aspetto cruciale affinché i timidi segnali di ripresa congiunturale non vengano soffocati dalla scarsità di credito (il famigerato credit crunch).
Ben venga quindi la possibilità di dedurre in cinque anni le svalutazioni apportate ai crediti. Si corregge così una anomalia introdotta nel 2008 dal Governo Berlusconi con il “decreto sviluppo” (!). Tuttavia, il Governo Letta non ha rinunciato alla tentazione di cogliere anche questa occasione per fare cassa nell’immediato. Infatti il comunicato governativo (“Legge di stabilità 2014: linee guida”, 15 ottobre) stima maggiori entrate dal provvedimento per oltre due miliardi nel 2014. (1) Come si spiega che una maggiore deducibilità consenta maggiori entrate? In realtà, sembra che il Governo abbia usato il bastone oltre alla carota. Finora infatti le perdite accertate tramite una procedura concorsuale (fallimento, per intenderci) sono deducibili integralmente subito, così come quelle rientranti nel plafond pari allo 0,3% del totale degli impieghi. D’ora in avanti, invece, anch’esse diventerebbero deducibili in cinque anni. (2)
Quindi le perdite accertate nel 2013 sono deducibili subito solo per il 20 per cento, anziché interamente. Se questo aspetto della manovra venisse confermato nella versione definitiva approvata dal Parlamento, conterrebbe una evidente contraddizione: se da un lato va nella giusta direzione di allineare il trattamento delle perdite su crediti allo standard internazionale, dall’altro segue la direzione opposta, introducendo un penalizzazione ingiustificata per le banche italiane.
CAPITALE DELLE IMPRESE
Per attenuare il problema del credit crunch non basta agire sulle banche. Bisogna agire anche dal lato delle imprese. È noto che le imprese italiane, soprattutto il grande numero di quelle piccole e medie, soffrono di scarsa patrimonializzazione. La diffidenza delle banche e del mercato può essere dovuta, oltre al rischio di credito, anche al basso livello di capitale proprio di un’impresa: se questa parte da un livello di debito già molto alto in rapporto al capitale azionario, è più difficile ottenere altri prestiti. Per favorire maggiori apporti di capitale (sotto forma di utili accantonati e di versamenti di denaro fresco), la normativa attuale prevede che tali apporti diano diritto a una deduzione fiscale pari al 3 per cento dell’incremento di capitale: è il cosiddetto “rendimento nozionale”, in sostanza il costo del nuovo capitale che il fisco riconosce come deducibile dal reddito d’impresa. Per rafforzare il meccanismo (denominato Ace: aiuto alla crescita economica) si domandava da più parti un deciso innalzamento del rendimento nozionale, ad esempio un raddoppio al 6 per cento. Il Governo ha scelto invece di procedere con gradualità: il rendimento nozionale salirà di un punto l’anno prossimo, di un altro mezzo punto l’anno successivo e infine di un altro quarto di punto, arrivando al 4,75 per cento nel 2016. Come in altri capitoli della Legge di stabilità, la scelta di usare il cacciavite anziché l’accetta viene giustificata con la scarsità di risorse, ma rischia di vanificare gli sforzi fatti: se l’impatto sugli incentivi delle imprese dovesse risultare trascurabile, si sarà persa un’occasione, pur muovendosi nella giusta direzione.
PATRIMONIALE SUL DEPOSITO TITOLI
A proposito di banche, non si può fare a meno di notare che la mini-patrimoniale sul deposito titoli (la cosiddetta “imposta di bollo sugli estratti conto”) viene aumentata, portandola dall’1,5 al 2 per mille. Per un piccolo risparmiatore, questo aumento rischia di vanificare l’eventuale sgravio derivante dalla riduzione del cuneo fiscale. Su un portafoglio di 100.000 euro la maggiore imposta è di 50 euro. Lo stesso Governo prevede di incassare da questa variazione di aliquota 900 milioni di euro l’anno prossimo. Ma il premier non aveva detto che questa finanziaria è la prima che non aumenta le tasse?
(1) Peraltro denotando una certa confusione, perché il maggiore introito è quantificato il 2,7 miliardi a pag.1 e in 2,2 miliardi a pag.4 del comunicato governativo. Sarebbe interessante sapere come sono state effettuate le stime, visto che il risultato dell’operazione dipenderà in modo cruciale dalle decisioni delle banche relative alle rettifiche sui crediti.
(2) Si veda Il Sole-24Ore del 17 ottobre, pag. 15
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Piero
Il credit crunch è il reale problema che in questo momento preoccupa le imprese che non possono avere più sostegno dalle banche, in difficoltà avendo impiegato la loro liquidità principalmente nei titoli statali, il provvedimento sulle perdite fiscali, sul punto non migliora la situazione, l’incentivazione della patrimonializzazione alle imprese, anche se è’ utile e’ un grande incentivo, ma in questa situazione di crisi e di mancanza di fiducia non risolve il problema del credit crunch.
Il problema o viene risolto a livello europeo, allentando la crisi del debito pubblico che ha messo in crisi il circuito finanziario, o potrebbe essere risolto con un po’ di coraggio da parte dello stato utilizzando il fondo di garanzia 662, lo stato deve concedere una garanzia automatica sui fidi bancari per il 30/50% del fatturato dell’impresa a condizione che non sia in crisi e che mantenga l’impegno occupazionale per almeno 2/3 anni, per tale misura a mio avviso lo stato non deve accantonare nulla sul bilancio, sarebbe quindi una misura da prendere con decreto legge, le banche con la garanzia statale potranno tornare a prestare il denaro in tranquillità, e il settore dell’economia reale riparte, al contrario oggi si parla di tasse e di Cuneo fiscale e si pensa che con un provvedimento che migliora le tasche dei lavoratori per 100 euro annui si risolva la situazione?