Il nuovo libro di Luigi Zingales è una lunga riflessione sul passato e sul futuro dell’euro e dell’economia italiana. Errori di partenza e problemi dovuti a una specializzazione produttiva impermeabile alla rivoluzione delle nuove tecnologie.
L’ITALIA E L’EURO
L’argomento più importante di cui si dibatte in questa campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo 25 maggio è senza dubbio l’euro. Alcuni partiti fanno dell’uscita dalla moneta unica il loro principale punto programmatico. Altri promettono di chiamare gli italiani a decidere sulla questione mediante un referendum. Qualche talk show propone addirittura un settimanale scontro gladiatorio, seppure con armi d’impatto limitato come lavagne e pennarelli, tra esponenti pro o contro l’euro. È perfetto allora il tempismo con cui è stato pubblicato il nuovo libro di Luigi Zingales, “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”. Non è un vezzo dire che l’autore non ha bisogno d’introduzione. Mi limito a ricordare che è l’attuale presidente della prestigiosissima American Finance Association.
Nel libro, Zingales si chiede in primo luogo perché l’Italia sia entrata nell’euro con tanto entusiasmo e senza quasi valutarne le conseguenze. La sua risposta viene dalla storia economica italiana. Il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 che aveva contribuito (assieme alla politica monetaria restrittiva della Fed di Volcker) a sconfiggere l’inflazione, non aveva però dato i risultati sperati in termini di capacità di tenere sotto controllo i conti pubblici. Il debito pubblico italiano passò dall’essere il 56 per cento del Pil nel 1980 al 121 per cento nel 1994. La maggiore responsabilizzazione della classe politica, che avrebbe dovuto discendere dal dover finanziare il debito sul mercato dei capitali, semplicemente non ci fu.
Al contempo, con la liberalizzazione dei capitali del 1987 e con l’adesione allo Sme, l’autonomia della politica monetaria italiana si era in ogni caso ridotta. Legarsi le mani all’albero della moneta unica, beneficiare della credibilità tedesca, che avrebbe indubbiamente permeato le azioni della Bce, sembrava alla classe politica italiana degli anni Novanta la quadratura del cerchio. Una strategia che parve dare i suoi frutti per alcuni anni, con tassi di interesse molto bassi (quello che alcuni chiamano il dividendo dell’euro).
Ma, ricorda Zingales, quel processo di adesione acritico portò ad almeno due errori. Il primo fu quello di non rinegoziare il debito pubblico e quello pensionistico. L’inflazione riduce l’onere reale che grava sul debitore che può pagare in una valuta che nel tempo diventa più “leggera”. Passare dalla lira all’euro aveva l’effetto opposto: rendere molto più pesante il debito pubblico e quello pensionistico, zavorrando l’economia italiana per decenni.
Il secondo errore fu commesso a livello europeo, nella regolamentazione bancaria. Imponendo di considerare i titoli di Stato come privi di rischio, si incoraggiò un perverso legame tra bilanci del settore bancario e del settore pubblico, i cui effetti deleteri si sarebbero manifestati in pieno nella recente crisi. Ma, ci ricorda lo stesso autore, un conto è chiedersi se era opportuno entrare allora nell’euro e un conto è chiedersi se è opportuno uscirne oggi.
USCIRE O NO? UN’ANALISI COSTI-BENEFICI
Zingales cerca di effettuare un’analisi costi-benefici della scelta di restare o uscire dall’euro. E parte ricordando che i costi del restare non sono trascurabili. L’incapacità di usare il meccanismo della svalutazione della moneta rende più lungo e doloroso il processo di riequilibrio dell’economia italiana, prolungando la recessione e portando la disoccupazione a livelli elevatissimi. Per ridare competitività alle economie dei paesi della periferia europea sarebbe importante che il livello dei prezzi della Germania aumentasse più velocemente di quello italiano e spagnolo. L’alternativa è una dolorosissima deflazione nei paesi periferici, prospettiva ormai concreta. Purtroppo, i governanti tedeschi sembrano del tutto refrattari a queste ipotesi e la Germania condiziona pesantemente anche le azioni della Bce, impedendole di attuare le stesse politiche di quantitative easing usate da Fed, Bank of England e Bank of Japan.
In queste pagine, Zingales rende bene l’idea dell’euro come camicia di forza, come qualcosa che ci lega all’albero di una barca che pare stia per affondare, fino a sembrare iscriversi al partito degli euroscettici. Poi si chiede anche quali sarebbero le conseguenze dell’uscita dall’euro e conclude che anche queste comporterebbero costi significativi. Un capitolo del libro ripercorre le vicende dell’Argentina dopo la rottura della parità con il dollaro, ricordando le banche chiuse per giorni, la perdita di valore dei risparmi, la ripresa dell’economia dopo la svalutazione, ma anche la ripresa dell’inflazione e il permanere di tutti i mali cronici dell’economia argentina. Zingales teme che il settore bancario uscirebbe a pezzi dall’abbandono dell’euro, inducendo il salvataggio dello Stato, rafforzando in tal modo l’intreccio tra banche e governi.
Sull’entità di costi e benefici di breve periodo dall’uscita dall’euro, vista l’imprecisione delle stime, è lecito essere in disaccordo, concede l’autore, che allora allunga l’orizzonte della sua analisi e si chiede quale sia il problema di lungo periodo dell’economia italiana. La risposta non è originale e, anzi, assai condivisa: dalla metà degli anni Novanta, l’Italia ha visto arrestarsi la crescita della sua produttività. È questa la vera origine degli attuali squilibri. Ma cosa ha causato il rallentamento della produttività? Vista la simultaneità con il processo di avvicinamento alla moneta unica e con la progressiva perdita di flessibilità del tasso di cambio, una possibilità è che i due fenomeni siano legati. Nel libro Il tramonto dell’euro, volume che contiene l’analisi più puntuale e rigorosa delle argomentazioni euroscettiche, Alberto Bagnai sostiene che sia stato lo shock negativo di domanda causato da un cambio sopravvalutato ad aver compromesso la produttività.Zingales, tuttavia, citando un suo lavoro (al momento purtroppo non disponibile sulla sua pagina web), scarta questa ipotesi e ne propone un’altra. La specializzazione produttiva italiana (sia in termini di settori che di dimensione delle imprese italiana) è stata tale da rendere impossibile o comunque inefficace l’adozione dell’Information and Communication Technology (Ict), che è invece alla base del boom di produttività osservato in altri paesi. Troppe imprese in settori obsoleti oppure esposti alla concorrenza di produttori di paesi emergenti, che godono di incolmabili vantaggi di costo. Troppe piccole imprese, desiderose di restare piccole per rimanere opache al fisco, e quindi incapaci di beneficiare dalle nuove tecnologie. Se questa è la causa della bassa produttività, uscire dall’euro servirebbe a ben poco nel lungo periodo.
Il verdetto di Zingales è che al momento convenga restare nell’euro, cercando di adottare misure come un sussidio di disoccupazione europeo che agisca come meccanismo di trasferimento dai paesi che sono in una fase positiva del ciclo economico verso quelli che invece sono in difficoltà e avere una banca centrale meno ossessionata dai dogmi tedeschi sull’inflazione. Zingales non vedrebbe male uno scenario in cui sia la Germania a uscire dalla moneta unica, ma consiglia di essere pronti a considerare seriamente l’opzione di uscita italiana dall’euro.
Un libro lontano dalla retorica europeista che ha dominato l’informazione negli anni passati, ma che al contempo cerca di mantenere lo sguardo oltre l’orizzonte della campagna elettorale. Come sempre, ho letto con interesse le riflessioni di Zingales, anche se confesso qualche perplessità verso le digressioni storiche e filosofiche di cui il libro è ricco, non sempre utili a sviluppare la tesi principale. Ci sono punti in cui avrei invece preferito maggiore dettaglio. Ad esempio, i tassi d’interesse scesero in tutti i paesi negli anni Novanta e non solo quelli nell’area euro, considerazione che rende complicata la valutazione del cosiddetto dividendo dell’euro. Anche qualche ulteriore riflessione sul ruolo e sugli strumenti che dovrebbe avere la BCE guidata da Draghi sarebbe stata importante. Nel suo libro Zingales considera in modo assolutamente positivo la libertà di movimento di capitali. Eppure alcuni economisti di livello internazionale iniziano a considerare l’opportunità di restringere tale mobilità per rendere meno acute le fasi di crisi. Sul ruolo della struttura produttiva italiana e l’impatto dell’Ict avrei preferito che l’autore andasse con l’analisi a un maggiore livello di profondità, vista la centralità della tesi. Se la causa della bassa produttività italiana è la sua struttura produttiva, quali sono gli strumenti di politica economica che possono essere usati? E quanto lunga sarà la transizione verso un nuovo equilibrio? Cosa può essere fatto nel frattempo per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro?
Il libro ha certamente molti pregi, tra cui il principale è, per me, quello di avere cercato di mettere in luce costi e benefici delle scelte che riguardano l’euro con uno sguardo distaccato e con alcuni spunti di analisi originali. Un libro ben scritto e bene argomentato, che si legge velocemente e che è senza dubbio un’utile lettura per chi voglia formarsi un’opinione sull’euro e sul suo futuro.
Luigi Zingales, Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire, Rizzoli (2014), pp. 206
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
stefano cianchetta
Aggiungo il grafico dal blog Goofynomics di Bagnai:
http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/declino-produttivita-flessibilita-euro.html
“Il fatto stilizzato par excellence dell’economia italiana, negli ultimi venti anni, è questo:
http://2.bp.blogspot.com/-Gmlhw93wCMQ/UYF1eSZcBPI/AAAAAAAAATk/oCrMZUPBlqk/s1600/Dec_04.JPG
In verde trovate la produttività del lavoro (ALP, average labour productivity). In rosso il tasso di cambio lira/ECU (lire per ECU), che dal 1999 diventa il tasso di cambio irrevocabile con l’euro.
…
Per chi ama le misure, le due serie hanno una correlazione di 0.973 in livelli e di 0.431 in tassi di variazione, entrambe significativamente diverse da zero: c’è poco da dire, le due serie si muovono insieme, e in particolare, è visibile, si fermano insieme. Nel 1996, dopo aver raggiunto un picco di svalutazione, l’Italia rivaluta, e da quell’anno la crescita della produttività pare arrestarsi”.
Maurizio Cocucci
Ho provato a leggere l’articolo ma francamente è una vera impresa districarsi tra offese, citazioni fastidiose (Norimberga releghiamola al contesto storico in cui è caratterizzata, non in discussioni di economia), divagazioni spesso incoerenti e affermazioni di cui non si capisce il senso. Insomma un articolo ricco di qualche spunto che però non seguendo un filo logico continuo non può essere valutato adeguatamente e così non si ha la possibilità di replicare o viceversa di apprezzarlo (nel caso dimostrasse qualcosa di interessante).
stefano cianchetta
E’ ciò che rende il blog divertente oltre che ricco di spunti potremmo limitarci a commentare il grafico.
Che altro accadde nella seconda meta degli anni ’90 che atterrò la crescita della produttività?
Massimo Matteoli
Una domanda da non economista: se le imprese italiane non sono né efficienti, né produttive per quale motivo da almeno 10 anni, nonostante l’euro verrebbe voglia di dire, stanno sommando record su record nelle vendite sui mercati esteri, cioè nei luoghi dove è massima la concorrenza sia dei paesi a più basso costo del lavoro che di quelli più produttivi ?
Come può l’ Italia delle piccole imprese e dei distretti industriali tenere testa ai giganti mondiali dell’export (Germania. Giappone, Cina, tanto per avere chiaro di cosa si parla) nonostante tutti i grandi economisti ed esperti non facciano altro che cantarne il de profundis?
Non vorrei sbagliare ma temo che i professori e gli esperti guardino troppo le realtà della grande impresa straniera e non abbastanza le piccole e medie imprese, che non a caso fioriscono di preferenza nelle piccole e medie città italiane base dei nostri distretti industriali.
C’è lì qualcosa che sfugge alla loro analisi macroeconomiche e quantitative che, evidentemente, fa la differenza sui mercati.
accaldato
In effetti in Italia stiamo constatando un boom economico e produttivo senza precedenti, con un fiorire di piccole e medie imprese esportatrici, grazie anche a un credito alle imprese cospicuo e a buon mercato. Il tasso di disoccupazione è molto basso e la cassa integrazione è quasi scomparsa. Insomma, la sua pensione è al sicuro, gentile Sig. Matteoli.
stefano cianchetta
Dal Foglio: “O l’Eurozona si autoriforma nei prossimi 18-24 mesi – conclude [Zingales] l’economista di Chicago – oppure i costi di rimanere cominceranno a eccedere i benefici e l’uscita diventerà il male minore”. http://www.ilfoglio.it/soloqui/23026
Apprezzo che Zingales riconosca il tratto fortemente antidemocratico del percorso UEM promosso da forze nominalmente di sinistra (ordo-liberismo versione von Hayek più mercantilismo tedesco).
Comunque, le soluzioni di Zingales proposte nel dibattito con Fubini (sussidio di disoccupazione europeo / uscita della Germania) richiedono un livello di cooperazione che evidentemente è mancato e probabilmente mancherà. Quindi, come riconosce Zingales, è assolutamente razionale preparare il piano B. https://www.youtube.com/watch?v=AqT0d6OaZSM
Riporto anche un commento di Barra Caracciolo circa la posizione sostenuta al convegno di a/simmetrie sull’euro dall’On. Fassina sullo stesso punto (cooperazione dai paesi core?)
Una cosa affermata in quel dibattito da Fassina contiene in sé una obiettiva verità: se si guarda all’effettivo contenuto dei trattati, e quindi al disegno consolidato che perseguono, incentrato com’è, fin dallo SME, sul coronamento di un modello socio-economico legato al vincolo monetario “one size fits for all” (con tutte le sue implicazioni), immaginare un’euroexit concordata esigerebbe una convergenza, un’apertura alla revisione dei rapporti di forza, almeno pari a quella della stessa revisione dei trattati.
Quest’ultima implicherebbe, infatti, per essere risolutiva, un sacrificio della Germania (sicuramente da essa come tale percepito): cioè l’adesione da parte sua ad un’idea cooperativa che forzi le sue politiche economiche verso un’espansione della sua domanda interna, con una controcorrezione prolungata (e simmetrica) dei tassi di cambio reale e della crescita reale dei salari, che è contraria sia alla monolitica pretesa di percorrere una correzione gold-standard fatta propria dalle istituzioni UE, sia alla stessa tradizione mercantilista della Germania.” http://orizzonte48.blogspot.it/2014/04/euro-exit-concordata-o-disordinata-da.html
Qui il video http://www.asimmetrie.org/news/uneuropa-senza-euro-costi-e-benefici-per-famiglie-e-imprese-nelle-proposte-di-economisti-e-politici-europei/
Rebel Ekonomist
Sul fatto della “specializzazione produttiva italiana” come problema della produttività ricordo che avevamo fatto qualche lezione a Novara in cui si diceva proprio quello. Forse è stato fatto anche qualche lavoro (vado molto a memoria) in cui i confermava la tesi di Zingales. Vi era poi tutta la questione dei distretti industriali in ballo.
rosgio
Non mi risulta che avevamo perso competitività. Le cose stanno un po’ diversamente. Nino Galloni ci ha spiegato come il progetto criminale di come deindustrializzarci e chi ci ha venduto alla Germania e all’Europa criminale. L’Argentina agganciando si ad una moneta forte come il dollaro ha pagato cara la pelle;
la storia non insegna nulla ma è normale con questa classe politica. Bisogna fermarli e subito e riprenderci le chiavi di casa prima che vendiamo gli ultimi gioielli come l’oro che vorrebbero mettere in un fondo così che verrebbe aggredito dalla finanza e dalla speculazione.
Piero
Almeno Zingales ha il coraggio di prendere una posizione critica sull’euro e sui suoi effetti negativi, i cittadini dei paesi meridionali aderenti all’euro dovranno decidere se accettare una politica di rigore che prevede una riduzione dei salari dei lavoratori, per pagare il debito pubblico accumulato oppure creare un’area valutaria per le loro economie, non si parla di ritorno alle valute nazionali, ma di creare un’area valutaria denominata euro2, area che potrebbe essere anche estesa ai paesi che sono fuori dall’euro come la Polonia, la Romania ecc. naturale che a questo punto, voglio vedere il comportamento della Merkel, esce dall’euro, così non lo condiziona più, oppure permette a Draghi di fare la vera politica monetaria di cui necessità oggi l’Europa, non sarebbe altro che le stesse misure adottate dalla Fed, invece di 80 miliardi mese, sarebbero sufficienti anche 60 miliardi mese di QE sul secondario proquota di tutti gli stati per almeno 5 anni.
Ho letto il libro di Zingales, tutto perfetto, non condivido il paragone fatto con l’Argentina sull’uscita dall’euro dell’Italia, abbiamo due situazioni molto diverse tra loro due economie molto diverse, non è paragonabile; al contrario un esempio l’Italia lo ha vissuto con l’uscita dallo Sme, succederanno le stesse coste, solo che abbiamo in più i costi per stampare la nuova valuta.
Roberto
Buongiorno, mi ha convinto leggerò con interesse il libro. L’unica cosa che non mi convince affatto è quando parla di perfetto tempismo nella pubblicazione di questo volume. Sono certo che nessuno di noi, anche se bravo, vorrebbe incontrare un medico al pronto soccorso con tale velocità di analisi e tempismo.
Marcello Esposito
Non ho ancora letto il libro ma dal resoconto emergono parecchi punti deboli. Il primo riguarda quello che secondo Zingales l’italia avrebbe dovuto fare prima di entrare nell’euro: rinegoziare i debiti. Rinegoziare i debiti pensionistici è stato fatto e nell’arco di quasi 20 anni, a partire dalla grande riforma che ha introdotto il contributivo fino alle ultime code della riforma Fornero. Rinegoziare il debito pubblico vuol dire “defaultare” e, quindi, suicidarsi. Può sembrare una cosa semplice se la si disegna alla lavagna, ma qualunque paese a qualunque latitudine cerca con tutte le forze di evitarlo. Tra l’altro, Zingales dimentica che esistevano delle condizioni per entrare nell’euro, ma questo è un punto “tecnico” e “politico” che può essere eluso se si ragiona in termini puramente astratti. L’altra cosa che mi lascia estremamente perplesso è il presunto errore per la regolamentazione bancaria di considerare i titoli di Stato come risk-free. Questo è il fondamento su cui si basa qualunque sistema bancario evoluto e su cui si basa lo stesso sistema bancario americano. La crisi dell’euro è sorta proprio perchè ci siamo resi conto, con la Grecia, che un emittente sovrano in Europa può fallire. L’obiettivo che ci dobbiamo porre è come fare per evitare che un emittente sovrano possa fallire in futuro. Ci siamo imbarcati in fiscal compact, six pack, fondo salva-stati, “whatever it takes” mica perchè avevamo voglia di farci del male. Anche perchè la proposta di ZIngales, presupponendo l’eliminazione di un backstop per il mercato dei titoli di stato, genererebbe fenomeni di sunspot che metterebbero facilmente a rischio il sistema finanziario europeo (e quello mondiale) soprattutto in un contesto istituzionale debole come quello europeo. La crisi dello spread del 2011-2012 non sarebbe più arrestabile se le banche dovessero mai considerare i titoli di stato come attività a rischio. Tra le soluzioni, anche l’idea che la Germania possa uscire e il resto d’Europa continuare come se nulla fosse, denota una scarsa conoscenza dei meccanismi politici europei (vi ricordate che la Spagna si rifiutò a metà anni ’90 di fare compagnia all’Italia fuori dall’euro? pensate che la Francia accetti di lasciare andare la Germania per unirsi a Italiani, portoghesi, ….) e del funzionamento del mercato: quando ci fu la crisi dello spread, Uno dei trade che andava di moda per guadagnare sull’euro break-up era quello di acquistare protezione (via cds) su francia e vendere protezione su italia. Se l’Italia è fuori, la francia è fuori … quindi tanto vale sfruttare il carry dell’Itaia. Pensare che il mercato ritenga credibile e duratura una unione monetaria di paesi deboli è pura illusione.
Michele 39
Per quello che vale, sono molto d’accordo. Queste osservazioni, nel loro rigore logico, prima ancora che economico, sembrano tra l’altro poter offrire basi abbastanza solide ad una sorta di “libro bianco” con il quale, guidati da Frracia e Italia, fondatori dell’Ue, tutti Paesi dell’Eurogruppo, ma direi anche di tutti gli altri fra i 28 che versano in oggettive difficoltà, potrebbero tentare di convincere il “ceto politico” germanico (uso consapevolmente un termine generico), di una tesi di Ugo La Malfa, purtroppo sempre inascoltata dai nostri politici. E cioè che l’idea che le aspettative dell’opinione vadano sempre assecondate in nome del consenso, anche errate e indotte da miti, prima inseguiti poi alimentati dai media, sia un’idea corruttrice. Qualcosa che prima indebolisce i gruppi dirigenti e alla fine li priva del tutto dello stesso potere che mirano a salvaguardare assecondando ogni tendenza, purché ampia e magari “gridata”. Le pesanti ipoteche populistiche sul potere che ovunque in Europa prendono forza, non solo non smentiscono, ma a ben guardare, danno forza a quella tesi. In altre e più semplici parole, il dibattito scientifico ha ormai prodotto risultati più che sufficienti per la formulazione di una proposta politica di correzione degli errori nella gestione dell’Euro e dei suoi effetti più o meno previsti e prevedibili, palesemente molto più saggia, praticabile e in definitiva corretta di un suo smantellamento che rischierebbe di innescare un processo capace di riportare la storia europea indietro si un secolo, al 1914 e dintorni.
michele 72
Quelli che oggi criticano l’euro come i berlusconiani ricordo che ci avevano regalato la calcolatrice pensando che bastasse capire il cambio invece di preoccuparsi di evitare che 1000 lire diventassero 1.000 euro. Continuiamo a dare colpa a tutti ma noi siamo stati protagonisti del nostro male e ora la soluzione è uscire dall’euro? Ma vergognatevi. Siete una banda di cialtroni.
Ivan Commisso
Zingales scopre l’acqua calda. Molto meglio di lui e anni prima di lui, Alberto Bagnai, con il suo libro “Il tramonto dell’euro” e il suo blog http://www.goofynomics.blogspot.com, ha ben descritto quello che stava accadendo e le conseguenze che avrebbe avuto.
Zingales ancora insiste con il parallelo svalutazione-inflazione ma tutte le ricerche in cui mi sono imbattuto (anche su questo sito) dimostrano che il coefficiente di trasferimento svalutazione-inflazione è molto inferiore all’unità.
Inoltre si insiste con la produttività: ma siamo proprio sicuri, alla luce di tutte le evidenze che abbiamo, che sia un problema di offerta? I dati, drammatici, dicono che siamo di fronte ad un enorme problema di domanda e qui si insiste sulla produttività.
Ma almeno un’occhiata ai dati di investimento in percentuale del PIL di Italia e Germania (fonte: FMI) scrittori e commentatori li hanno studiati? Se li avessero studiati avrebbero scoperto cose interessanti, tipo che l’Italia investe molto più della Germania da un quindicennio a questa parte.
Chiosa finale: straordinari i difensori del libero mercato a cui però piace tantissimo la dittatura del cambio fisso, ossia la negazione logica del libero mercato.
Maurizio Cocucci
Ho letto il blog ma alcuni argomenti non li trovo convincenti. Ad esempio proprio il significato che si vuol dare dalla comparazione del rapporto investimenti/Pil. Mi sembra che da solo sia poco significativo. Mentre quello sulla produttività lo è già di più tant’è che nell’unire le due cose potrebbe indurre a pensare che l’Italia ha investito di più ma male dato che alla fine la produttività è inferiore a quella della economia tedesca. Il valore degli investimenti ad esempio è poi influenzato anche dalle dimensioni delle aziende. Un esempio semplice: se una azienda fattura il doppio di un’altra ma entrambe acquistano lo stesso bene, l’incidenza sul fatturato della prima è inferiore rispetto all’altra. Inoltre anche ragionando in termini proporzionali (al volume di produzione realizzata) si deve tenere conto del fattore ‘economia di scala’: più aumentano le dimensioni e meno pesano i costi fissi, quindi anche gli investimenti. Nel caso specifico la Germania ha inoltre investito molto all’estero al fine di delocalizzare una parte considerevole della produzione dal basso valore aggiunto e questo nella statistica che lei richiama non viene considerata.
La tesi del prof.Bagnai vuole la moneta unica adottata in un’area non ottimale la ragione principale della crisi del nostro sistema economico, eppure guardando ai dati dell’export possiamo verificare che il trend italiano è tra i migliori dell’Eurozona. Il nostro problema è la domanda interna, non quella estera.
stefano cianchetta
Qualche problemino nell’export lo abbiamo avuto:
“If Italy’s real exchange rates had evolved in a similar way to Germany’s since the beginning of 1999, Italy’s export growth would have almost matched that of Germany’s, while in reality it was less then one third its size. Traditional export equations are a useful tool to quantify the respective roles of income and prices for export developments. These equations explain export developments by changes in (i) foreign demand and (ii) price competitiveness. (vedi tabella IV.2). The equations can also be used to assess the contributions of various determinants to export growth during 1999-2008 (see Table IV.2). The simulations show that foreign demand was the main driver of exports but price competitiveness was key for explaining differences in export performance across euro-area countries. The comparison between Germany and Italy is informative of the role played by price competitiveness. Economic and Financial Affairs Directorate-General European Commission” (pagine 25-26)
http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/qr_euro_area/2010/pdf/qrea201001en.pdf
AM
La caduta della domanda interna è stata inizialmente scatenata dall’aggravio fiscale. In particolare l’IMU, una patrimoniale pesante suggerita all’Italia dalla Bundesbank, ha spaventato molti italiani che memori dell’inflazione avevano investito i loro risparmi nel mattone.
rob
In Italia è in atto una vera nuova lotta di classe, tra una burocrazia enorme, invadente, improduttiva, asfissiante vecchia che sta cercando in tutti i modi di difendere i suoi privilegi (ormai indifendibili) e una parte ( minoritaria) del Paese attiva, produttiva, intraprendente che rischia sulla propria pelle tutti i giorni. Se la burocrazia fosse una casta da mantenere si potrebbe anche sopportare, invece è una categoria di persone che fonda il suo essere sul cavillo, sui bizantinismi, sul nulla. A questo si aggiunge la drammatica situazione culturale ( un Paese che nel 2014 ha percentuali di analfabetismo del 15-20%) , dove solo 1% dell’aziende utilizza internet, dove si spendono miliardi per permessi sindacali ( in pratica gente che occupa un posto senza aver mai lavorato ) . Questo è il male del Paese . Giuseppe de Rita quantifica nel 25% della popolazione coloro che trainano la carretta, un 75% un peso morto improdutivo e ostacolante
stefano cianchetta
Qui trovate un lavoro di Daveri sulle cause del declino (seconda metà anni 90) diverse dall’euro (cambio fisso con l’ecu) : riforme del lavoro (flessibilità), “seasoned management”
http://www.oecd.org/regreform/reform/44537061.pdf
“…The flurry of cheap labor originated from such half hearted labor market reforms has resulted in a decline of the equilibrium capital-labor ratio. It may have also discouraged the innovative ability of many entrepreneurs”
Davide Amerio
Grazie del riferimento.