Uniche responsabili dell’attuale crisi sono le società di calcio. Perché si sono affidate ad artifici contabili invece di affrontare il problema dei costi superiori ai ricavi. Dovuto non tanto agli stipendi dei calciatori quanto agli ammortamenti. Ma la vera questione è che in Italia gli introiti derivano soprattutto dai diritti televisivi, lasciando del tutto in secondo piano la vendita dei biglietti per le partite. Lo dimostra il confronto con i bilanci delle squadre straniere.

Siamo alle solite. Quasi tutte le imprese di un settore, quello del calcio, sono in profonda crisi, e la colpa, come sempre, non è di nessuno. Caso mai è “del casino che c’è in questo paese” (Gaucci) o di qualsiasi altra cosa, basta che non si dica che la responsabilità è delle società di calcio.

Artifici contabili

Tutte le società calcistiche di serie A, imprese come tutte le altre, hanno ricavi “da gestione caratteristica” inferiori ai costi. E hanno spazzato la polvere sotto il tappeto. Ovvero, invece di preoccuparsi di aumentare i ricavi ordinari, hanno pensato ad artifici contabili, gonfiando ad arte queste “plusvalenze”, vendendo parti del loro patrimonio (giocatori, ma non solo) a valori superiori a quelli riportati a bilancio. Come funziona il meccanismo?

Supponiamo di essere una società di calcio e di dover quest’anno ripianare i conti. Prendiamo perciò un calciatore che vale un milione di euro e lo scambiamo con un’altra squadra che ha un giocatore che vale altrettanto. Però a bilancio sia noi, sia l’altra società scriviamo dieci milioni.Entrambe abbiamo così una plusvalenza pari a nove milioni di euro. Per i flussi di cassa odierni, questa operazione è irrilevante perché alla fine abbiamo un giocatore che vale quanto quello di prima; però abbiamo “inventato” un’entrata extra, che compensa il fatto che i costi sono superiori ai ricavi “normali”.

Ma la contabilità ha memoria e si vendica, tramite gli ammortamenti. Se oggi abbiamo “acquistato” un giocatore che formalmente ci è costato dieci milioni abbiamo aumentato i costi di domani, perché quel “bene” deve essere ammortizzato: ogni anno, una frazione di questi dieci milioni deve comparire come costo nel nostro bilancio.
Da qui, la richiesta di poter “spalmare” questi costi su più anni di quanto non facciano altre imprese.

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La colpa dell’attuale crisi, che per molti diverrebbe insostenibile se il decreto di gennaio 2003 fosse ritenuto inammissibile da Bruxelles, non è di altri che delle società di calcio. Il problema di ricavi inferiori ai costi era noto; il giochino delle plusvalenze è stato il classico rimedio di breve periodo, che nel lungo periodo (e ormai ci siamo) ha creato più problemi di quanti ne abbia coperti. Le imprese hanno finto di non sapere, confidando di essere “troppo grosse per fallire”; in termini sociali, se non in termini puramente economici.

Falliranno le società di calcio? Non credo. La politica industriale europea non è irragionevole, non mira ad affossare le imprese, mira a costringere nazioni e imprese a giocare in modo onesto. La politica industriale europea è fatta anche di salvataggi tollerati se non favoriti (France Telecom e Alstom sono solo due esempi recenti). Ma occorre parlare seriamente non più di come nascondere i problemi, ma di come risolverli.

Nessuna facile soluzione

Una ricetta? Credo che solo molta presunzione potrebbe far pensare di averne una pronta in tasca. Ma può essere istruttivo confrontare i bilanci di una grande società straniera, il Manchester United, con quelli della società italiana meglio gestita, finanziariamente, ma non solo: la Juventus. Vediamo qualche numero, riferito ai bilanci fino al 2001-02.

Si dice spesso che il problema delle società italiane è il costo dei calciatori. In parte è vero: nel 2001-02 il costo complessivo per gli stipendi della Juventus era 137 milioni di euro, mentre per il Manchester la cifra era 103 milioni. Ma per il Manchester il costo complessivo del lavoro rappresenta almeno il 54 per cento dei costi, per la Juventus il 50 per cento. Allora, il problema del calcio italiano non è il costo dei calciatori. Altri hanno costi simili, ma fanno profitti.

Ammortamenti: qui stanno i veri dolori, perché per la Juventus abbiamo 68 milioni di euro, per il Manchester solo 26 (il 13 per cento dei costi, contro il 25 per cento della Juventus). Il Manchester ha giocatori scadenti, o qualche squadra, anche se la meglio gestita del paese, ha avuto una politica un po’ allegra?

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I ricavi? Quello che si racconta un po’ meno è che i ricavi delle società italiane dipendono in modo straordinario dai diritti Tv, che sono oltre il 50 per cento dei ricavi delle società italiane, il 43 per cento dei ricavi della Juventus, ma solo il 22 per cento di quelli del Manchester.

Ancor meno si racconta che i ricavi dei biglietti, dei pranzi serviti allo stadio ecc. nel 2001-02 hanno fruttano al Manchester 78 milioni di euro, il 36 per cento delle sue entrate annuali. Per la Juventus il fatto che la gente vada o meno allo stadio è quasi secondario (l’8 per cento dei ricavi), tanto che pare che il nuovo stadio avrà una capienza molto minore di quella attuale, ma forse sarà maggiormente capace di dare servizi agli spettatori. E non è un problema di costo dei biglietti: in partite normali quelli del Manchester costano da 23 a 31 sterline, quelli della Juventus da 20 a 55 euro (a parte le poltrone).

Quali allora le radici della disaffezione per lo stadio? Non è facile a dirsi. Forse una parte della crisi è dovuta a chi convince la gente che il calcio è moviola e complotti. Forse un’altra parte sta nei problemi di ordine pubblico.

Non ci sono risposte facili, ma per queste società eludere il problema non è più possibile.

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