Ancora su inflazione reale e percepita. Cercando di calcolare tassi differenziati per verificare se l’aumento del costo della vita ha colpito alcune famiglie più di altre, modificando così la distribuzione del reddito. Il tasso di inflazione incide in misura leggermente superiore sulle famiglie più ricche, ma le differenze sono piuttosto contenute. E se basata sui prezzi dei beni che pesano maggiormente nei rispettivi panieri, l’impressione di rincari generalizzati consistenti vale per le classi di reddito più alte come per le più basse.

Nel 2003, l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale (tabacchi inclusi) ha segnato un incremento del 2,7 per cento. Malgrado diversi centri di ricerca e associazioni dei consumatori sostengano che il vero tasso di inflazione sia un multiplo di quello ufficiale, ci sono invece buone ragioni, già documentate su lavoce.info (vedi Trivellato), per ritenere che l’inflazione rilevata dall’Istat sia tutto sommato più vicina al “vero” tasso di inflazione rispetto a tutte le altre possibili grandezze alternative.

I consumi delle famiglie

L’indice di fonte Istat si riferisce però all’incremento del costo di un paniere di beni e servizi che, volendo sintetizzare i comportamenti di spesa di tutti gli italiani, finisce per non corrispondere a quanto comprato da alcuna famiglia in particolare. I “panieri” che acquistiamo tutti i giorni differiscono infatti tra loro per la composizione interna nelle varie quote di beni e servizi, per la qualità dei diversi beni, e per il luogo nei quali essi vengono acquistati.

È possibile calcolare, con le informazioni pubblicamente disponibili, tassi differenziati, per verificare se in effetti l’inflazione ha colpito alcune famiglie più di altre, modificando in questo modo la distribuzione del reddito?
La strada di un calcolo dettagliato che tenga conto di tutte le eterogeneità indicate non è al momento praticabile, né da singoli ricercatori né dall’Istat, che dovrebbe a questo scopo effettuare indagini campionarie mirate su specifici segmenti della popolazione.
Tuttavia, qualche passo avanti può essere fatto se si utilizza l’indagine Istat sui consumi delle famiglie, che ogni anno coinvolge più di 20mila nuclei, raccogliendo dati su circa 270 categorie di beni, e si prova ad associare a ciascuna famiglia un tasso di inflazione individuale. Purtroppo, non si può tener conto di alcune dimensioni fondamentali dei comportamenti di consumo, come la qualità dei beni o i luoghi di acquisto, ma almeno si può valutare l’impatto della diversa composizione dei panieri individuali acquistati. (1)

Applicando ai consumi dell’insieme delle famiglie i tassi di variazione dei prezzi relativi al biennio gennaio 2002-gennaio 2004, si ottiene che, per esse, l’inflazione è stata in media uguale al 5,9 per cento.
Per verificarne l’impatto distributivo, si sono classificate le famiglie in dieci gruppi (decili) di uguale numerosità, ordinandole sulla base di valori crescenti della loro spesa equivalente per beni non durevoli (la scala di equivalenza Ise è usata per rendere comparabili le spese di famiglie di diversa composizione).
Il tasso di inflazione in Italia incide in misura leggermente superiore sulle famiglie più ricche.
Le differenze sono comunque piuttosto contenute. Mentre il 10 per cento più povero ha subito negli ultimi due anni un’inflazione pari al 5,7 per cento, per il decile più ricco il tasso di inflazione è uguale a circa mezzo punto in più, il 6,1 per cento, con incrementi uniformi nei decili intermedi. Altre elaborazioni mostrano che per un quarto del campione il tasso di inflazione è inferiore al 5 per cento, e per un altro 25 per cento è invece superiore al 6,7 per cento. In particolare, l’inflazione risulta più alta per le famiglie degli affittuari rispetto a quelle che possiedono la propria abitazione, e per le famiglie con molti figli.

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Gli effetti di composizione

La tabella 1 mostra, oltre all’incremento medio del prezzo delle sedici categorie nelle quali è suddivisa la spesa totale, i contributi percentuali delle varie voci di spesa alla formazione dell’indice di prezzo, per tutte le famiglie e per i due decili estremi.
Il contributo che ogni categoria fornisce all’inflazione totale dipende da due elementi: l’incremento del prezzo medio della categoria, e la sua quota sulla spesa totale.
Tra le macrocategorie considerate, spiccano gli aumenti di prezzo per frutta e verdura, con un’inflazione media di circa il 17 per cento, e degli altri beni e servizi, con l’8,6 per cento. Quest’ultima categoria contiene, tra le tante, voci quali viaggi e vacanze, articoli di gioielleria, orologi, spese per la cura personale. Anche gli altri alimentari presentano un tasso di inflazione piuttosto alto, vicino alla media complessiva.

 

Per il totale delle famiglie italiane, quattro sole categorie di spesa spiegano circa il 70 per cento dell’incremento complessivo dei prezzi.
Si tratta degli alimentari (escluse frutta e verdura), che contribuiscono a un 20 per cento dell’inflazione totale, della frutta e verdura, che aggiungono un altro 15 per cento, dei trasporti (che comprendono anche le assicurazioni auto) con il 16 per cento, e infine degli altri beni e servizi, con il 18 per cento.
La ridotta differenza tra i tassi medi individuali di inflazione per i decili estremi, nasconde quindi forti effetti di composizione: l’inflazione per il primo decile è governata soprattutto dall’aumento del prezzo degli alimentari in genere, mentre un ruolo ridotto è giocato dall’incremento elevato del prezzo della voce altri beni e servizi. Esattamente il contrario vale per i più ricchi.
Se le diverse classi di reddito basano la propria percezione sull’inflazione complessiva osservando i prezzi dei beni che pesano maggiormente sui rispettivi panieri, sia i poveri che i ricchi potrebbero trarre una comune impressione di un elevato tasso di inflazione.

Le influenze sul reddito reale

La tabella 2 cerca di valutare, in prima approssimazione, gli effetti di questi livelli inflazionistici sul reddito reale delle famiglie italiane, confrontando il tasso individuale di inflazione con l’incremento medio del reddito nominale per professione del capofamiglia.

Se consideriamo che negli ultimi due anni le retribuzioni nominali di fatto sono aumentate del 6 per cento, è possibile concludere che per i lavoratori dipendenti in media il reddito reale è rimasto sostanzialmente inalterato, come risulta anche dai recenti dati dell’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie nel biennio 2000-2002 (vedi l’articolo di Boeri).

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Se però andiamo oltre il dato medio, si osserva che per quasi il 50 per cento delle famiglie di lavoratori dipendenti il tasso di inflazione individuale risulta superiore al 6 per cento (circa il 10 per cento di esse ha inoltre subito una riduzione di reddito reale superiore al 2 per cento).
Quanto ai pensionati, nell’ultimo biennio le pensioni nominali inferiori a circa 1.200 euro mensili sono aumentate del 4,8 per cento, ancora meno quelle superiori ai 1.200 euro. Il 77 per cento dei nuclei con persona di riferimento in pensione ha visto diminuire il reddito reale, essendo caratterizzata da un tasso di inflazione individuale superiore al 4,8 per cento.
Se si considerano, per quanto possibile, tassi di inflazione personalizzati, si può quindi concludere che negli ultimi due anni il reddito reale è sostanzialmente stazionario per circa metà delle famiglie italiane e in leggera riduzione per le altre.

 

(1) Questa analisi aggiorna quella presentata in un altro articolo (vedi Baldini) del 2002, che cercava di valutare l’effetto distributivo degli incrementi dei prezzi misurati nei primi mesi successivi all’introduzione dell’euro.

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