La bufera sulle Regioni riporta alla ribalta il federalismo. Un’occasione per aprire una discussione seria. A dieci anni dalla riforma del 2001 è necessario riconoscerne i difetti e intervenire per correggerli. Perché spesso l’autonomia si è trasformata in autoreferenzialità. E per contrastare questa tendenza bisogna innanzi tutto modificare l’articolo 114 della Costituzione che mette sullo stesso piano Stato, Regioni, province e comuni. E introdurre l’interesse nazionale come limite all’autonomia legislativa e finanziaria di Regioni ed enti locali.

“È necessario che avvengano gli scandali” (Matteo, XVIII, 7). Le vicende di questi giorni hanno aperto una breccia nel consenso pressoché unanime, nonché spesso disinformato, di cui godeva il federalismo all’italiana. Un’opportunità per una riflessione e una discussione che non ci sono mai state.

TANTI SLOGAN DIETRO UNA RIFORMA

La riforma del Titolo V della Costituzione fu approvata frettolosamente nel 2000 dall’allora maggioranza di centro-sinistra, si dice con l’obiettivo di guadagnare il consenso dell’elettorato della Lega, senza un’adeguata analisi delle sue implicazioni. Tutto il dibattito sul federalismo è stato poi particolarmente povero, dominato da slogan come “autonomia e responsabilità” o “avvicinare la politica ai cittadini” o “vedo, pago, voto” o ancora “federalismo solidale”. Formule molto generali su cui è difficile non essere d’accordo, ma che di per sé significano poco o niente. Tanto per fare un esempio, uno dei principali argomenti usati a favore del decentramento è che riducendo la dimensione del governo si accresce la accountability politica (la responsabilità rispetto ai risultati), in quanto i cittadini sono meglio informati sull’attività del governo locale di quanto non siano su quella del governo centrale. In realtà è un argomento discutibile, valido probabilmente negli Stati Uniti all’epoca di Tocqueville, molto meno oggi visto il modo in cui si forma l’opinione pubblica: soprattutto sulla base di informazioni veicolate da media nazionali (per quello che può contare, io vivo a Roma, ma in genere sono molto più informato sull’attività del parlamento e del governo nazionale di quanto non sia su quella della giunta o del consiglio della Regione Lazio). La stessa tesi della maggiore efficienza della fornitura locale di beni pubblici vale quando gli effetti dell’offerta di un determinato servizio si esauriscono nell’ambito del territorio locale; si può applicare indiscutibilmente a materie come il trasporto pubblico locale, ma non certo a sanità o istruzione che pure in molti paesi sono responsabilità dei governi locali, a volte con ottimi risultati. A questo proposito, l’idea che il processo di unificazione europea, destinato a spogliare gli stati nazionali delle loro funzioni nella sfera della stabilizzazione economica, debba portare a una simmetrica perdita di ruolo degli stati nazionali a favore dei governi locali è di nuovo attraente solo come slogan: occorre sempre dimostrare che la scala ottimale per gli interventi nella sfera della redistribuzione e in quella allocativa, che resterebbero responsabilità dei singoli stati dell’Unione, sia quella locale (e nella maggior parte dei casi non è così). Insomma, un buon punto di partenza per discutere seriamente di decentramento e federalismo è riconoscere che questi non sono necessariamente né un bene né un male. Le conseguenze del decentramento sono complesse e poco chiare. Vanno esaminate caso per caso senza pretendere che vi siano a favore del decentramento argomenti che non hanno bisogno di dimostrazione. (1)

IL FEDERALISMO ALL’ITALIANA

Vediamo allora come sta funzionando il federalismo italiano e se non sia il caso di qualche intervento correttivo. L’aspetto più macroscopico che sta emergendo in questi giorni è che l’autonomia spesso si è esercitata sumaterie futili, che certo non interessano i cittadini (interessano gli apparati, un motivo del consenso trasversale a un certo tipo di decentramento). La dimensione dei consigli regionali e delle giunte, le regole di finanziamento dei gruppi consiliari, i diritti previdenziali dei consiglieri sono tra gli esempi. Ancora, il federalismo contabile, per cui anche solo armonizzare il modo in cui le spese sono classificate nei bilanci regionali è un’impresa quasi impossibile. Le rappresentanze delle Regioni all’estero. E così via. Tutte questioni su cui il governo nazionale non può intervenire. Sono il riflesso di una tendenza a trasformare l’autonomia in autoreferenzialità. Per contrastarla sono necessarie due correzioni: innanzi tutto, modificare l’articolo 114 della Costituzione che mette sullo stesso piano Stato, Regioni, Province e Comuni, tornando alla precedente formulazione; in secondo luogo, introdurre l’interesse nazionale come limite all’autonomia legislativa e finanziaria di regioni ed enti locali (articoli 117 e 119).

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FINANZA PUBBLICA E INTERESSE NAZIONALE

Quella dell’interesse nazionale nelle materie di finanza pubblica è una questione cruciale. Il decentramento fiscale non può essere fatto a dispetto della fase attuale della finanza pubblica, destinata a durare per almeno un decennio se prendiamo per buoni gli impegni del fiscal compact. È una fase che per sua natura spinge verso un maggiore accentramento delle decisioni di bilancio. Così, è stata evidente la discrasia, nelle politiche del governo di centro-destra, tra proclami federalisti e pratica concreta delle manovre di bilancio con interventi sulla finanza decentrata non coerenti con il vigente quadro costituzionale. Sarebbe bene riconoscere esplicitamente la contraddizione tra necessità della fase attuale, destinata – va ripetuto – a non essere di breve durata, e Costituzione, così da definire in modo più flessibile e praticabile lo spazio dell’autonomia finanziaria. In realtà, di ciò non sembra esservi piena consapevolezza. Si resta disorientati leggendo nella riforma costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio, appena approvata, la disposizione secondo cui nelle fasi avverse del ciclo o al verificarsi di eventi eccezionali lo Stato “concorre ad assicurare il finanziamento da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni [erogate dalle Regioni] e delle funzioni fondamentali [dei comuni] inerenti ai diritti civili e sociali” anche in deroga al Titolo V. Non si capisce come in condizioni economiche avverse possa esserci una tale garanzia a prescindere e perché essa non debba applicarsi anche per le prestazioni erogate dallo Stato (per dirla con una battuta: la giustizia o la previdenza valgono meno dell’anagrafe o dei vigili urbani?). Una retorica delle funzioni delle amministrazioni locali incomprensibile.
La ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni (articolo 117) è un altro tema su cui sarebbe bene intervenire. Per lo meno delimitando l’ambito della legislazione concorrente (dove spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata allo Stato): ci sono ottimi argomenti per riportare alla legislazione esclusiva dello Stato materie quali la tutela e sicurezza del lavoro, la previdenza complementare e integrativa, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Va, insomma, recuperata una parte del progetto di riforma costituzionale approvato nel 2005 e poi rigettato (non certo per questi aspetti) dal referendum del 2006. Quel progetto prevedeva opportunamente, inoltre, la reintroduzione dell’interesse nazionale come limite generale alla legislazione regionale.
L’ultimo tema è quello delle fonti di finanziamento (articolo 119). Non vi è nel mondo nessuna costituzione di uno Stato federale che, come quella italiana, consenta allo Stato di erogare, per il finanziamento delle funzioni normali di Regioni ed enti locali, solo trasferimenti a destinazione non vincolata con finalità perequativa. Le conseguenze sono chiarite dalla legge Calderoli (di attuazione, appunto dell’articolo 119) e dai successivi decreti legislativi: un sistema complicatissimo e grottesco di compartecipazioni incrociate ai tributi erariali, con scarsa autonomia tributaria effettiva. Un incubo quando si tenta di applicarlo a ottomila comuni. Altro che “raddrizzare l’albero storto della finanza pubblica”. Ancora più grave è l’impossibilità di usare la leva finanziaria per attuare politiche nazionali: non sono consentiti strumenti usati ovunque, quali i trasferimenti a destinazione vincolata, in somma fissa o matching grants (in cui lo Stato eroga un euro per una determinata finalità per ogni euro speso dal governo locale per quella stessa finalità). L’esempio più noto è il fondo settoriale di finanziamento degli asili nido della legge finanziaria 2002 dichiarato incostituzionale nel 2003 proprio perché violava l’autonomia di spesa delle regioni. Stessa sorte toccherebbe, ad esempio, a un piano nazionale di recupero del territorio o di manutenzione degli edifici scolastici.
Vi sarebbero molte altre questioni da trattare, dalle Regioni a statuto speciale alla definizione dei costi standard e alla inefficienza strutturale delle regioni meridionali, dai controlli contabili e di merito (qui c’è uno spazio per la Corte dei conti) all’esercizio dei poteri sostitutivi e così via. (2) Lo spazio di un articolo non lo consente. Sono tutte questioni da riprendere e da discutere con serietà. Evitando di passare da un estremo all’altro, magari proponendosi – come in questi giorni qualcuno ha fatto – di abolire le Regioni. Ma riconoscendo, però, dieci anni dopo l’approvazione i limiti della riforma del Titolo V e la necessità di correggerla.

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(1) Una lettura molto utile su questi temi è il libro di uno scienziato politico americano Daniel Treisman (The Architecture of Government. Rethinking Political Decentralization, Cambridge University Press, 2007) la cui tesi principale è appunto che gli argomenti a favore e quelli contro il decentramento sono tutti parziali e non conclusivi.
(2) Le Regioni a statuto speciale sono una vera anomalia. Ad esempio, i livelli di spesa pubblica pro-capite complessiva – erogata da Stato, Regioni ed enti locali – nelle Regioni a statuto speciale del Nord sono superiori sono del 30 per cento rispetto alle Regioni a statuto ordinario sempre del Nord.

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