A imprenditori e sindacati manca un solo passo per rendere le relazioni industriali scudo della crisi e volano della crescita. Per capire quale, bisogna ripercorrerne l’evoluzione che, in sostanza, ha conosciuto quattro fasi (1).
La prima e quella che risale alla fine degli anni 60: partiti e sindacati alleati contro il “capitale”, per rendere il salario “variabile indipendente”. Le grosse aziende, “statizzate” dalla fine della seconda guerra mondiale perché conservassero le potenzialità della “grande Italia” fascista, erano a poco a poco diventate sezioni distaccate dei partiti, che ne mantenevano il pieno controllo. I sindacati protestavano perché il lavoro doveva “rendere liberi tutti”; i partiti e dunque i vertici delle aziende, da questi manipolati, rispondevano a suon di retribuzioni più alte; le imprese, per contro, perdevano profitto e dunque produttività.
La seconda fase e quella che risale ai primi anni ’90: sindacati, senza partiti, contro il “capitale”. Il costo dei diritti, come quello dei lavoratori a retribuzioni alte, era diventato eccessivo; lo Stato non poteva più permetterselo perché, anche per questo, si era ammalato di debito pubblico: sulla spinta dei governi di austerity, prendevano avvio le privatizzazioni. I sindacati, rappresentando solo i lavoratori “protetti” dallo Statuto del 1970, protestavano ma non facevano più lo stesso rumore, perché i partiti, messi ai cancelli dalle aziende, avevano perso interesse ad amplificarne le richieste; i privati rispondevano con soluzioni a metà, ma soprattutto senza automatici aumenti della retribuzione, per salvaguardare la produttività dell’impresa, che non a caso cresceva.
La terza fase risale agli anni 2000: i sindacati spaccati contro il “capitale”. L’unità sindacale ha subito una grave rottura culminata nel 2009 nella mancata firma della Fiom-Cgil al rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici e la perdita di rappresentatività e il “capitale”, sordo alle proteste frammentate, ha preso a imporre condizioni meno vantaggiose per il lavoratori; per questa crisi, malgrado gli sforzi, la produttività aziendale non è decollata.
La quarta fase è quella attuale: i sindacati sono di nuovo uniti contro il “capitale”. Ritrovata l’unità d’azione con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, si sono dati pensiero di recuperare la rappresentatività dal basso: a tale fine, hanno sottoscritto prima l’accordo del 31 maggio 2013 e poi il regolamento attuativo del 10 gennaio 2014 e completato perciò il passaggio dal sistema di rappresentatività presunta (delle Rsa) a quello di rappresentatività effettiva (delle Rsu). Ma il “capitale” minaccia di fuggire all’estero o, in alternativa, di abbattere drasticamente i diritti dei lavoratori.
Tra la terza e la quarta fase, dunque, qualcosa non e andato. Ed allora qual è il passo che sindacati e imprenditori non hanno fatto? Come deve prospettarsi la quinta fase?
La risposta è una sola: i sindacati e gli imprenditori hanno mancato di allearsi contro la crisi e continuato a vivere con l’idea del conflitto tra il “salario” e il “capitale”. Per uscire dal pantano, non c’è più bisogno di “exit”, ma semplicemente di “loyality” tra sindacati e imprenditori e, per dirla con Hirschman, di un’unica “voice” contro la crisi verso precisi obiettivi. Ad esempio, più contrattazione collettiva di secondo livello con la partecipazione del sindacato alle scelte delle imprese e dei lavoratori agli utili. Ma soprattutto più quota di salario rimessa alla volontà di imprenditori e sindacati, contro la cultura dei minimi retributivi stabiliti dal Ccnl.
In questo modo, le imprese avrebbero infatti possibilità di ancorare i salari al proprio trend produttivo, e i lavoratori sarebbero incentivati a produrre in misura maggiore. Invece, allo stato, le imprese sono obbligate a pagare retribuzioni stabilite da attori che si muovono su un palco che non vedono. E cosi, quelle piccole talora collassano; le grandi fanno resistenza a ricorrere alle retribuzioni premiali. Si tratterebbe, in fondo, di un esempio di “connettività” (2) tra imprenditori e sindacati, come quella già sperimentata negli altri Paesi, a partire dalla Germania sino alla Russia con il sindacato Iatuo Lukoil. Ma soprattutto, di una via che non conduce ad un bivio di nome Electrolux.
Ciro Cafiero
Collaboratore della cattedra di diritto del lavoro presso la Luiss e la Lumsa
(1) Per una più compiuta indagine sul ruolo e sull’evoluzione del sindacato, si veda M.Martone, Governo dell’Economia e azione sindacale in “Trattato di Diritto Commerciale e di Diritto Pubblico dell’Economia”, vol. XLII, diretto da F.Galgano, Padova, 2006
(2) In questo senso si veda F.Occhetta, La società italiana: tra sopravvivenza e innovazione, La Civiltà Cattolica, 18 gennaio 2014, 3926, pagg.119 e ss.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
rob
Professore i piani industriali e le scelte strategiche di un Paese non si fanno con una notte intorno ad un tavolo sperando che dalla mattina dopo le cose cambiano radicalmente. Si fanno con scelte che partono da lontano e sono lungimiranti ( a cosa serve un politico se non è lungimirante). Lei elenca 4 fasi dei rapporti tra sindacati e industrie partendo dagli anni ’60, ma in tutte le fasi descritte manca un tassello fondamentale: la professionalità del lavoratore! In tutte le 4 fasi fino ad oggi il sindacato è stato è una costola del partito. Se volessimo stilare cronologicamente una classifica delle priorità del sindacato verrebbe fuori: 1° vicinanza al partito ( o partito stesso) 2° lotta al padrone in quando sfruttatore, 3°creare posti in qualunque maniera per sostenere il consenso. Come vede mai si è preoccupato della professionalità aggiornata del lavoratore , assolutamente non si è mai preoccupato dei piani industriali dell’azienda ( VW docet) e degli investimenti. Basta fare un esempio: la Volkswagen in piena crisi produttiva e di innovazione nei primi anni ’70 ingaggiò Giugiaro che realizzo la Golf che non solo fu il rilancio dell’azienda ma creò una “reddita di produzione” che ancora dura tuttoggi. Il sindacato tedesco fu a fianco /dentro il consiglio di amministrazione.Nello stesso
periodo la FIAT crea l’ Alfasud e l’Arnia ma non in funzione di un piano industriale ma sulla spinta dei sindacati per creare posti a sostegno del loro consenso e per i contributi a fondo perduto ricevuti dall’azienda. Un patto scellerato! Tantè che la produzione vecchia, non attraente per il mercato fu furbescamente fatto assorbire a Forze di Polizia , municipali, amministrazioni pubbliche etc. In teoria si era creata economia fittizia, il contentino sulla pelle della professionalità del lavoratore.
Oggi la Germania nel settore auto mette sul piatto 40 miliardi di investimenti per i prossimo 10 anni con il sindacato ben presente nelle scelte. In Italia la FIAT non c’è più, il sindacato resiste con i suoi diritti acquisiti, il cerino acceso è nella mani dei lavoratori. Ma è bruciato per tre quarti!