Prezzi alle stelle, negozi vuoti: così viene percepita la situazione attuale in Italia. Eppure, dati alla mano, non è vero che i consumi degli italiani ristagnano. Piuttosto muta la loro composizione e, soprattutto, aumenta la quota di beni e servizi acquistati all’estero grazie al rafforzamento della nostra moneta. D’altra parte, i prezzi interni e quelli al consumo crescono di pari passo. C’è dunque una redistribuzione del reddito fra produttori, a favore delle strutture meno concorrenziali. Che ha come contraltare una più ineguale distribuzione del potere d’acquisto delle famiglie, nonostante le misure adottate a beneficio dei redditi medio bassi. Chissà cosa succederà quando si ridurranno le imposte su quelli più alti.

I consumi degli italiani crescono troppo poco. Le famiglie si lamentano perché non ce la fanno ad “arrivare alla fine del mese”. Chi vende beni e servizi ai consumatori si lamenta perché il giro d’affari langue.

La crescita dei consumi è davvero così modesta? Nella seconda metà degli anni Novanta (1996-2000), i consumi pro capite delle famiglie italiane sono cresciuti in termini reali al 2,5 per cento all’anno.
È molto probabile che, per quanto buono, quel miglioramento progressivo dello standard di vita fosse inferiore alle aspirazioni delle nostre famiglie, vista la compressione dei consumi che si era avuta nei quattro anni precedenti (solamente nel primo trimestre del 1995 il livello reale dei consumi aveva superato il massimo dell’inizio del 1992).

Dal punto di vista dei produttori

A dieci anni di distanza, la recessione dei consumi tra la primavera del 2001 e la primavera di quest’anno è stata molto più contenuta. Due anni dopo il punto di svolta, i consumi risultano già più alti dello 0,5 per cento del valore massimo precedente. Inoltre, da tre trimestri a questa parte i consumi delle famiglie italiane stanno crescendo, in termini reali, al 2,0 per cento annuo.

Per quanto possa essere considerato insoddisfacente, questo andamento contiene alcuni elementi interessanti, che non dovranno essere trascurati nel formulare politiche di natura congiunturale.
Sono dunque ingiustificate le proteste? Mettiamoci dal punto di vista dei produttori. In un’economia con una popolazione che ristagna, la crescita dei consumi è solamente crescita dei consumi pro capite: alla lunga, possono questi crescere più del prodotto pro capite? Certamente sì, aumentando gli acquisti all’estero. Ma non è questa l’espansione dei consumi che interessa ai nostri produttori. Purtroppo è invece ciò che sta accadendo: da questo punto di vista potrebbero non essere infondate le lagnanze dal lato dell’offerta.

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D’altra parte, una struttura distributiva molto polverizzata comporta costi fissi unitari elevati e quindi, per compensarli, attese di ricavi non sempre realistici, data la bassa crescita della produttività e la stagnazione della popolazione.
Dagli inizi del 2002, la crescita della spesa per beni di consumo e servizi sul territorio italiano è, in termini annui, di mezzo punto percentuale più bassa di quella effettuata dalle famiglie residenti. Così, mentre da tre trimestri i consumi nazionali (delle famiglie italiane) sono cresciuti al ritmo del 2 per cento annuo, i consumi interni (sul territorio italiano) sono cresciuti all’1,5 per cento annuo.

Questa differenza è il risultato della riduzione significativa dei consumi degli stranieri in Italia (-7 per cento in termini reali nell’anno che termina nel secondo trimestre 2003) e dell’aumento molto forte dei consumi degli italiani all’estero (+17 per cento in termini reali, nello stesso periodo).

Nient’altro che l’effetto dell’aumento del potere d’acquisto esterno della nostra moneta. L’altra faccia del miglioramento della nostra ragione di scambio. Infatti, rispetto a un anno fa la ragione di scambio tra importazioni ed esportazioni è migliorata di 2,3 punti percentuali.

Dalla parte delle famiglie

Mettiamoci ora dal punto di vista delle famiglie. Quanto appena detto per la ragione di scambio internazionale non vale per la ragione di scambio tra prezzi interni (ovvero, prezzi dei prodotti italiani: +2,9 per cento) e prezzi al consumo (che contengono una quota di importazioni, ma ciononostante aumentano dello stesso 2,9 per cento).
È paradossale, ma si dovrebbe dire che l’Istat stia sovrastimando l’inflazione al consumo, oppure sottostimando l’inflazione dei redditi dei fattori produttivi italiani.

Interpretando attentamente la percezione popolare, dovremmo ritenere più fondata la seconda ipotesi, ovvero che la crescita dei prezzi al consumo di quasi il 3 per cento sia il risultato di una forte espansione dei margini unitari di alcune categorie, cioè di una redistribuzione di reddito tra i produttori più significativa di quella che appare dai dati di contabilità nazionale, nei quali, per il secondo trimestre del 2003, il deflatore del prodotto industriale è cresciuto in termini annui dell’1,9 per cento e quello dei servizi del 3,4 per cento.
Questa redistribuzione tra i produttori, favorita dalle strutture di mercato non concorrenziali nei settori protetti dalla concorrenza internazionale, ha il suo contraltare anche in una distribuzione dei redditi familiari più ineguale. Questo spiegherebbe, da un lato, le proteste attuali e, dall’altro, la dinamica dei consumi e la loro composizione (si espandono le quote di spesa, in termini reali, per alberghi, comunicazione e tempo libero).

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Se si considera che ciò è avvenuto quando sono state aumentate le maggiorazioni sociali sulle pensioni e sono state ridotte le imposte sui redditi medio bassi, c’è da chiedersi che cosa accadrà alla distribuzione dei redditi familiari e alla domanda per i nostri produttori quando verranno ridotte le imposte sui redditi medio alti.

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