Lavoce.info

Il difficile percorso dell’apprendistato

Dopo il fallimento della riforma dell’apprendistato del Governo Berlusconi, ora ci riprova Renzi. Ma il nuovo contratto rischia di perdere la componente più formativa. Il modello tedesco dell’università professionale sarebbe l’occasione per rilanciare gli istituti secondari.

RIFORMARE L’APPRENDISTATO…

Nella primo tempo del Jobs Act, il Governo guidato da Matteo Renzi ha abolito l’obbligo per le imprese che siglano un contratto di apprendistato di garantire all’apprendista una attività formativa in aula, accanto a quella in azienda. In un certo senso, questo trasforma la natura stessa dell’apprendistato, eliminando la componente di interesse pubblico, in grado di accrescere non tanto la produttività a breve nell’impresa, quanto l’occupabilità a medio-lungo termine del lavoratore.
Prima di cercare di capire, se l’intervento del Governo potrà essere efficace, conviene fare un passo indietro e chiedersi perché il Testo unico del 2011 non ha funzionato. I motivi sono diversi:
a) il periodo troppo breve di attuazione;
b) la crisi economica;
c) la presenza di un tessuto di piccole imprese;
d) non averlo concepito assieme a una riforma della scuola.
Sul primo punto, vale la pena ricordare che la Francia ha introdotto il sistema duale prima dell’Italia, già negli anni Novanta, e ancora non ha risolto tutti i problemi che lo riguardano.
Nel nostro caso, tre anni di attuazione non sono sufficienti per la messa a regime e per capire se può funzionare perché il sistema duale e l’apprendistato sono per loro natura macchinosi. E il dialogo sociale richiede una lunga abitudine, se non una tradizione che non possiamo certo inventarci: occorre un impegno continuo di tutti gli attori coinvolti e modelli positivi di interazione che ancora non si sono potuti sviluppare. Ad esempio, lo Stato tedesco fa poco per il sistema duale, che funziona soprattutto grazie alla capacità degli attori sociali di interagire fra loro, capacità maturata nel tempo attraverso un lunghissimo processo di learning by doing: un apprendistato dell’apprendistato. Ciò richiede non solo tempo (che non è stato dato), ma forse anche una legge che definisca meglio diritti e doveri di ciascuna delle parti coinvolte.
Il secondo punto è la crisi. Quando c’è la crisi, l’orizzonte temporale di programmazione delle scelte di personale delle imprese si riduce drasticamente: le aziende non sanno più se e quando saranno in grado di trarre vantaggio dalla formazione dei propri dipendenti. Gli effetti della formazione professionale specifica a un certo posto di lavoro richiedono tempo per dispiegarsi. Allora, meglio i contratti temporanei senza formazione professionale. E forse l’intento del legislatore oggi è proprio quello di andare incontro a questa esigenza delle imprese. Tuttavia, c’è il rischio che il provvedimento non sia risolutivo, cioè non riesca da solo a rilanciare l’apprendistato, mentre al contempo elimina un suo elemento costitutivo. Allora, forse meglio sarebbe stato aspettare tempi migliori e puntare, in questa fase, a permettere che gli operatori sviluppassero il dialogo sociale attraverso la sua pratica.
Il terzo punto riguarda la struttura delle nostre imprese, per il 90 per cento circa costituito da piccole aziende. E dunque probabilmente non dovremmo guardare solo al modello tedesco, fatto di grandi compagnie, ma a quello svizzero, più simile al nostro. Le piccole imprese sono meno organizzate e hanno meno risorse da dedicare all’apprendistato. E se i costi sono più difficili da affrontare, i vantaggi di una manodopera più qualificata sono minori. Come dimostrano i modelli teorici, la formazione specifica al posto di lavoro è fatta più di frequente nelle grandi imprese, che sono capaci di produrre il salario e di impadronirsi così della maggior parte dei rendimenti dell’apprendimento.

Leggi anche:  In agricoltura lo sfruttamento non è un destino

…INSIEME ALLA SCUOLA

Il quarto punto critico è che non si è concepito l’apprendistato come parte di una riforma del sistema di istruzione, ma piuttosto, nel caso degli under-18, come uno strumento per ripescare chi usciva dal sistema scolastico. In realtà, la riforma dell’apprendistato poteva essere un’occasione per migliorare e innovare la scuola superiore professionale e tecnica (la cosiddetta vocational), che da anni soffre perché senza una identità precisa.
Bisognerebbe quindi ripensare la legge del 1969 che ha dato la possibilità a tutti i diplomati di accedere all’università. Quella legge voleva eliminare il carattere classista della scuola di quei tempi, ma oggi occorrerebbe forse ristabilire l’idea che chi fa il liceo si può iscrivere all’università automaticamente, mentre chi frequenta la scuola tecnico-professionale vi accede solo dopo aver seguito un percorso e sostenuto un esame di accesso.

UN’UNIVERSITÀ PROFESSIONALE

In questo processo di revisione del sistema dell’istruzione, si potrebbe anche rendere più efficace la formazione terziaria. L’efficacia dipende proprio dalla flessibilità e quest’ultima dalla diversificazione dell’offerta formativa. La mancanza di percorsi alternativi alla università accademica, e quindi la rigidità dei processi attuali, porta alle disfunzioni che conosciamo: l’altissimo abbandono scolastico e universitario e il fuoricorsismo come fenomeno di massa.
Un ridisegno complessivo del sistema dovrebbe allora prevedere l’università professionale, a cui potrebbe accedere chi viene dall’istituto tecnico professionale e vuole proseguire in un ulteriore percorso formativo.
In Germania, i giovani che hanno fatto l’apprendistato, ma vogliono poi sviluppare le loro competenze in un determinato campo lavorativo, hanno uno strumento in più: l’università professionale, che forma professionalità ben precise, come ad esempio, i lavoratori addetti ai centri e alle politiche per l’impiego. Non a caso, in Germania questi servizi sono di alta qualità. Perché la qualità dei servizi passa anche attraverso una formazione avanzata e specifica del personale che vi lavora.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  In agricoltura lo sfruttamento non è un destino

Precedente

Più moralità fiscale contro l’evasione

Successivo

Una buona idea legare la retribuzione dei dirigenti della Pa al Pil?

  1. Stefano

    Non capisco perché rimuovere la libertà di accesso all’università facendola dipendere dalla tipologia di titolo ottenuto in precedenza. Io sono diplomato tecnico-commerciale e non vedo perché avrei dovuto sostenere un (peraltro inutile, dato che la mia formazione all’uscita a volte era quanto se non superiore quella dei miei colleghi liceali) esame. Mi sfugge proprio il senso logico, dell’utilità nell’ottica della riforma del sistema scuola+apprendistato. Ah dimenticavo di sottolineare: sono laureato.

    • SimoneCaroli

      Sono d’accordo, Stefano, ma credo che il prof. Pastore intendesse che bisogna dare risalto alla formazione tecnica professionale, (quella dei 3+1 anni dopo la scuola media inferiore) che può far accedere all’istruzione terziaria non accademica (istruzione formazione tecnica superiore, IFTS) ma non all’università. Beninteso, se dopo il 4° anno di diploma tecnico si vuole comunque intraprendere un percorso accademico, esiste già il 5° anno integrativo che consente l’accesso all’esame “di maturità” che abilita all’iscrizione a corsi universitari.

  2. Marina

    E’ dal 1955 che verifichiamo come l’apprendistato in Italia non funzioni, nonostante le numerose riforme (vere o fittizie). Certamente ci sono mestieri e professioni che si possono apprendere “On the job”, ma lasciamo perdere i “corsi di formazione per….”
    Non hanno mai avuto successo ( almeno che non vogliamo prendere sempre ad esempio il Trentino)
    Magari potenziamo i tirocini che tutto sommato, in occasione di valutazioni anche comparative con altre misure per l’inserimento al lavoro, hanno sempre mostrato una discreta performance.

  3. massimo Gandini

    Un tempo la scuola professionale (gli istituti professionali per l’industria e l’artigianato) erano una cosa seria. Le lezioni si tenevano per 40 ore settimanali di cui almeno 20 in officina. Adesso purtroppo gli unici che si iscrivono sono studenti extracomunitari con gravi problemi disciplinari, le attività pratiche si sono ridotte al lumicino come ultimo retaggio, non ancora del tutto superato, della licealizzazione generalizzata dissennata che aveva interessato la scuola superiore negli anni passati. Per gli istituti tecnici si dovrebbero affermare come valida alternativa all’università gli Its che, laddove funzionano, stanno dando ottimi risultati

  4. Enrico

    Prof. Pastore, perdoni la mia nota critica, ma sono completamente in disaccordo con la proposta di far accedere all’università solamente chi ha fatto il liceo.
    Non si capisce su che basi ci debba essere una tale discriminazione, nell’articolo si parla di liceo e istituti professionali (mi sto riferendo all’ITIS ad esempio), ma l’unico criterio è quello del nome della scuola (se l’ITIS si chiamasse liceo tecnico sarebbe meglio?).

    Sarebbe preferibile un confronto in termini di programmi e materie

    Personalmente ho fatto l’ITIS (ed ho anche una laurea), la preparazione scientifica non era da meno dei miei conoscenti iscritti al liceo.

  5. tobi

    Qualcuno conosce il modello alto atesino in questo campo?!

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén