In risposta a una lettera di Luigi Spaventa, Francesco Giavazzi e Tullio Jappelli discutono sotto quali condizioni gli sgravi fiscali possono riuscire davvero a stimolare i consumi.

La lettera di Luigi Spaventa e la risposta di Francesco Giavazzi e Tullio Jappelli.

Lettera di Luigi Spaventa

Il 19 settembre, sul Corriere della Sera l’amico e collega stimatissimo, nonché collaboratore de lavoce.info, Francesco Giavazzi, chiede al ministro dell’Economia di ridurre l’Irpef per sostenere la domanda interna. È un po’ impreciso sul finanziamento di questa riduzione, perché dubito che un taglio dei trasferimenti alle più ricche Regioni a statuto speciale o la soppressione di qualche inutile università siano sufficienti a provvedervi: ma non è questo il punto.

Lo stesso giorno un altro stimatissimo collega, Tullio Jappelli, insieme a Luigi Pistaferri, sostiene che una riduzione dell’Irpef avrebbe effetti modesti o nulli sulla spesa delle famiglie, poiché sarebbe percepita da queste come non permanente, e che quindi bene fa il ministro dell’Economia a rinviare l’attuazione della promessa riforma.

Chi ha ragione? Il keynesiano Giavazzi o i neo-ricardiani Jappelli e Pistaferri? Vorrà lavoce.info arbitrare fra queste due tesi, per chiarire le nostre altrimenti confuse idee? Forse, in sede di arbitrato, si vorrà anche tener conto delle conseguenze della nostra inflazione sul reddito reale disponibile delle famiglie.

Grazie.

Luigi Spaventa

 

Risposta di Francesco Giavazzi e Tullio Jappelli

Non vi è contraddizione tra quanto da noi scritto, rispettivamente su lavoce.info e il Corriere, a proposito dell’effetto di una riduzione di imposte sui consumi. Ma vale la pena precisare.
Nell’articolo su lavoce.info (Jappelli e Pistaferri ) si sostiene che la riforma fiscale del 2002 non ha avuto effetti sul consumo. Chi propose quella riforma annunciò che si trattava di un primo passo di un programma assai più ambizioso di revisione delle aliquote Irpef e dell’inizio di un nuovo regime fiscale. Come dimostra l’esperienza degli Stati Uniti, sgravi fiscali permanenti possono stimolare l’economia anche nel breve periodo, ma sgravi fiscali temporanei hanno principalmente un effetto sul risparmio.
Dunque, la mancata risposta del consumo alla riforma del 2002 è una dimostrazione della scarsa credibilità che avevano, almeno al momento dell’annuncio, il ministro Tremonti e il suo programma fiscale.

Dati i noti vincoli di bilancio sul nostro debito pubblico, l’unico modo per finanziare gli sgravi fiscali sarebbe stato quello di proporre simultaneamente un programma credibile di riduzione permanente della spesa pubblica all’inizio della legislatura. Ciò non è avvenuto, e dunque Jappelli e Pistaferri concludevano ironicamente che Tremonti ha ragione quando contraddice se stesso: il suo programma fiscale non è credibile.
In linea con queste osservazioni, nel commento sul Corriere della Sera (Giavazzi) si sottolineava, forse non con sufficiente forza, che una riduzione di imposte avrebbe senso solo se accompagnata da un programma coerente di riduzione della spesa pubblica, con modalità tali da essere percepita come permanente. A questo scopo si proponevano alcuni esempi, soprattutto diretti a contestare l’impressione prevalente che un paese che destina a spese correnti, al netto degli interessi, il 42 per cento del Pil non possa tagliare alcuna spesa.

Un’ultima precisazione per i non addetti ai lavori. Per ricardiano (o neoricardiano), nel contesto ricordato da Spaventa, si intende colui che ritiene che finanziare una certa spesa pubblica con debito o con imposte sia equivalente, perché il debito, prima o poi, dovrà comunque essere ripagato dalle famiglie con maggiori imposte future. Il contesto dell’articolo di Jappelli e Pistaferri su lavoce.info era diverso, chiarendo anzi che una riforma fiscale credibile è in grado di stimolare il consumo (e in questo senso l’effetto espansivo della riduzione di imposte è keynesiano). E forse Spaventa definisce keynesiano chi sostiene che un qualsiasi sgravio fiscale abbia un effetto espansivo. In questo senso il commento di Giavazzi sul Corriere è ricardiano, ritenendo che solo sgravi fiscali permanenti possano essere di stimolo per l’economia.

Francesco Giavazzi e Tullio Jappelli

Quando Tremonti ha ragione

di Tullio Jappelli e Luigi Pistaferri
18 settembre 2003

Discutendo delle prospettive dell’economia in un dibattito con Mario Monti a Cernobbio, il ministro Giulio Tremonti ha affermato che in questo momento non vale la pena ridurre le imposte, perché le famiglie utilizzerebbero il maggior reddito disponibile per aumentare i loro risparmi, invece che stimolare la produzione aumentando il consumo.

La prova? Quest’anno la Legge finanziaria ha ridotto l’Irpef. Eppure, di aumento del consumo neanche l’ombra. Anzi, i dati diffusi recentemente dall’Istat mostrano che la domanda di consumo è caduta rispetto alla seconda metà dello scorso anno e che per il secondo trimestre consecutivo il prodotto interno lordo del paese è diminuito.
Dunque, gli italiani sappiano che in futuro le imposte non verranno ridotte, non perché non ci sono risorse, ma perché è inutile. Tanto, gli italiani non spendono.

Le promesse e i fatti

A prima vista, la dichiarazione è sorprendente, perché viene proprio da parte di chi lo scorso anno aveva presentato la Legge finanziaria come un provvedimento di “rigore e di sviluppo”. Dove l’elemento principale dello “sviluppo” era lo stimolo fiscale dovuto all’abbattimento delle aliquote Irpef per i redditi fino a 15mila euro (vedi Giannini-Guerra).
E poi, non è lo stesso programma elettorale di Berlusconi che prometteva “meno tasse per tutti”?
A pensarci bene, tuttavia, per una volta Tremonti ha ragione. Siamo di fronte a una situazione che gli economisti conoscono bene. Le famiglie reagiscono in modo diverso a variazioni permanenti o temporanee dei redditi.

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Uno sgravio fiscale permanente (destinato a durare nel tempo) viene in larga misura destinato al consumo, mentre uno sgravio temporaneo (destinato a durare poco o addirittura a essere annullato da provvedimenti futuri di segno contrario) viene per la maggior parte risparmiato (vedi Boeri). Il motivo è che le famiglie cercano di mantenere un livello di consumo stabile nel corso del tempo, e che il risparmio attutisce le variazioni del reddito da un mese all’altro o da un anno all’altro (1).
Chi programma i propri acquisti cerca di mantenere uno standard di vita stabile, piuttosto che alternare un mese di consumi elevati con un periodo di bassi consumi. Un aumento permanente del reddito consente un aumento del consumo in tutti i mesi dell’anno. Invece, un aumento temporaneo del reddito (ad esempio, a vincita al lotto) viene distribuito più o meno ugualmente in tutti i mesi dell’anno. Il che significa che se ne spende un poco ogni mese e che se ne risparmia la maggior parte nel momento in cui il reddito viene percepito.

Riforme fiscali temporanee e permanenti

L’esperienza storica delle riforme fiscali americane è il modo migliore per studiare come le famiglie rispondono a una variazione di reddito. Nel 1968, l’amministrazione Nixon decise di introdurre una sovrattassa sul reddito nella speranza di rallentare i consumi e contrastare l’aumento dei prezzi.

Nel 1975, invece, il Governo concesse un assegno una tantum a tutte le famiglie nella speranza di stimolare i consumi. Risultato? Nel 1968 il tasso di risparmio passò dal 7,5 per cento (nel trimestre prima della sovrattassa) al 6,6 per cento (nel trimestre successivo). I consumatori continuarono a spendere nonostante l’aumento delle imposte. Nel 1975, il tasso di risparmio passò invece dal 6,4 per cento al 9,7 per cento: solo una piccola parte dell’assegno fu quindi destinata al consumo. La riforma fiscale di Reagan del 1986 prevedeva invece una riduzione permanente delle imposte, e fu infatti seguita da una forte riduzione del tasso di risparmio delle famiglie.
Anche l’esperienza più recente insegna che quando si cerca di stimolare l’economia con uno sgravio fiscale, occorre tenere conto degli effetti dei provvedimenti sulle aspettative dei consumatori.

Nell’estate del 2001 le famiglie americane ricevettero un assegno compreso tra i 300 e i 600 dollari, come anticipo di una riduzione permanente dell’imposta sul reddito da realizzarsi dopo il 2002. Secondo uno studio di Shapiro e Slemrod, solo il 22 per cento delle famiglie ha deciso di destinare il maggior reddito al consumo; la grande maggioranza ha scelto invece di utilizzare l’assegno per aumentare il risparmio o ridurre i debiti (2). Anche in questo caso i consumatori hanno ritenuto che in futuro vi sarebbero stati provvedimenti fiscali di segno contrario, oppure non hanno creduto che si sia trattato di una variazione permanente delle imposte (3).

La credibilità della politica fiscale

Morale? Il modo con cui gli italiani hanno risposto alla riforma dell’Irpef del 2002 è una dimostrazione eloquente della scarsa credibilità delle promesse fiscali del Governo.
Gli italiani hanno risparmiato, invece che consumare, perché si sono resi conto che la riforma fiscale di Tremonti non è parte di un programma duraturo di riduzione del carico fiscale. Piuttosto, si tratta di un episodio destinato a durare poco, se non addirittura a essere annullato da un aumento futuro di imposte, dati i nostri vincoli di bilancio e l’andamento dei conti pubblici. Oppure, hanno ritenuto che la riforma dell’Irpef abbia effettivamente natura permanente, ma si sono accorti che è stata accompagnata da altri provvedimenti o annunci di segno contrario che ne annullano gli effetti (aumento delle imposte locali, taglio dei servizi sociali o aspettativa di riforme della previdenza).

L’obiettivo della riforma fiscale di Tremonti era quello di stimolare i consumi e la crescita subito, nel breve periodo. Tutti gli economisti sanno che quando si vuole utilizzare la leva fiscale per stimolare i consumi occorre proporre riforme credibili e durature. Dunque il ministro ha ragione: la riforma fiscale non ha aumentato il consumo. Aggiungiamo noi: perché la riforma non era credibile. Peccato che Tremonti lo abbia scoperto solo ora.

(1) “È da attendersi che tentativi di frenare (o stimolare) la domanda attraverso inasprimenti (o riduzioni) transitorie del carico fiscale sul reddito abbiano scarsi effetti sul consumo, e che invece deprimano (o incrementino) il risparmio perché il consumo dipende dalle risorse complessive disponibili durante la vita, le quali sono scarsamente intaccate da una variazione temporanea del carico fiscale (affermazione questa suffragata dall’evidenza empirica)”. Franco Modigliani, Reddito, interesse , inflazione, pag. 212. Einaudi (1987).

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(2) Si veda: http://www.econ.lsa.umich.edu/~shapiro/TaxRebates09Oct02.pdf

(3) Mentre la riforma fiscale del 1986 ebbe connotati bipartisan, quella di Bush è stata criticata dai democratici, da una parte dei repubblicani e da molti economisti, tra i quali Franco Modigliani e altri nove premi Nobel . In futuro un Governo democratico potrebbe quindi ridurre sostanzialmente la portata della riforma.

Scommettere sulla ripresa

di Francesco Giavazzi
Corriere della sera 19 settembre 2003

Per la prima volta in molti anni, oggi vi è una possibilità concreta che l’economia
europea si riprenda. In Francia e in Germania la riforma delle pensioni non è più un tabù e il governo di Parigi affronta ora il problema della spesa sanitaria, la cui crescita dipende dai medesimi fattori demografici che fanno lievitare i costi della previdenza. Si incominciano anche a vedere gli effetti del lavoro svolto dalla Commissione europea per liberalizzare i mercati. E’ stato un processo lento perché sulle liberalizzazioni Bruxelles vince le sue battaglie, ma è poi costretta a concedere ai Paesi lunghi periodi di mora prima che le nuove regole entrino in vigore. Oggi finalmente, dal mercato elettrico francese alle banche pubbliche tedesche, al divieto ai sussidi pubblici alla francese Alstom si vedono i risultati di questo lavoro. Un giorno sarà anche necessario rivisitare l’opinione comune secondo la quale l’economia europea è meno produttiva di quella americana: lo è stata certamente nell’ultima parte degli anni ’90, ma, se confrontiamo l’intero decennio, la crescita della produttività è sostanzialmente identica. Con casi straordinari, come l’industria automobilistica francese che in un decennio ha eliminato il divario di produttività rispetto agli Stati Uniti, o il progetto Galileo che sottrarrà agli Usa il monopolio dei sistemi di rilevamento satellitare. Le condizioni per una ripresa ci sono, inclusa la prospettiva di una rapida crescita dell’economia americana nel 2004. Che cosa può andare storto? Il pericolo maggiore è un boomerang politico che fermi le riforme. Come ha detto il ministro dell’Economia tedesco Wolfgang Clement: «Se l’economia non cresce e la disoccupazione rimane elevata, fare le riforme prima o poi diventa impossibile». Ci troviamo quindi di fronte a un bivio: da un lato un sentiero virtuoso lungo il quale le riforme vengono portate a termine e il pessimismo sulle prospettive dell’Europa viene consegnato al passato; dall’altro niente più riforme e il perpetuarsi della stagnazione. Per imboccare la prima via occorre dare certezza alle riforme, ma al tempo stesso sostenere la domanda, per evitare i pericoli evocati da Clement.
Queste osservazioni suggeriscono uno schema semplice per le leggi finanziarie che in tutta Europa stanno per essere varate: procedere con le riforme, ma trovare anche lo spazio per ridurre le imposte in modo da sostenere la domanda nell’immediato. (Una riduzione di imposte è necessaria anche per compensare gli effetti delle riforme previdenziali: infatti la prospettiva di pensioni meno generose indurrà molte famiglie a spendere di meno e risparmiare di più). La legge finanziaria che il ministro Tremonti si appresta a proporre al Parlamento rischia di violare entrambe queste condizioni. Le violerebbe se le norme necessarie per eliminare, dal 2008, la parte più onerosa delle pensioni di anzianità fossero solo un annuncio anziché una norma da approvare assieme alla Finanziaria. I condoni hanno poi l’effetto opposto a quello desiderato: riducono il reddito disponibile delle famiglie ed equivalgono a un aumento della pressione fiscale: il contrario di ciò di cui c’è bisogno per sostenere i consumi. A meno che il recente calo delle entrate non sia l’effetto dell’annuncio di futuri condoni: in questo caso essi sarebbero evidentemente inutili per la finanza pubblica e solo dannosi per l’educazione civica dei contribuenti. Il ministro dell’Economia metta quindi da parte i condoni e finanzi una riduzione dell’Irpef con tagli di spese correnti. Lo Stato spende ogni anno, al netto degli interessi sul debito pubblico, 523 miliardi di euro, il 42% del reddito nazionale: si potrebbe incominciare col ridurre i trasferimenti a qualche ricca Regione Speciale (il Trentino-Alto Adige ad esempio) , oppure chiudere qualche università (siamo riusciti a crearne 80, quasi una per provincia, inclusa la Libera università Jean Monnet di Casamassima, in Puglia, che conta ben 139 studenti e sarei curioso di sapere quanto costa), oppure tagliare i fondi a quei Comuni che battono cassa, ma si rifiutano di cedere la proprietà delle loro aziende municipali.

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