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Ma il problema è il Codice civile

A rendere necessario il decreto salva-calcio è un articolo del codice civile. Tutela i creditori imponendo la liquidazione o la ricapitalizzazione di una società sulla base di soli dati contabili. Garantisce pochi benefici, ma ha alti costi perché scoraggia l’attività imprenditoriale attraverso società di capitali. Oltre alle squadre di calcio penalizza molte piccole e medie imprese. E infatti una simile regola non esiste nella maggior parte dei paesi europei. Sarebbe perciò più opportuno abolirla del tutto dal nostro diritto societario.

Le norme contabili “salva-calcio” approvate nella primavera scorsa saranno oggetto di due procedure d’infrazione della Commissione europea: sarà verificata la compatibilità con la disciplina degli aiuti di Stato e con le norme contabili europee.

L’articolo 2447 del codice civile

Alla radice delle ragioni sottese all’intervento di “salvataggio” del Governo italiano, è una norma del codice civile (l’articolo 2447) che nessuna direttiva comunitaria ci impone, che non ha equivalenti in diversi altri Stati membri dell’Unione europea e la cui giustificazione economica è più che dubbia. Se con le modifiche alla riforma del diritto societario si eliminasse quella norma, verrebbe meno anche l’esigenza di modificare le regole di bilancio delle società calcistiche e si potrebbe dunque evitare la procedura d’infrazione.
Una scelta del genere avvantaggerebbe anche molte piccole e medie imprese non calcistiche, che spesso sono condannate a chiudere da quella stessa norma, pur non essendo tecnicamente insolventi.

Giuseppe Pisauro ha già chiarito a suo tempo per quali ragioni il Governo e il Parlamento hanno deciso di intervenire: per evitare alle società calcistiche la scomoda eredità di ammortamenti eccessivi, si è consentito di spalmare su più esercizi le svalutazioni del patrimonio giocatori. In questo modo, si è permesso alle società calcistiche di non riconoscere immediatamente in bilancio gravi perdite, che avrebbero comportato in molti casi la necessità di ricapitalizzare la società o di scioglierla.
L’articolo 2447 del codice civile, infatti, nella vecchia come nella nuova formulazione conseguente alla riforma del gennaio 2003, dispone che in caso di riduzione del patrimonio netto, in conseguenza di perdite, al di sotto del minimo legale (100mila euro nella vecchia disciplina, 120mila nella nuova), la società abbia due opzioni: o raccoglie nuovi mezzi freschi mediante aumento di capitale o si scioglie e dunque viene liquidata.Vi è in realtà una terza opzione, quella della trasformazione in società di persone, ma essa pare preclusa alle società calcistiche. Le perdite conseguenti alle svalutazioni avrebbero avuto sui bilanci l’effetto di imporre ai soci una ricapitalizzazione della società (prospettiva assai poco piacevole, vista la scarsa redditività dell’investimento in società calcistiche), pena lo scioglimento automatico delle società stesse.

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Scioglimento o fallimento?

Nei commenti sulla stampa si confonde spesso lo scioglimento seguito da liquidazione con il fallimento (il dover “portare i libri in tribunale”). Si tratta, però, di ipotesi ben diverse: infatti, una società può benissimo sopravvivere e pagare regolarmente i propri debiti, anche se il suo patrimonio si è ridotto al di sotto del minimo legale e perfino se il suo patrimonio netto è negativo. Ciò può accadere in quanto le norme contabili spesso non consentono di contabilizzare attività immateriali (ad esempio, l’avviamento) che invece permettono a una società di sopravvivere e di trovare credito a prescindere dai risultati di bilancio.

E del resto, non occorre essere esperti di finanza per capire che, in mercati anche vagamente efficienti, la capacità di una società di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni non può essere influenzata dal modo in cui si contabilizzano determinate perdite. O i soldi per pagare i giocatori e gli interessi bancari ci sono o una società deve portare i libri in tribunale a prescindere dalle norme in materia di bilancio.
L’articolo 2447 del codice civile disconosce, di fatto, questa realtà e si preoccupa di tutelare i creditori, imponendo la liquidazione o la ricapitalizzazione, già in una fase di semplice allarme che si basa esclusivamente su dati contabili, non necessariamente indicativi del reale stato di salute di una società, come si è visto.

Una regola da eliminare

Assieme a Jon Macey, ho sostenuto che una regola di questo tipo, presente anche in altri ordinamenti europei (ma non in tutti), dovrebbe essere cancellata, perché a fronte dei limitati benefici che può assicurare ai creditori sociali, impone alle imprese e al sistema economico nel suo complesso costi assai significativi.
In sintesi, possono darsi due casi: o una società che presenta perdite al di sotto del minimo legale è realmente in crisi o vi sono attività non contabilizzabili che consentirebbero alla società di proseguire con quella struttura finanziaria e patrimoniale. Nel primo caso, è improbabile che i creditori più attenti (le banche) non abbiano avuto sentore delle difficoltà prima che i dati contabili emergano e che non abbiano conseguentemente attivato strumenti di autotutela in grado di prevenire l’aggravarsi della crisi (ad esempio chiedendone il fallimento), a vantaggio, di solito, anche degli altri creditori. Nel secondo caso, s’impone ai soci, di fatto, un’inutile ricapitalizzazione, richiedendo loro di vincolare alla società capitali superflui rispetto ai bisogni finanziari di questa. Se, per qualunque ragione, i soci hanno problemi di liquidità, dovranno cercare l’aiuto di terzi, così diluendo la propria quota, e se non riusciranno a trovare terzi disposti a investire nella società (non è necessariamente facile convincere un estraneo della bontà di un investimento le cui prospettive reddituali non possono riflettersi nei dati contabili). Tutto ciò, chiaramente, scoraggia ex ante l’iniziativa imprenditoriale in forma di società di capitali.

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Se le società calcistiche avessero potuto svalutare il patrimonio giocatori senza la spada di Damocle dell’articolo 2447 del codice civile, la necessità del decreto salva-calcio non sarebbe mai sorta.
Poiché questa regola è assai discutibile in generale, quale migliore occasione di quella fornita dalle modifiche e correzioni alla riforma del diritto societario per eliminarla per tutte le società, abrogando al contempo le norme contabili salva-calcio, così da accontentare la Commissione europea? Dopotutto, una simile norma pone tutte le società di capitali italiane, calcistiche e non, in una posizione di svantaggio competitivo nei confronti di quelle costituite in Stati (anche calcisticamente) non secondari, come l’Inghilterra, che si guardano bene dall’introdurla.

Per saperne di più

L. Enriques e J. Macey, Raccolta di capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale, in Rivista delle società, 2002, pp. 78-120 (traduzione di un articolo pubblicato in Cornell Law Review, 2001, vol. 86, pp. 1165-1204). Una proposta di superamento della norma in questione era contenuta nella proposta di riforma del diritto societario presentata dai Ds nella scorsa e nella presente legislatura.

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  1. Alessandro Savorana

    Non è proprio vero che nessuna direttiva comunitaria ci impone una norma tipo quella del nostro codice civile (l’articolo 2447). Sul fatto che non abbia equivalenti in diversi altri Stati membri dell’Unione europea non posso esprimermi, ma sembra particolarmente strano tenuto conto degli obiettivi e delle finalità della SECONDA DIRETTIVA DEL CONSIGLIO del 13 dicembre 1976 (77/91/CEE), imperniata sulla tutela (e informazione) dei soci e dei creditori sociali.
    L’art. 17 della direttiva recita, infatti che

    1. In caso di perdita grave del capitale sottoscritto, l’assemblea deve essere convocata nel termine previsto dalla legislazione degli Stati membri, per esaminare se sia necessario
    sciogliere la società o prendere altri provvedimenti.
    2. La legislazione di uno Stato membro non può fissare a più di metà del capitale sottoscritto l’importo della perdita considerata come grave ai sensi del paragrafo 1.

    A prescindere da ogni considerazione di carattere economico della nostra disposizione e ancor più sulla determinazione e formazione della perdita, la ragione che le banche possano essere creditori privilegiati nella prima informazione e agiscano in tutela di tutti i creditori non appare soddisfacente in via di principio. L’istituto del 2447 c.c. è strumento necessario per porre in essere una adeguata tutela nei confronti di tutti i terzi che intrattengono rapporti commerciali con la società e che possono anche non aver accesso, in via preventiva, alle informazioni sullo stato di salute della società. La procedura si risolve così in una preventiva valutazione da parte degli organi sociali sui presupposti per una concreta continuazione dell’attività sociale.
    Non sono contrario al decreto “salvacalcio”. Ma credo che siano altre le ragioni da sostenere.
    Alessandro Savorana

    • La redazione

      l’art. 2447, e’ un tema sul quale reasonable
      minds may differ, per dirla in inglese. ma nel valutare se la tutela dei terzi sia “adeguata” bisogna tener conto anche dei costi che la regola porta con se’, non solo dei benefici hce ne possono ricavare i terzi. Mi permetto, in ogni caso, di rinviare al mio articolo in riv. soc. per qualche argomentazione in piu’.
      grazie del commento e cordiali saluti.
      luca enriques

  2. Paolo Bertoletti

    Premesso che 120.000 euro di capitale sociale per una società per azioni non mi sembrano molti (soprattutto per una società di calcio del Campionato italiano di serie A), mi pare che non occorra essere esperti di contabilità per capire che il bilancio ha anche (se non soprattutto) un ruolo informativo che non puo’ essere messo tra parentesi senza rischi, neppure se i mercati sono perfettamente efficienti, come mi pare faccia il suggerimento di cancellazione dell’articolo 2447 del codice civile.
    Inoltre, la norma non puo’ essere letta anche come una tutela per gli azionisti di minoranza (per non parlare dei dipendenti)?
    Cordialmente,
    Paolo Bertoletti

    • La redazione

      Caro Bertoletti,
      nessuno dubita del ruolo informativo del bilancio. E’ solo che non e’ (esclusivamente) dal bilancio che si capisce se una societa’ e’ INSOLVENTE, come si deve fare in Italia, invece, a causa dell’art. 2447 il bilancio fornira’ certo dei segnali significativi ai creditori, ma da qui a imporre una ricapitalizzazione sulla base dei soli valori di bilancio ce
      ne corre. 120.000 euro sembrano pochi se si pensa che il minimo sia zero. Ma zero non e’ il minimo. Molte societa’, nei paesi in cui questa regola non esiste, sopravvivono tranquillamente con patrimonio netto negativo. Inoltre, la norma non puo’ essere letta anche come una tutela per gli
      azionisti di minoranza (per non parlare dei dipendenti)?
      Gli azionisti di minoranza che vantaggio ne traggono se devono partecipare a una ricapitalizzazione (plausibilmente non necessaria, altrimenti non avrebbero bisogno del 2447 per farla) ovvero rischiare di essere diluiti, se non addirittura di perdere la qualita’ di socio, ove non siano in grado di
      sottoscrivere l’aumento di capitale? E se i soldi per la ricapitalizzazione non si trovano e la societa’ va liquidata, chi ci guadagna? di certo non i dipendenti. La liquidazione non e’ di sicuro la migliore delle condizioni per preservare il valore della societa’ come going concern (cioe’ per conservare il posto di lavoro etc.).

      cordiali saluti.
      l.e.

  3. Alessandro Savorana

    Egregio Professore,
    Non mi trovo pienamente allineato sulla sua posizione, che pur apprezzo. Vero che la norma parla di esaminare, ma economicamente, a mo parere, questo significa una critica valutazione della situazione, tanto che, almeno in Italia, una situazione come quella ex art. 2447 c.c. costituisce causa di scioglimento della società ex art. 2448. L’art. 17 della direttiva non ci dice che non dobbiamo fare nulla. In caso di grave perdita l’assemblea deve essere convocata affinché una decisione sia comunque presa: sciogliere la società o prendere altri provvedimenti. Dunque, se non si delibera lo scioglimento occorre comunque adottare tempestivi provvedimenti strutturali. Per l’Italia la copertura di gravi perdite costituisce una adeguata tutela dei terzi, in perfetta linea con le direttive in materia societaria e dei conti annuali che individuano nell’integrità dal capitale una garanzia “minima” per i creditori sociali.
    Leggerò con interesse il suo articolo e la ringrazio per l’attenzione.

    Dr. Alessandro Savorana
    Dottore commercialista
    Consigliere dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano e Delegato della Commissione Normative Comunitarie.

    • La redazione

      ogni norma ammette piu’ interpretazioni. posso solo dirle che nella letteratura in lingua inglese (non solo nella dottrina inglese) sull’argomento l’interpretazione che Le ho dato per pacifica e’ effettivamente tale.
      cordiali saluti.
      l.e.

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