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L’ultimo atto del Jobs Act. Per evitare colpi di scena

Il Jobs Act è stato approvato. È però una legge delega e perché si possa definirla la prima vera riforma del Governo Renzi è necessario che i decreti delegati non contengano sorprese su alcuni punti fondamentali. Cosa resta da definire su contratto a tutele crescenti e compensazioni.
LA DELEGA APPROVATA
La legge delega è stata approvata. Evviva. Adesso il governo può esercitarla facendo una vera e profonda riforma del lavoro. Siamo molto vicini alla prima riforma strutturale del governo Renzi, che per il resto vive di semilavorati (legge elettorale, riforma costituzionale) o di work in progress, come spesso si dice ai giovani ricercatori che tanto si impegnano, ma fanno fatica a pubblicare i loro lavori. Perché la legge delega diventi una vera e propria riforma, bisogna prestare molta attenzione ai decreti attuativi. Il diavolo, più che mai, è nei dettagli. Evitiamo colpi di scena. Vediamo i dettagli relativi al contratto a tutele crescenti. In prossimi interventi ci occuperemo degli ammortizzatori sociali.
DI QUANTO DEVE CRESCERE CON L’ANZIANITÀ AZIENDALE?
La filosofia del contratto a tutele crescenti è quella di non mettere il datore di lavoro di fronte a un muro quando assume un lavoratore con un contratto a tempo indeterminato. Con la legislazione vigente, il costo di interrompere un rapporto di lavoro di un dipendente appena assunto (una volta terminato il periodo di prova) è lo stesso che deve essere sostenuto per il licenziamento di un lavoratore con venti anni di anzianità aziendale. Il rischio di sbagliare, soprattutto nelle mansioni complesse in cui oggi si creano lavori, è molto alto. Di qui un fortissimo deterrente alle assunzioni a tempo indeterminato.
Il nuovo contratto dovrà perciò offrire il diritto a una compensazione crescente con l’anzianità aziendale, mese per mese. Nella proposta depositata al Senato ritenevamo che potesse essere di 5 giorni al mese arrivando a 6 mesi, il massimo del risarcimento delle piccole imprese, dopo tre anni, al termine dei quali terminava il periodo di inserimento e si tornava alla normativa attuale, compresa la reintegra. Il governo intende protrarre questo periodo di inserimento ben oltre i tre anni. Quindi si può supporre che il gradiente (l’aumento dell’indennità con l’aumento dell’anzianità) potrebbe essere più basso, ad esempio 2 giorni e mezzo al mese, arrivando cosi a 6 mesi nell’arco di sei anni, come nel grafico qui sotto. Riteniamo inopportuno scendere al di sotto di questo tipo di progressione. Inoltre, sarebbe appropriato abolire contestualmente il periodo di prova, facendo scattare la progressione fin dal primo mese in azienda evitando di creare un muro, per quanto più basso di prima, in partenza.
BoeriAnni
PER QUALI TIPI DI LICENZIAMENTO?
La compensazione dovrebbe intervenire per tutti i licenziamenti senza giusta causa, indipendentemente dalle cause addotte dal datore di lavoro. Bene evitare in tutti i modi di aumentare il contenzioso creando asimmetrie nel trattamento di licenziamenti disciplinari ed economici senza giusta causa. Perché il confine fra licenziamenti economici e disciplinari è molto sottile. Qualora l’asimmetria tra i due licenziamenti rimanga, i datori di lavoro avranno l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente. Questo perché, sulla carta, i licenziamenti economici costeranno meno di quelli disciplinari.
Altrettanto chiaro che un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il comportamento opportunistico fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre il reintegro del dipendente.
È invece possibile, anzi auspicabile per ridurre il contenzioso, prevedere una compensazione obbligatoria anche nel caso di licenziamento economico giustificato, come avviene in altri paesi. Il gradiente, in questo caso, dovrebbe essere più basso, tipo un giorno al mese di anzianità aziendale. Da valutare anche la possibilità di introdurre una forma di “rupture conventionelle” come quella che ha avuto grande successo in Francia, in cui il datore di lavoro, in caso di licenziamenti economici, offre in partenza una compensazione al lavoratore che, se accettata, escluderà qualsiasi futuro ricorso ai giudici. Chiaramente la compensazione dovrà essere superiore a quella dei licenziamenti economici giustificati e inferiore a quella dei licenziamenti senza giusta causa. Altrimenti non sarà vantaggiosa né per il lavoratore né per il datore.
LE PICCOLE IMPRESE
Ci sono diverse ragioni per ritenere che sia giusto prevedere compensazioni più basse per le piccole imprese. Ad esempio, il gradiente per loro potrebbe essere di un giorno e mezzo al mese, arrivando così ai 6 mesi di massinma compensazione oggi previsti dopo 10 anni . Sempre per le piccole aziende meglio ridurre al massimo la complessità e non prevedere compensazioni per licenziamenti economici giustificati e la “rupture conventionelle”. Inoltre, le imprese che superano la soglia dei  15 dipendenti devono passare interamente alla nuova normativa. In altre parole il nuovo contratto a tutele crescenti per queste imprese si deve applicare alla totalità dei lavoratori, non solo ai nuovi assunti. Questo serve per evitare di dissuadere le imprese a crescere come avviene oggi. Al tempo stesso i lavoratori di queste imprese non hanno mai avuto la reintegra. Quindi non si interviene su diritti acquisiti.
La differenza di tutele per imprese di diverse dimensioni può sembrare arbitraria. Tuttavia, è un fenomeno che esiste in diversi paese e ha un fondamento economico e pragmatico. I motivi principali sono sostanzialmente due. Da un lato, le piccole imprese hanno maggior facilità di monitorare il comportamento dei propri lavoratori e quindi possono avere meno necessità di ricorrere al licenziamento come strumento necessario a disciplinare il comportamento del lavoratore. In questa prospettiva, è meno necessario ridurre la possibilità dell’impresa di interrompere il rapporto di lavoro con disincentivi monetari. In aggiunta, le condizioni di liquidità delle piccole imprese sono quasi sempre peggiori di quelle delle grandi imprese. Se i costi diventano troppo elevati, le imprese rischiano di trovarsi impossibilitate a interrompere rapporti di lavoro in quanto i costi sono per loro insostenibili. Non a caso, le piccole imprese finiscono spesso per simulare un fallimento o una chiusura soltanto per evitare un costoso licenziamento.
COSA FARE DEGLI ALTRI CONTRATTI?
Una delle questioni più delicate riguarda il destino degli altri contratti. Riteniamo che l’attenzione debba essere principalmente su quelli a progetto. Uno dei veri problemi del mercato del lavoro italiano è il cosiddetto lavoro parasubordinato, ossia la condizione di un lavoratore giuridicamente autonomo benché di fatto svolga mansioni del tutto simili a quelle dei lavoratori dipendenti. Spesso questi tipi di lavoratori, generalmente regolati da un contratto a progetto o da un collaborazione coordinata e continuativa (ove possibile, cioè nel pubblico impiego), hanno in realtà un solo contratto con un solo datore di lavoro. Riteniamo pertanto che per i lavoratori a progetto a mono-committenza con un salario inferiore a una certa soglia, i decreti delegati debbano prevedere che tali contratti siano automaticamente trasformati nel contratto a tutele crescenti, come già prevedevamo nella nostra vecchia proposta.
L’idea alla base di questa proposta è che la precarietà sia un problema serio soltanto quando i salari sono mediamente bassi, mentre per i salari sufficientemente alti il problema non si pone quasi. La nostra proposta del 2010 fissava in 25mila euro il tetto di conversione dei contratti a progetti in tempo indeterminato per i lavoratori monomandatari. Ovviamente, e coerentemente con l’idea del contratto a tutela crescenti, questa modifica dovrebbe valere solo per i nuovi contratti.
 
 
 
 
 

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I compro-oro, miniere di un tempo di crisi*

  1. Hk

    Considerazioni assai condivisibili se l’obiettivo fosse il miglioramento della capacità di competere del nostro paese. Da imprenditore mi sembra invece che il vero obiettivo perseguito sia il trasferire i costi della disoccupazione direttamente alle imprese. Quindi alla fine un altro aumento del costo del lavoro. Che addirittura finisce per premiare i peggiori comportamenti. Cosa di cui, nella sua audizione, aveva ben avvisato.

  2. pier luigi tossani

    jobs act: contrariamente a quello chi si pensa, il problema vero è nella partecipazione dei lavoratori all’impresa..e quella è fuori dalla portata concettuale di Renzi.

  3. Danilo

    Io cercherei di eliminare i piccoli trucchi che fanno gli imprenditori. Ad esempio quello di fare contratti a tempo deteminato a società che esistono solo sulla certa. Così una persona va avanti anni passando da una società all’altra e sempre sotto ricatto. Un empo determinato è un lavoro a tempo… DETERMINATO. Non è possibile fare anni e anni nello stesso posto e con le stesse mansioni con contratti semestrali. Riguardo il commento di Kh, penso che di veri imprenditori in Italia non ce ne siano tanti. E penso che molti taglino anche solo per potere continuare a comprare la macchina alla moglie ed ai figli tirando al massimo i dipendenti e lasciando a casa chi possono. Facciano investimenti e si prendano i costi di ciò che causano.

    • Hk

      Gentile Danilo,
      Le do certo ragione nel ritenere che ci sia una miriade di “prenditori” che vivono grazie ad aziende che sono come quelle alle cronache questi giorni. Per quel poco che posso dirle delle aziende, quelle che non vivono da cortigiane non gradiscono i rapporti mordi e fuggi con i collaboratori. Eventualmente sono il risultato di altre anomalie. Consideri che ci sono molti più Imprenditori che si sacrificano per l’impresa ed i collaboratori che non viceversa pur essendo il numero di questi ben superiore ai primi. Comunque gli scarsi risultati della nostra economia, la dilagante disoccupazione giovanile, l’incertezza o meglio la certezza di declino nel futuro sono anche il risultato di una prevalente cultura anti aziendale ed anti imprenditoriale. Ma se questo è il pensiero prevalente che lei ben esprime beh allora godiamoci ed impoveriamoci.

    • Amegighi

      Condivido il commento, negativamente incredulo per il sotterfugio segnalato. Evidentemente ormai lo sport nazionale è fregare lo Stato da qualsiasi parte si stia (e forse questo è un altro gravissimo problema di difficile risoluzione a meno di non trasformarci in una Corea del Nord).
      Condivido soprattutto il commento sui veri imprenditori. Lavoro nella Ricerca e sono stato (e sono) spesso all’Estero in altre realtà europee e americane. In primis ho spesso interagito con imprenditori che a volte sapevano anche più di me, ciò di cui si stava parlando. Gli spin-off insegnano da che parte stanno andando le “piccole imprese” occidentali. Alta tecnologia e specializzazione scientifica, unico modo per competere con chi ha costi del lavoro irraggiungibilmente minori.
      Discutere con persone che producono webcam o pannelli solari e che non sanno niente dei software di video tracking o di pannelli solari biologici, o con imprenditori del campo farmaceutico che non conoscono la biologia molecolare è, oltre che frustrante per chi può proporre idee, anche totalmente demotivante sulle possibilità future dell’economia italiana nella concorrenza mondiale e globale.
      Un solo dato su cui pensare: nel 2020 la ricerca cinese produrrà più pubblicazioni nel campo della scienza di base e dell’ingegneria, degli stessi USA (fonte National Science Foundation, USA). Sarà la prima volta da quando sostanzialmente esistono gli Stati Uniti……..

  4. Michele

    Se oggi solo il 16% dei contratti è a tempo indeterminato, è davvero quello il problema per cui si devono ridurre i diritti dell’articolo 18, ad esempio?
    In relazione all’articolo, ok, ma il contratto a tempo determinato non dovrebbe sopperire a ciò? Ossia , banalmente, se all’inizio “valuti” il dipendente con il determinato per capire se è idoneo, poi non ci dovrebbero essere più motivi per tutto il resto del discorso.
    Considerando che oggi il tempo determinato è stra abusato, non oso immaginare in futuro.. In attesa di capire i dettagli del jobs act.

  5. Giulio Fedele

    Come sostengo da tempo, l’unico intervento del legislatore veramente utile dovrebbe essere propprio quello diretto a semplificare il quadro normativo, evetando una proliferazione di nuove norme da aggiungere alla babele già esistente, spesso addirittura illegittime (come ad es. la riforma Poletti del contratto T.D.). E semplificare significa innanzitutto ritornare al sistema ‘naturale’, duale del rapporto di lavoro -autonomo o subordinato- eliminando gli ibridi (c.d. lavoro parasubordinato), mere finzioni giuridiche inventate dalla fervida fantasia dei nostri ‘moderni’ giuslavoristi, ma in realtà inesistenti ‘in natura’, anzi contro natura. Non esiste ‘in natura’ un tertium genus di lavoro che non sia né autonomo né subordinato (la pretesa ‘legittimazione’ della parasubordinazione non può desumersi da una non pertinente norma meramente processuale, art. 409, 3° c., cpc, forzosamente abusata e piegata ad una interpretazione che non regge ad un’analisi critica obbiettiva), il lavoro o è l’uno o è l’altro. E si sa che, quando si cerca di coartare o, peggio, violentare la natura, questa si ribella. Infatti, tutti i problemi (e le vertenze) che nascono in sede di interpretazione e applicazione delle norme in materia di lavoro c.d. parasubordinato, come tutte le difficoltà per definire le medesime (si veda da ultimo la riforma Fornero, vero monumento alla chiarezza e alla ragione!) nascono proprio di qui, perché si è finito per creare una selva di norme veramente inestricabile.

  6. Leonardo P

    Una domanda collaterale.
    Al di là della semplicità di calcolo, il fatto che nel grafico la curva della severance sia lineare rappresenta una condizione ottimale?
    Perché magari dando una conformazione diversa alla curva si potrebbero indurre incentivi migliori. Per esempio mi immagino che una severance “concava” -ossia che riduca l’incremento di compenso all’aumentare dell’anzianità- possa indurre un incentivo alla crescita del lavoratore in azienda, cosa che può essere ritenuta desiderabile.
    Detta terra terra, “costerebbe” meno un contratto da 10 anni rispetto a 5 da 2, e magari questo può rivelarsi in qualche modo determinante, soprattutto in quei settori dove la formazione professionale non rappresenta un costo significativo per l’azienda.
    Mi piacerebbe avere un parere a riguardo.

  7. Sì, il problema si pone se ci sono contratti:ma se non ci sono? Sarà cultura, popolare e diffusa, ma il fenomeno che comprende le molte piccole e medie imprese in tutto il paese ,o quasi, che “assumono” senza alcun contratto scritto e dichiarato al fisco e alla previdenza sociale e il fatto che altrimenti le lavoratrici, i lavoratori, anche se apprendiste o apprendisti, se c’è un pezzo di carta ,quasi quasi anche un voucher per il lavoro occasionale,se non c’è continuità nell’impiego da parte della datrice o del datore di lavoro, si rivalgono in caso di licenziamento. E comunque, realmente, per chi assume, ci sono le tasse da pagare sull’assunzione. E i contributi. E’ giusto pensare a uno schema teorico,sia da parte degli economisti, in questo caso voi autori, sia da parte del Parlamento che ha ricevuto queste riflessioni, ma si tratta di questioni che nella realtà, forse spesso, non si pongono. Ci sono le amare constatazioni quotidiane sia quando si chiede di lavorare e non si deve parlare di contratto, sia di chi osserva i fenomeni criminali e la relazione con le imprese: il prestito alle imprese,come il lavoro sommerso di quelle stesse imprese che si rivolgono alla criminalità ,e la manodopera di quelle imprese che figurano tra quelle esistenti, a volte no ma a volte sì,mai in regola con assunzioni, salari, tasse e contributi.

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