L’ultimo libro di Bini Smaghi contiene molte verità su Europa ed euro. E qualche discutibile tesi. La principale riguarda gli obiettivi assegnati alla politica monetaria, volti soltanto a mantenere un obiettivo d’inflazione senza considerare la situazione economica più generale.
LA BCE E L’INFLAZIONE
Vale la pena parlare di Europa, dopo le elezioni di domenica, alla luce di 33 false verità sull’Europa di Lorenzo Bini Smaghi. Si tratta di un libro molto utile – intelligentemente pubblicato alla vigilia della campagna elettorale per le europee – il cui interesse si estende ben oltre la data del voto. Perché ha fornito e fornisce argomenti ragionevoli e ragionati per contrastare il populismo anti-europeo e, soprattutto, anti-euro, smontando con pazienza le molte false verità che purtroppo sembrano aver fatto breccia nell’elettorato di molti paesi dell’Unione. Ma utile anche perché offre spunti per ragionare serenamente su qualche difetto della costruzione europea che sembra sfuggire all’autore. Per non occupare troppo spazio, non mi soffermerò sui molti “punti alti” del libro (tra cui i capitoli dedicati alle contestazioni dei vincoli di bilancio e quelli che respingono le critiche all’entrata nell’euro o le proposte di uscirne) e mi concentrerò solo sui punti più discutibili.
A pagina 84 si legge: “Se si vuole che la politica monetaria sia condotta da una istituzione indipendente, le si deve dare un solo obiettivo”. Poche righe dopo, Bini Smaghi afferma che “l’obiettivo prioritario dell’inflazione non ha impedito alle banche centrali di mettere in atto politiche molto espansive durante la crisi, come in Giappone e nel Regno Unito (…)”. Si tratta di proposizioni quantomeno sorprendenti. In primo luogo, perché una letteratura a dir poco vasta (e che ormai ha permeato anche i libri di testo per i corsi di laurea triennale) ha esplorato ogni angolo delle politiche monetarie che prevedono banche centrali indipendenti dotate di un obiettivo di inflazione (inflation targeting). Politiche generalmente basate su funzioni obiettivo (o su semplici ricette, come la famosa regola di Taylor) che prevedono trade off tra variabilità dell’inflazione intorno all’obiettivo e variabilità del Pil intorno al livello (o al tasso di crescita) potenziale. Si tratta di quell’inflation targeting flessibile che viene adottato nel Regno Unito dal 1992 e in altri paesi democratici con banche centrali indipendenti (Australia, Nuova Zelanda, Canada, Stati Uniti, da ultimo Giappone). (1)
La Bce (come ci dice lo stesso Bini Smaghi a p. 85), invece, ha una funzione obiettivo “lessicografica”, cioè che pone la stabilità dei prezzi al primo posto e non ammette trade off tra gli obiettivi: si tratta di un inflation targeting rigido. Inoltre, la Bce è una delle poche che ha il potere (sancito dal Trattato di Maastricht) di fissare l’obiettivo di inflazione senza concordarlo con il “suo” governo (cioè la Commissione). Certo, si tratta di un assetto istituzionale definito dai Trattati che sono stati approvati dai parlamenti di tutti i paesi europei. Ma questo non prova né che si tratti dell’unico assetto compatibile con la democrazia, né tantomeno che si tratti di un assetto ottimale, né che verrebbe scelto dalla maggioranza dei cittadini europei qualora fossero chiamati a scegliere “sotto velo di ignoranza”.
Inoltre, non sembra sostenibile che nel Regno Unito e in Giappone si siano fatte politiche monetarie espansive nonostante le banche centrali di quei paesi perseguano esclusivamente la stabilità dei prezzi, ma proprio perché la stabilità dei prezzi non è la loro unica “ossessione” e ammettono quei trade off che sono negati alla Bce. Naturalmente, quando gli obiettivi sono più di uno, banca centrale e governo devono concordare i pesi da attribuire a ciascuno di essi. Una volta fissati tali pesi, la banca centrale resta indipendente nella scelta degli strumenti con cui ottimizzare la funzione obiettivo assegnata e il governo non potrà interferire con le sue azioni, salvo chiamarla a spiegare il suo operato a governo e Parlamento, come qualsiasi autorità indipendente cui vengano delegati compiti politici a elevato impatto sul benessere generale.
Si può obiettare che è molto difficile creare rapporti cooperativi corretti tra la banca centrale e quella sghemba confederazione che ancora oggi è l’Europa (e ancor più l’Eurozona), dove i singoli Stati possono anche avere interessi divergenti. Ma allora bisogna additare il difetto di costruzione dell’Europa e dell’Eurozona e formulare idee per completare la federazione europea, non dire che la banca centrale deve avere un unico obiettivo. Tra l’altro, che cosa, se non un’attenzione troppo esclusiva all’inflazione, può spiegare i due sospetti errori della Bce (mai menzionati da Bini Smaghi, che forse non li ritiene tali) nel 2008 e nel 2011, quando alzò i tassi di interesse a fronte di aumenti attesi dell’inflazione alimentati solo dal rialzo del prezzo del petrolio, mentre in entrambi i casi le aspettative di recessione alimentata da crisi finanziarie in corso erano assai più temibili (mainlymacro.blogspot.it, 29 aprile e 2 maggio 2014 e figura 1)? E che cosa, se non una certa negligenza nei confronti della bassa inflazione (asimmetria dell’obiettivo unico), può spiegare il ritardo nell’adozione di appropriate politiche monetarie non convenzionali dagli inizi del 2013 (politiche adottate da tempo e con un certo successo negli Usa, nel Regno Unito e in Giappone)? Con tasso nominale allo 0,25 per cento (prossimo al limite inferiore pari a zero) e un tasso di inflazione che non supera l’1 per cento, il tasso reale non scende al di sotto del -0,75 per cento, ancora troppo alto perché l’area euro esca rapidamente dalla recessione.
Figura 1
Fonte: Eurostat e Bce
SALARI NOMINALI RIGIDI E BASSA INFLAZIONE
Questo è un tema su cui Bini Smaghi non si sofferma troppo, ma che è all’ordine del giorno tra gli economisti. (3) Nelle parole di Paul Krugman (2014), “c’è evidenza crescente che le economie che entrano in una profonda recessione con un tasso di inflazione basso possono rimanere bloccate in una trappola economica e politica, in cui c’è un circolo vizioso autoperpetuantesi tra debolezza economica e bassa inflazione”. E ciò non solo perché si vengono facilmente a trovare nella trappola dello zero lower bound (il già menzionato limite inferiore pari a zero del tasso di interesse nominale), ma anche perché i salari nominali sono abbastanza rigidi verso il basso. La rigidità è particolarmente rilevante per l’area euro, dove i divari di competitività tra i paesi “core” e i paesi “periferici” avrebbero dovuto essere colmati dalla svalutazione interna, cioè appunto dalla riduzione relativa dei salari monetari nei paesi periferici. Ma in realtà questa riduzione, almeno nel comparto manifatturiero cui si riferisce la figura 2b, non c’è stata, se non in misura modesta (fatta eccezione per la Grecia e in grado minore per l’Irlanda), rallentando il processo di svalutazione interna e rendendo lento e quindi lunghissimo quello di aggiustamento. Del resto, nei paesi “periferici” i salari orari erano già molto più bassi che nei paesi “core” (figura 2a). Ed è difficile immaginare che i notevoli divari retributivi potessero ampliarsi ulteriormente grazie a una riduzione dei salari nei paesi periferici, tanto più che i prezzi dei beni di consumo (di cui molti importati proprio dagli Stati dove i salari e i prezzi non hanno motivo di ridursi) non scenderebbero quanto i salari. In questo contesto, un’inflazione più elevata – accompagnata da una crescita (non una riduzione!) dei salari nominali nei paesi “core” superiore a quella dei paesi “periferici” – avrebbe reso e ancora oggi renderebbe più rapido il processo di aggiustamento, con minori perdite cumulate di reddito (Pil) e tassi di disoccupazione inferiori.
Figura 2
Fonte: US Bureau of Labor Statistics
UN’UNIONE TROPPO COMPETITIVA (ALL’INTERNO)
“Per evitare di perdere competitività all’interno di un’area monetaria – scrive Bini Smaghi – i costi devono crescere in modo simile a quello degli altri paesi” (p. 61). Il che implica che, se la produttività cresce poco, la popolazione invecchia, l’energia costa tanto e ci sono “rigidità”, i cittadini dei paesi “deboli” devono accettare una riduzione del proprio tenore di vita e non “vivere al di sopra dei propri mezzi”. Insomma, una unione monetaria è molto simile a un regime di cambi fissi, con la ben nota asimmetria a favore dei paesi che hanno continui surplus di partite correnti grazie al fatto che mentre le riserve ufficiali dei paesi in surplus possono crescere indefinitamente, non possono andare sotto zero quelle dei paesi in deficit. L’unica differenza (ma certo non secondaria) è che in regime di cambi fissi le parità possono essere riviste e facilitare l’aggiustamento, attenuandone l’impatto sulla popolazione del paese “debole”, almeno nel breve e medio periodo, mentre all’interno di una unione monetaria un simile ammortizzatore non c’è più. Questa è la visione “competitiva” dell’unione monetaria che permea il libro di Bini Smaghi: l’unione monetaria è un sistema di cambi fissi senza più i cambi e senza più le banche centrali nazionali, in cui i paesi aderenti competono ferocemente tra loro.
Una visione non condivisibile, per quanto diffusa. Sorvola sul fatto che a determinare la velocità di crescita dei costi (e della produttività) e quindi il tenore di vita possibile per tutti i cittadini dell’unione sono i governi, le imprese e i sindacati dei paesi “forti” e che hanno un peso notevole nell’unione monetaria, cioè in primo luogo la Germania. Ma siamo sicuri che una unione monetaria sia solo questo e non un luogo in cui la politica dei redditi, viste le forti esternalità che genera sugli altri paesi, andrebbe concordata in sede “federale”, soprattutto quando le situazioni di partenza sono così diverse come si è visto nella figura 2a? E quando la politica dei redditi del paese più forte e a più alta crescita della produttività, è stata tale da comprimere i redditi medi dei suoi lavoratori e far crescere le disuguaglianze al suo interno allo scopo di riprendersi il tradizionale ruolo di “piccola economia aperta” trainata dall’export?
Una visione dell’unione monetaria un po’ più solidale e cooperativa (invece che esclusivamente competitiva al suo interno) favorirebbe il consenso per l’unione stessa, perché renderebbe il vivervi un po’ meno stressante per tutti. Senza nulla togliere alla necessità di “fare i compiti a casa”, ovvero fare quelle riforme che consentano alla produttività dei paesi periferici (e dell’Italia in particolare) di tornare a crescere a un ritmo più alto di quello deprimente dell’ultimo decennio. Ma se le riforme (che comunque richiedono tempi non brevi per avere efficacia) vengono fatte mentre i salari nominali dei lavoratori dei paesi forti crescono (concordemente) ben più degli altri, l’inflazione media dell’area è un po’ più alta anche del fatidico 2 per cento (ma più bassa del tasso di crescita dei salari nominali dei paesi forti), non sarebbe meglio per tutti, cittadini tedeschi compresi?
(1) Si veda HM Treasury: Review of the monetary policy framework, marzo 2013. www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/221567/ukecon_mon_policy_framework.pdf.
(2) Blanchard O., Dell’Ariccia G., Mauro P. (2010) “Rethinking macroeconomic policy”, IMF Staff Position Note; Ball L. (2013) “The case for 4% inflation”, www.voxeu.org/article/case-4-inflation; Krugman P. (2014) “Inflation targets reconsidered”, https://webspace.princeton.edu/users/pkrugman/pksintra.pdf.
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Roberto Boschi
Caro Prof Boitani, mi complimento con Lei: finalmente una voce “critica” nel dibattiso sull’Euro! Chiedo alla redazione di inserire il pezzo nel Book “Euro pro e contro”. Ripeto, è l’unico articolo fra quelli letti che riconosce le disfunzioni di questa unione monetaria e di una Banca Centrale con un solo obiettivo da perseguire. Grazie!
Andrea Boitani
Grazie. Purché con critico di “questa” unione monetaria non voglia collocarmi tra gli anti-euro e anti-europeisti.
Ettore
Complimenti, è l’analisi più obiettiva che abbia letto sull’unione europea evidenziando con precisione e chiarezza i punti di forza e le carenze principali.
Piero
Il vero problema, non è l’euro, ma la guida della politica monetaria, in presenza di una moneta unica, nata con un contratto senza integrazione fiscale. Il problema è tutto nelle mani della banca centrale, se il governatore è veramente indipendente non si fa condizionare dallo stato più forte, ma agisce in piena autonomia e nel nostro caso ciò non è avvenuto, Draghi si è appiattito sulla politica della Merkel, ha sempre affermato che l’Italia prima deve fare i compiti a casa propria, oggi al contrario tutto ad un tratto ha annunciato una politica monetaria espansiva con strumenti non convenzionali. Nulla è cambiato: il vero problema è che la vittoria del partito degli euroscettici ha convinto la Merkel all’adozione di strumenti monetari non convenzionali, prima di vedere crollare tutti i governi che ancora sostengono l’euro.
Piero
Non è vero ciò che afferma Smaghi, l’art. 282 comma secondo del trattato di Lisbona recita: “L’obiettivo principale del Sebc ( Bce+banche centrali nazionali) è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo tale obiettivo, esso sostiene le politiche economiche generali dell’unione per contribuire alle realizzazioni degli obbiettivi di quest’ultima”. Come si può notare garantita la stabilità che viene fissata al target tendenziale dell’inflazione al 2%, vi dovrà essere collaborazione con la Commissione europea; ciò è scritto, tutto parte dalla volontà politica, oggi abbiamo un’inflazione dell’0,6%, tendenzialmente si va verso la deflazione! non penso che vi sia stato ad oggi un segnale da parte della commissione per invitare la Bce al sostenimento delle sue politiche, chiaro che se la Commissione risponde alla Merkel, mai ci potremmo aspettare una collaborazione che contrattualmente è prevista.
Maurizio Cocucci
Il suo articolo, interessante anche se non ne condivido alcuni punti, si conclude con la domanda se non sia positivo per tutti (tedeschi inclusi) avere una inflazione anche più alta dell’obiettivo fissato dalla Bce, ma comunque inferiore alla crescita dei salari nominali dei Paesi forti. In linea di principio direi che non sarei contrario a priori, anche il ministro tedesco delle finanze Schäuble lo disse nel 2012 che i salari dei lavoratori tedeschi potevano crescere, solo che non dipende dal governo, non si può mica imporre per decreto di aumentarli. È quindi materia di intesa tra industriali e sindacati. Per rimanere in ambito Germania i suoi principali concorrenti sono gli Usa e i Paesi orientali o comunque i Brics. La Germania ha già un costo del lavoro di gran lunga maggiore rispetto a costoro e quindi aumentarlo significherebbe si, dare una mano ai Paesi meno forti all’interno dell’Eurozona, ma perdere competitività verso i principali concorrenti. Gli sforzi delle imprese tedesche sono oggi infatti prevalentemente orientati versi i mercati emergenti piuttosto che all’interno dell’Europa e quindi vedo difficile questa possibilità.
La via che personalmente troverei più efficace è quella di aumentare la nostra competitività attraverso un aumento della produttività che si dovrebbe realizzare attraverso una trasformazione del nostro sistema industriale: da micro realtà ad aziende quantomeno di medie dimensioni e soprattutto con cultura manageriale piuttosto che padronale che al primo o secondo cambio generazionale entrano in crisi. Aziende che utilizzino le potenzialità che la tecnologia mette loro a disposizione. Qualche esempio molto terra terra. Quante aziende italiane utilizzano supporti informatici di alto livello (ad esempio il noto Sap)? Quante aziende lavorano su più turni per meglio sfruttare il capitale? Quante aziende investono in se stesse, visto il basso tasso di capitale proprio (e quindi l’alta dipendenza dal settore creditizio) rispetto a quelle di altre nazioni? Quante possono collocarsi sul mercato (anche solo per emettere obbligazioni) al fine di procurarsi finanziamenti? Ma soprattutto, in quali settori si intende investire? È doveroso puntare sulla tecnologia e sui prodotti innovativi. Se non c’è una politica industriale in tal senso è poco utile parlare di politica monetaria, politica che mi vede poi in linea con la dottrina del “modello Bundesbank”, ovvero di una banca centrale del tutto indipendente dal potere politico e con il solo obiettivo della stabilità dei prezzi.
Ettore
Leggo sempre con attenzione le cose che scrive, spesso le condivido perché rispecchiano anche il mio pensiero. Concordo sul discorso che lei fa sulle aziende italiane, che sono sottocapitalizzate e troppo dipendenti dal settore bancario. Questo fa giustizia di un altro luogo comune veicolato dai movimenti e dai partiti populisti per cui le uniche colpevoli della recessione sono le banche perché non danno credito alle imprese. Parte del problema sono le aziende stesse per le ragioni che elenca lei. Tra l’altro qualcosa per disintermediare le banche dalle imprese è stato fatto: infatti è stato creato un segmento della Borsa italiana (mi pare si chiami Aim) dedicato proprio alla quotazione delle medie imprese e sembra che stia funzionando, ma siamo agli inizi. Poi ci sono i minibond, un’idea di Monti (qualcosa di buono Monti ha fatto!), che pure stanno andando bene. Le cose da fare sono molte, poi occorre un cambio di mentalità da parte degli imprenditori. Per quanto concerne il discorso sulla Germania e sull’inflazione, concordo in toto con quanto scritto dal Prof. Boitani: sarebbe auspicabile un’inflazione più alta e la Germania dovrebbe rendersene conto! Tra l’altro un tasso di inflazione più alto aiuterebbe ad abbassare il rapporto debito/Pil, altrimenti tale rapporto non scendera’mai; l’alternativa, devastante per la nostra economia. Sono manovre di consolidamento fiscale di 50 miliardi l’anno.
Maurizio Cocucci
Riguardo al tema inflazione avevo scritto che in linea di principio non sarei contrario ma questo dipende dalle cause che la provocherebbero. Se derivasse da una crescita sostenuta in tempi brevi allora non avrei da obiettare se il tasso fosse anche del 3 -3,5%. Ma se la conseguenza dipendesse da una politica monetaria e quindi una crescita dei prezzi non accompagnata da una corrispondente crescita economica allora non posso che essere contrario. In pratica è la preoccupazione che le aziende in Giappone stanno avendo: da una situazione di continua deflazione ora temono che i prezzi salgano (anche se attualmente siamo al 1,6%) ma con una crescita ancora debole (in termini reali) dell’economia. E il Giappone ha un contesto diverso dal nostro. La mia personale preoccupazione è che una manovra massiccia di politica monetaria, da molti auspicata, si trasferisca in gran parte in un aumento dei prezzi. Ripeto talvolta che si può spingere un’auto che ha la batteria scarica (ma funzionante) perché una volta rimesso in moto il motore ho risolto il problema, ma se manca la benzina puoi spingere finché vuoi ma l’auto non andrà mai. In Italia abbiamo molte eccellenze, sia in termini di aziende che di settori, solo che per vari motivi (principalmente di opportunità) non vengono citate spesso. Dai mass media traspare un’immagine di una economia disastrata, ma non è così. E’ vero che siamo in un contesto alquanto difficile, ma occorre guardare anche dall’altra parte, a quelle che comunque stanno operando con successo. Le aziende hanno necessità di ossigeno, di non essere tartassate da burocrazia e adempimenti fiscali (oltre che della pressione). Diverse realtà del Nord Est hanno delocalizzato in Austria solo per questo visto che la il costo del lavoro è più alto e hanno comunque l’euro, ma incontrano una burocrazia ed un livello di pressione fiscale decisamente inferiore. Per quanto riguarda il debito pubblico dobbiamo pensare di ridimensionarlo tramite la crescita del denominatore, il Pil, perché se non fosse così il problema non sarebbe tanto il mancato rispetto dei trattati ma la mancanza di crescita e di creazione di posti di lavoro.
Piero
Non è vero che il target dell’inflazione al 2% venga fissato dalla Bce, ciò accade perché la commissione non interviene, la politica economica e’ della commissione, può fissare un tetto del 4% se vuole, spettera’ alla Bce in modo del tutto autonomo fare le politiche monetarie per rispettare il target. Il concetto di autonomia della Bce non viene esteso alla politica economica in genere ma solo a quella monetaria, che poi alla fine verrà influenzata anche essa dalla commissione, non vi è il primato della Bce sulla commissione, sarà il contrario.
Giusto il concetto, per avere una moneta unica in mancanza di una integrazione fiscale si deve lavorare sulla riduzione del tenore di vita, meno salari meno consumi ecc, ma al momento della scelta dell’euro se i cittadini sapevano di dovere affrontare questi sacrifici lo avrebbero accettato?
Ricordo che i politici e gli economisti italiani, al momento dell’adozione dell’euro, affermarono che davanti con questa moneta vi doveva essere prosperità e sviluppo, no fame e recessione, qualcosa quindi non ha funzionato.
Non voglio essere ripetitivo, in altri commenti il problema e’ stato affrontato, non vi può essere una moneta senza uno stato che re distribuisca un gettito fiscale, ricordo che la lira non sarebbe vissuta tutto quel tempo senza i ritrasferimenti dal nord al sud.
Maurizio Cocucci
L’obiettivo della Banca Centrale Europea è la stabilità dei prezzi e il valore del 2% è stato deciso nell’Ottobre del 1998 dal Consiglio Direttivo della Bce, costituito dai 6 membri del Comitato Esecutivo e dai governatori (e presidenti) delle Banche Centrali Nazionali dei Paesi che avevano all’epoca aderito all’euro. Il tasso di riferimento del 2% è tra l’altro condiviso anche da altre banche centrali, quali ad esempio la Bank of England, la Federal Reserve e la Bank of Japan. Concordo le critiche alla Bce che se l’obiettivo è del 2% (per la precisione prossimo a quel valore), allora 2% deve essere ed i ritardi con cui si sta intervenendo. Domani è prevista una decisione congiunta Bce e Bank of England in materia di intervento, mi aspetto una iniziativa di politica monetaria importante e concreta. Quanto alla prospettiva di prosperità questa derivava non dalla semplice adozione della moneta, ma della costituzione della Ue che doveva comportare la nascita di una federazione simile agli Stati Uniti d’America. Il processo politico e fiscale però si è notevolmente ridimensionato e dobbiamo ora decidere se rimetterlo in moto oppure tornare indietro. Dato il mutato scenario economico internazionale io propendo per la prima soluzione.
Piero
Art.282 comma 2 del trattato: la Commissione se vuole può prevedere il target inflazionistico, solo che, se non interviene la Bce come è successo, ha previsto nel ’98 il 2%. La commissione è espressione del parlamento europeo, è un compromesso politico, deve stabilire la politica economica, la Bce a sua volta avrà mano libera per rispettare la politica economica della commissione, oggi in Europa avviene il contrario: è la Bce che detta la politica economica senza averne il titolo.
Maurizio Cocucci
Non so quale copia del trattato le abbiano consegnato, comunque a beneficio suo e di chi legge riporto quanto prevede l’intero art.282 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea:
1) La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali costituiscono il Sistema europeo di banche centrali (Sebc). La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro, che costituiscono l’Eurosistema, conducono la politica monetaria dell’Unione.
2) Il Sebc è diretto dagli organi decisionali della Banca centrale europea. L’obiettivo principale del Sebc è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo tale obiettivo, esso sostiene le politiche economiche generali nell’Unione per contribuire alla realizzazione degli obiettivi di quest’ultima.
3) La Banca centrale europea ha personalità giuridica. Ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro. È indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze. Le istituzioni, organi e organismi dell’Unione e i governi degli Stati membri rispettano tale indipendenza.
4) La Banca centrale europea adotta le misure necessarie all’assolvimento dei suoi compiti in conformità degli articoli da 127 a 133, dell’articolo 138 e delle condizioni stabilite dallo statuto del Sebc e della Bce. In conformità di questi stessi articoli, gli Stati membri la cui moneta non è l’euro e le rispettive banche centrali conservano le loro competenze nel settore monetario.
5) Nei settori che rientrano nelle sue attribuzioni, la Banca centrale europea è consultata su ogni progetto di atto dell’Unione e su ogni progetto di atto normativo a livello nazionale, e può formulare pareri.
Piero
Basta saper leggere, il secondo comma dell’art. recita:” Fatto salvo tale obiettivo, esso sostiene le politiche economiche generali dell’unione per contribuire alla realizzazione degli obiettivi di quest’ultima”.
Come si vede all’obiettivo primario della stabilità dei prezzi si aggiunge l’obiettivo di sostenere le politiche economiche dell’unione, ora se l’unione si pone l’obiettivo di fissare l’inflazione al 4% invece del 2% per riassorbire la disoccupazione, la Bce deve adempiere a tale obbligo.
Maurizio Cocucci
Ecco, immaginavo che l’avesse inteso in quel senso ma si sbaglia. Il livello di crescita dei prezzi non rientra tra gli obiettivi della Commissione Europea, spetta alla Bce fissarlo essendo un organo completamente indipendente. Il significato della seconda parte che Lei ha richiamato (parzialmente) lo può comprendere leggendo l’articolo 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che viene richiamato nella frase seguente: “obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea”. Si legga quindi integralmente tale articolo (lo trova anche in lingua italiana sul sito della Bce alla sezione “Funzioni”) e vedrà quali sono questi obiettivi, purtroppo disattesi in parte in quanto includono la piena occupazione e la crescita equilibrata all’interno dell’Unione Europea.
Piero
Al festival dell’economia a Trento, tutti gli economisti hanno criticato la Bce, sul suo comportamento, speriamo che il 5/6 prenda atto della realtà, Marchionne stesso ha precisato che la Fiat in Europa come tutte le altre case automobilistiche sono in perdita per i consumi contenuti del mercato europeo, lo stesso De Grauve si augura che la Bce cambi lo statuto e possa divenire prestatore di ultima istanza per gli stati, Zingales stesso ha preso posizione critica nei confronti della stessa banca centrale. Leggiamo il trattato, l’art. 3 è chiaro (anche nella lingua inglese), le politiche economiche sono volte alla crescita equilibrata, alla stabilità dei prezzi, all’economia di mercato fortemente competitiva, politiche che mirano alla piena occupazione e al miglioramento della qualità dell’ambiente, le parole sono precise e non si prestano ad interpretazioni diverse, prima vengono i cittadini con la piena occupazione che devono vivere su un ambiente sempre qualitativamente migliore; la stabilità dei prezzi, la crescita economica equilibrata e l’economia competitiva sono gli strumenti. Naturale che tali obiettivi vengono fissati dall’unione, poi sarà la Bce che dovrà garantirne la stabilità dei prezzi e come obiettivo secondario deve garantire le politiche economiche dell’Unione. Cio è scritto, ciò l’Italia ha firmato, ciò Renzi deve fare rispettare in sede europea.
Maurizio Cocucci
Non insisto sulla questione di chi sia la prerogativa di decidere il tasso di crescita dei prezzi perché vedo che potremmo andare avanti all’infinito, rimanga pure della convinzione che sia di competenza della Commissione. Per quanto riguarda le misure per la crescita la Ue, per voce della Commissione, ci stanno dicendo come fare per uscire dalla crisi, lo diciamo tra l’altro noi stessi (ma in campagna elettorale e/o in tv), solo che poi alla prova dei fatti non siamo in grado di dare al Paese nemmeno una legge elettorale. Non seguiamo quanto la Commissione ci chiede per uniformare la politica fiscale però poi scarichiamo sull’Europa le nostre negligenze e i nostri problemi, anzi, facciamo ben di più: sosteniamo addirittura che abbiamo perso sovranità! Se fosse vero avremmo altro che legge elettorale ma anche un mercato degno di questo nome. Avremmo un welfare, magari non come quello scandinavo, ma pur sempre una misura di sostentamento al reddito che non costringa una famiglia a dormire in auto una volta sfrattati a seguito della perdita del lavoro e quindi del reddito. Avremmo servizi efficienti, trasporti degni di un Paese moderno e non da Bolzano a Napoli, ma anche giù fino alla Sicilia compresa. Noi non abbiamo perso sovranità, o almeno non come la si vuole disegnare. Abbiamo firmato trattati che impongono limiti al bilancio ma poi siamo liberi di decidere quanto e dove spendere, così come e dove prendere le risorse. L’unica condicio è che dobbiamo pareggiare le uscite. Decidiamoci quindi, o seguiamo le raccomandazioni provenienti dall’Europa e se non funzionano scarichiamo su di essa la responsabilità oppure facciamo di testa nostra (come sempre) e però la colpa sarà solo e solamente nostra.
Piero
Da anni ci auguriamo un intervento di politica monetaria forte e concreto, finalmente “tutti” hanno capito che il rinvio di tale intervento con la scusa dei compiti a casa propria è stato dannoso per l’economia.
Piero
Tutti si augurano un’unione politica; obiettivo impossibile da raggiungere con una gestione della moneta fatta da Draghi su direttiva della Merkel, i popoli si sono allontanati invece di avvicinarsi; oggi dopo tutti questi danni avere il consenso popolare per l’integrazione politica e fiscale è quasi impossibile.
a mio avviso occorre subito seguire l’esempio della Fed, con acquisti dei titoli sul secondario, non vedo altra via d’uscita, se si vuole mantenere l’area valutaria. Le misure che ha annunciato Draghi sulle cartolarizzazioni sono inefficienti per l’italia.
Egidio Longo
Mi fa molto piacere leggere finalmente sul lavoce.it questi argomenti, seppur seminascosti in una recensione! E’ dalla crisi del 2011 che la soluzione del problema dell’eurozona a me sembrava piuttosto semplice: aumentare la capacità di spesa dei tedeschi. Ma io di professione faccio il fisico, e visto che nessun economista europeo sembrava esserci arrivato, ci doveva essere qualcosa che io non capivo. Quindi grazie a Boitani per avermi confermato che questa via è percorribile. Mi domando se, anziché minacciare che per salvare il sud Europa i tedeschi dovevano ripagare i debiti degli altri, qualcuno gli avesse spiegato che serviva solo mettere più soldi nelle loro tasche, purché li spendessero per consumare, i tedeschi avrebbero rifiutato con la stessa energia una politica di solidarietà europea. E a Cocucci, che come altri dice; “i salari dei lavoratori tedeschi potevano crescere, solo che non dipende dal governo, non si può mica imporre per decreto di aumentarli” vorrei ricordare che questo non è certo l’unico modo di aumentare i salari. Lascio agli economisti la proposizione del modo ottimale. Ma se non gliene viene in mente nessuno, si può sempre seguire l’esempio degli 80 euro di Renzi che in Germania, non dovendosi raschiare il fondo del barile, potrebbero essere molti di più.
Maurizio Cocucci
Intuisco che lei intenda conseguire un aumento dei salari attraverso una operazione di riduzione della pressione fiscale, ma quello per la precisione è l’aumento del reddito disponibile (o netto), non è un aumento dei salari che si esprime solo in termini lordi. Agli effetti del percettore (lavoratore) non cambia nulla se alla fine riceve es.80 euro al mese in più in busta paga, ma c’è una differenza sostanziale tra le due soluzioni. Se è l’azienda ad aumentare la sua retribuzione lorda allora non fa altro che distribuire una quota maggiore dei suoi profitti, se è lo Stato invece allora è esso che rinuncia ad una parte delle entrate fiscali e quindi di conseguenza è tenuto o ad operare una riduzione della spesa pubblica o aumentare le imposte da un’altra parte. Per sua informazione la riduzione della pressione fiscale sulle persone fisiche, anche se lieve, è già in atto in Germania tramite l’aumento annuale del livello di no tax area che nel 2013 corrispondeva a 8.130 euro per un singolo e al doppio per una coppia (in Germania non esiste la detrazione per coniuge a carico, una oscenità da eliminare per quanto mi riguarda).
Per quanto concerne il mercato tedesco ricordiamoci che loro esportano molto ma importano anche molto: circa 1.200 miliardi di euro (beni e servizi), corrispondenti al 44% circa del loro Pil (dati di gran lunga superiori ai nostri in quanto non arriviamo al 30% del nostro Pil). In questo contesto la Germania va vista come un cliente, un ottimo cliente, che nel 2013 ha acquistato da noi beni per 47,5 miliardi di euro, in pratica siamo i quinti fornitori al mondo. Per noi la Germania è da sempre il nostro migliore cliente (oltre che concorrente in diversi settori) e quindi più cresce e più vendiamo a loro. Potremmo fare comunque di più senza attendere che la domanda aggregata tedesca cresca, dipende da noi visto che loro sono uno dei mercati più aperti al mondo agli scambi internazionali.