Nella Finanziaria nessun impegno di spesa per il reddito di ultima istanza, la misura che dovrebbe servire a contrastare la povertà. Si parla genericamente, e senza specificarne l’entità, di un co-finanziamento alle Regioni, lasciando a queste la decisione finale sull’introduzione o meno del sussidio. Si perpetua così una disparità tra zona e zona del paese. Troppo restrittiva la definizione dei beneficiari: molti i poveri che non potranno ricevere assistenza sotto questa forma. Che ne è del reddito di ultima istanza, che secondo le dichiarazioni del Governo più volte ripetute in documenti ufficiali (Patto per l’Italia, Libro bianco sul welfare, Piano nazionale contro l’esclusione sociale), dovrebbe costituire la misura economica di contrasto alla povertà, dando attuazione alla norma presente nella Legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali (Legge n. 328/2000, articolo 23)? Tutto nell’articolo 16 Il progetto di Legge finanziaria per il 2004 all’articolo 16, primo comma, recita: “Nei limiti delle risorse preordinate allo scopo dal ministro del Lavoro e delle politiche sociali nell’ambito del fondo nazionale per le politiche sociali (
) lo Stato concorre al finanziamento delle Regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di inserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale e i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro”. Impegni di spesa e Regioni Il primo riguarda l’assenza di impegni di spesa. Notizie di stampa parlano, non so con quanto fondamento, di 900mila euro per il 2004, meno di due miliardi di vecchie lire. Nulla, se si pensa che la sperimentazione del reddito minimo di inserimento per due anni in trentanove comuni, quindi per una frazione minima dei potenziali beneficiari, è costata 426 miliardi. Ed è stato valutato che un Rmi a regime, 520mila vecchie lire al mese per chi vive da solo, un importo molto inferiore alla soglia della povertà assoluta e alla pensione sociale, sarebbe costato tra i 4.300 e i 5.700 miliardi di lire (1). E qui entriamo nel secondo problema. Il progetto di legge suggerisce che spetta alle Regioni dare il via alla istituzione del reddito di ultima istanza. Quelle che lo faranno, potranno ricevere un contributo dallo Stato. Così come non è detto quanto, che percentuale, questo contributo coprirà, non è detto neppure che le Regioni, tutte, sono tenute a introdurre questa misura come garanzia minima di cittadinanza sociale per tutti i cittadini italiani e in generale per chi risiede legalmente nel nostro paese. Ovvero si lascia aperta la possibilità che si perpetui la situazione attuale, che proprio nel campo della assistenza si profila come una vera e propria situazione da “cuius regio eius et religio”. Chi sono i destinatari Ma c’è ancora un altro aspetto problematico nel modo in cui si parla del reddito di ultima istanza nella Finanziaria. Riguarda la definizione dei destinatari: “i nuclei familiari a rischio di esclusione sociale e i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro”. In primo luogo, occorrerà dimostrare di essere a rischio di esclusione sociale, o essere valutati tali. Su che base si individuerà questo rischio? Chi lo valuterà? Soprattutto, per ricevere assistenza occorrerà prima degradare le proprie capacità e modi di vita così da apparire sufficientemente meritevoli? Dove sta la funzione preventiva e non solo riparativa della assistenza? In secondo luogo occorre che nessun membro della famiglia riceva la benché minima indennità di disoccupazione. A prescindere dal reddito complessivo della famiglia e dal suo rapporto con i bisogni della stessa, anche un 40 per cento dell’ultimo stipendio di un operaio a bassa qualifica dovrà bastare per mantenere lui, la moglie e i figli. Alla luce di queste due condizioni, l’obiettivo del reddito di ultima istanza non sembra essere quello, tipico delle misure di questo genere, di portare tutti a raggiungere una soglia, per quanto bassa, di risorse minime. E nemmeno quello di sostenere le capacità e iniziativa di chi si trova, più o meno provvisoriamente, in condizioni di debolezza economica e sociale. Se si aggiunge che nella Finanziaria non si spende una parola sulla riforma degli ammortizzatori sociali, è troppo facile prevedere che molti saranno i poveri che non potranno ricevere assistenza.
Ciò significa che finalmente verrà introdotta in Italia una misura di sostegno al reddito di chi si trova in povertà, analogamente a quanto avviene in tutti i paesi della Unione europea, salvo la Grecia? Non è sicuro, per diversi motivi.
Certo non tutti riceveranno la quota intera, dato che la logica del sussidio è quella di integrare il reddito fino a raggiungere la soglia stabilita. E il modello proposto nella Finanziaria è quello del co-finanziamento. Ovvero il costo dovrebbe essere diviso tra Stato e Regioni. Ma la somma ipotizzata è troppo ridicolmente bassa per configurare un serio incentivo alla istituzione di questa misura. A meno che il Governo non conti sul fatto che poche Regioni si attivino in questo campo.
Di più, dato che non si dice affatto che il fondo sociale sarà aumentato in proporzione, le Regioni, e soprattutto i comuni, che correranno il rischio di istituire questa misura, si troveranno a dover scegliere se assistere i poveri o tenere aperti i nidi, o fornire assistenza domiciliare agli anziani.
Sembra di capire che non basteranno le condizioni di reddito, a qualsiasi livello sia posta la soglia della povertà, per ricevere sostegno. Ne saranno necessarie altre due.
Né è per nulla rassicurante l’indicazione contenuta al terzo comma del medesimo articolo 16, che rimanda l’attuazione dello stesso “ad uno o più decreti del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il ministero del Tesoro”. Troppo vaghi sono gli impegni, e troppo riduttiva l’individuazione sia degli attori (Regioni) che dei destinatari, per lasciare una delega in bianco. Più facile che tutto si risolva in una bolla di sapone.
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Giacomo Correale Santacroce
Qualcuno ha detto che le parole sono pietre. Cioè che fanno parte della sostanza. Come si può non reagire a un concetto come “reddito di ultima istanza”? Una volta si parlava di reddito di cittadinanza, reddito minimo d’inserimento (o reinserimento). E’ frivolo esigere un cambiamento nelle leggi dell’espressione “reddito di ultima istanza” (come dire: prima del suicidio)?
Giacomo Correale Santacroce
La redazione
Condivido, l’espressione è infelice. Se si trattasse solo di
questo però potremmo passarci sopra. Il fatto è che corrisponde esattamente all’idea dei “poveri meritevoli” di assistenza che ha questo governo: coloro e cui condizioni sono così degradate che non c’è altro da fare che dare
loro un sussidio. E che sono così marginali da non poter pretendere rispetto per la loro dignità.
Cordiali saluti
Chiara Saraceno
Giuseppe
Sulla base delle considerazioni fatte, mi chiedo se l’attuale Governo sia cosciente delle conseguenze che potrebbero derivare dalla fine del reddito minimo di inserimento e dalla previsione del reddito di ultima istanza. Il mio pensiero va, in particolare, ad una Regione come la Sicilia (forse perchè ci vivo) in cui l’alto tasso di persone a rischio di esclusione sociale si combina con una capacità fiscale per individuo notevolmente inferiore a quella di altre Regioni. Se la Regione non riuscirà a reperire i fondi necessari o si vedrà costretta, per reperirli, a tagliare altri servizi, che ne sarà delle tantissime famiglie palermitane che vivono ai margini della società? Come si può continuare a ripetere a livello istituzionale che la lotta all’esclusione sociale è un pre-requisito essenziale per lo sviluppo complessivo del sistema nel quadro di una crescente competitività internazionale e ribadire costantemente che essa è una priorità dell’attuale Governo?
Distiniti Saluti
La redazione
Francamente credo che al governo non importi nulla delle conseguenze della cancellazione del RMI e più in generale della mancanza di una misura di sostegno al reddito e di integrazione sociale per chi è povero. Anche perché può sostenere che questa misura non c’è mai stata e non per questo in Italia sono successi disastri sul piano politico. E non mi sembra proprio che, finita la campagna elettorale, abbia mai più detto che il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale è una delle priorità. Aggiungo che proprio la concentrazione della povertà nel Mezzogiorno è uno dei motivi che produce maggiore resistenza alla introduzione di una misura di questo tipo sia tra chi teme che sia una ennesima politica assistenziale a fondo perduto sia tra chi, nella maggioranza e nel governo, usa lo spettro della
secessione del Nord laborioso dal Sud dipendente. Anche se i fatti di questi giorni mostrano quanto possa costare al paese la fantasiosa e disinvolta “laboriosità” di alcuni imprenditori del Nord: certo molto più che l’introduzione generalizzata e su base universalistica del RMI.
cordialmente
Saraceno