In Italia gli amministratori delle società quotate sono eletti con il voto di lista, un sistema unico al mondo. Che offre rappresentanza alle minoranze, ma comporta chiare disfunzioni. Migliorarlo è possibile, bastano pochi interventi decisi. Ecco alcune proposte che responsabilizzano il Cda.

UN TAGLIANDO PER IL VOTO DI LISTA

Nelle società quotate italiane gli amministratori sono eletti con un sistema unico al mondo: il voto di lista. Contrariamente a quanto accade altrove, le candidature sono normalmente presentate dai soci (anziché dal consiglio di amministrazione uscente; e almeno un posto in consiglio è riservato a candidati di minoranza. (1)
Il sistema ha mostrato pregi ma anche difetti. E dopo venti anni ha bisogno di un tagliando, soprattutto alla vigilia di una nuova ondata di privatizzazioni.
Anzitutto, il sistema non è facilmente comprensibile, né particolarmente apprezzato nel resto del mondo. (2) Inoltre, il voto di lista è ignorato in oltre metà del listino, malgrado le soglie per presentare candidature non siano proibitive (gli investitori istituzionali presentano liste solo nelle società maggiori).
Soprattutto, la direttiva europea sui “diritti degli azionisti” ha cambiato l’assetto di potere in varie importanti società, dove gli investitori istituzionali sono maggioranza e possono approvare o respingere le proposte del Cda o di un azionista che detiene quote limitate. (3)
Infine, anche dove ha funzionato, il voto di lista ha ultimamente mostrato la corda. Ad esempio, dove manca un azionista di controllo (si pensi a Telecom Italia), i fondi possono essere maggioranza in assemblea, ma sono di fatto costretti a presentare liste con pochi candidati, limitandosi a un ruolo, pur pregevole, di testimonianza, senza incidere davvero sulle scelte. E senza poter votare contro candidati sgraditi presentati da altri. (4)
L’esito è che la maggioranza degli amministratori è espressa da un socio che è minoranza in assemblea.
Che fare, dunque? Come disegnare un sistema di voto più funzionale e rispondente alle richieste degli investitori? Proponiamo un sistema alternativo, fondato su due pilastri strettamente coordinati e inscindibili, che si ispira a due principi di fondo: a) favorire l’adozione di standard di governance più simili a quelli prevalenti a livello internazionale (responsabilizzando il Cda), b) calibrare la “legge elettorale” sulle caratteristiche delle società, tra cui rilievo prevalente assume la struttura proprietaria (in particolare l’esistenza di un socio di controllo).

CANDIDATURE, UN RUOLO ATTIVO PER IL CDA

Anzitutto, il Cda uscente deve avere non solo la facoltà (oggi discussa, ma generalmente ammessa tra i giuristi) ma l’obbligo di presentare una propria lista, proponendo candidature che gli azionisti possono approvare o bocciare. Questo consentirebbe di aderire davvero ai principi di buona governance, rivitalizzando il comitato nomine (oggi usato per finalità che nulla hanno a che vedere con quelle cui sarebbe istituzionalmente deputato), dando uno sbocco concreto all’autovalutazione che il Cda è chiamato a svolgere (spesso ridotta a vuoto rito), e responsabilizzandolo nei confronti degli azionisti. Gli azionisti oltre una certa soglia potrebbero comunque presentare liste alternative. Corollario necessario, per evitare che la proposta sia aggirabile, è che la lista formulata dal Cda sia completa, senza lasciare – di default – posti liberi a candidature alternative provenienti dai soci.
In secondo luogo, le candidature del consiglio di amministrazione devono essere sottoposte una per una, come oggi accade normalmente in sistemi quali quello americano, a un regime di majority voting, ossia a un referendum in cui ciascun candidato deve conseguire la maggioranza dei voti espressi per essere eletto. Non può quindi accadere (come invece accade oggi) che un candidato sia eletto da una minoranza. I candidati “bocciati” dovrebbero dimettersi e il Cda dovrebbe essere chiamato a cooptare i loro sostituti, soggetti a conferma nell’assemblea successiva. La votazione individuale a maggioranza è essenziale per incentivare il Cda uscente a presentare candidature di qualità.
Gli azionisti(sopra una certa soglia) devono però poter presentare candidature alternative. In tal caso, il sistema “referendario” sarebbe abbandonato in favore di una votazione in cui sono eletti i singoli candidati più votati, indipendentemente da chi li ha presentati. Il majority voting è quindi derogabile se i soci presentano liste alternative: si deve favorire la linearità dei comportamenti, non limitare la libertà degli azionisti. (5)

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LE PREVEDIBILI CONSEGUENZE

È bene essere chiari: l’assetto finale non cambierebbe molto dove esiste un azionista di controllo. Il Cda terrà conto delle sue preferenze, per evitare che i propri candidati siano “impallinati”. Se si ritiene inutile obbligare il consiglio di amministrazione a presentare una lista scritta sotto dettatura, basta lasciare agli statuti societari la facoltà di introdurre l’obbligo. Che, però, dovrebbe essere inderogabile, dove manca un azionista di controllo (ad esempio, sopra la soglia Opa del 30 per cento): qui l’assenza della lista del Cda rafforza indebitamente una minoranza organizzata nei confronti della maggioranza degli azionisti.
Il sistema proposto sarebbe invece dirompente dove non esiste un socio di controllo e la maggioranza degli amministratori è espressa da soci che detengono quote limitate del capitale (tra il 20 e il 30 per cento o addirittura inferiori). Il Cda sarebbe emancipato da tali soggetti e spinto a cercare candidature condivise (e magari gradite agli investitori istituzionali) per evitare che i propri candidati (ovvero, sovente, loro stessi) siano bocciati in assemblea. D’altro canto, gli azionisti potrebbero comunque presentare proposte autonome.
Tale sistema avrebbe chiari vantaggi: è noto e gradito agli investitori istituzionali internazionali, è flessibile e calibrato sulle caratteristiche dei singoli emittenti, favorisce comportamenti lineari e non in conflitto d’interessi. Richiede, però, alcuni colpi di bisturi alla normativa attuale e tocca, certamente, interessi costituiti. C’è la volontà di discutere di proposte che vanno nell’interesse delle imprese e del paese?

(1) Varie norme, su cui vigila la Consob, puntano a garantire che le minoranze siano “vere”, ossia non “collegate” ai soci di maggioranza Il sistema, introdotto nel 1994 nelle società privatizzate, è stato successivamente imposto a tutte le società quotate; in epoca recente, la direttiva europea sui “diritti degli azionisti” ha rimosso alcuni ostacoli tecnici e favorito l’attivismo degli investitori istituzionali, che hanno spesso sostenuto – ed eletto – i candidati proposti da Assogestioni.
(2) Negli Usa il tentativo della Sec di imporre un sistema analogo è stato bocciato, come arbitrary and capricious, da una corte federale, che ha obiettato l’insufficiente analisi dei costi e benefici attesi dalla nuova norma rispetto alle possibili alternative.
(3) Si pensi a società come Eni, Finmeccanica o Terna, dove la proposta del ministero dell’Economia di introdurre clausole di decadenza automatica degli amministratori in caso di condanna in primo grado è stata respinta, sostanzialmente, dai fondi.
(4) Altro caso singolare, riscontrato in pratica, è quello in cui emergono in assemblea situazioni “impreviste”, per cui il numero di candidati è insufficiente a “popolare” il consiglio o il collegio sindacale (è stato il caso di Azimut). In tali casi, i fondi possono finire per non votare, poiché i loro delegati non hanno ricevuto istruzioni.
(5) Il sistema delineato può prevedere, ove lo si ritenesse necessario, una riserva di posti a favore di eventuali “liste di minoranza”: basta semplicemente inserire nello statuto – o prevedere per legge – la clausola per cui, in presenza di più liste, gli eletti non possono provenire da una sola lista. Il rischio di “collegamenti” tra liste è superabile con un sistema di presunzioni e vigilanza come quello attuale.

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