La crisi del calcio nuovamente sotto i riflettori. Riproponiamo ai lettori alcuni contributi che affrontano la genesi del problema e ne discutono possibili soluzioni. Gli interventi di Marco Gambaro (Il calcio è di rigore), Luca Enriques (Ma il problema è il Codice civile), Carlo Scarpa (Stadi vuoti, conti in rosso) e Giuseppe Pisauro (Finale di partita senza pareggio, Un calcio al fisco)
Marco Gambaro
1 Marzo 2004
Con le perquisizioni della Guardia di finanza nelle società di A e B, la crisi del calcio è finita sotto i riflettori, ma le dinamiche strutturali che la caratterizzano sono sotto gli occhi degli operatori da almeno cinque anni.
Nelle prossime settimane, la magistratura dirà se la fantasia contabile esercitata da molte squadre è scivolata in vere irregolarità, pagamenti in nero e falsi in bilancio.
Costi e plusvalenze
Negli ultimi sei anni, i costi delle società di serie A sono sistematicamente stati superiori ai ricavi con un risultato negativo che è passato dai 220 milioni di euro nella stagione 1997-98 a oltre un miliardo di euro nella stagione conclusa nel 2003. Complessivamente, in questi sei anni sono state accumulate nella gestione caratteristica perdite superiori ai 3,5 miliardi di euro e l’incidenza di queste sul fatturato è passata dal 49 per cento nel 1999 al 93 per cento nell’esercizio 2001-02.
Le perdite sono state ripianate con le plusvalenze generate dalla compravendita di giocatori. Intendiamoci, non si tratta dell’unico settore dove la compravendita dei fattori di produzione interagisce col conto economico. (1)
Ma nelle società calcistiche vi è stata una continua crescita delle plusvalenze da cessione, che avrebbe una giustificazione solo in presenza di crescenti prospettive di profitto generate grazie a fattori produttivi (i calciatori). Quelle plusvalenze in realtà non sembrano contenere speranze di profitto, ma appaiono un modo per dilazionare le perdite, in attesa di tempi migliori o di qualche magia.
I diritti televisivi hanno fatto da catalizzatore della crisi (si veda l’intervento di Gambaro del 16-09-2003). Quando la concorrenza nel mercato televisivo ha spinto in alto i prezzi di acquisizione dei diritti, le squadre hanno sopravvalutato le possibilità future di crescita e trasformato quel flusso di ricavi aggiuntivi in rendite dei giocatori (il vero fattore scarso sia per lo spettacolo che per il successo sportivo). Ma gli stipendi dei calciatori sono costi quasi fissi molto rigidi verso il basso: quando la pay è cresciuta meno del previsto, i costi sono rimasti e le perdite si sono moltiplicate.
Squadre come imprese di intrattenimento
Ma perché i proprietari sopportano perdite continue così consistenti? E la situazione come può essere riequilibrata?
Le spiegazioni alla prima domanda potrebbero essere due. Forse, per molti presidenti, il mantenimento di una squadra potrebbe essere un consumo voluttuario, legato a una passione personale: l’importanza delle cifre in gioco rende però poco plausibile questa sola motivazione. Il controllo di una squadra potrebbe invece generare esternalità in altri campi. Nelle città minori, il presidente della squadra locale rivaleggia in popolarità col sindaco e, in questo caso, i passivi delle società non sarebbero altro che spese in comunicazione non correttamente addebitate in altre società. Ad esempio sarebbe interessante calcolare il valore dello spazio sui giornali ottenuto da alcuni presidenti secondo il costo dello spazio pubblicitario equivalente, un parametro che sebbene discutibile, ha il pregio di consentire una misurazione abbastanza obiettiva.
Il problema torna dunque a essere un miglioramento della forbice costi ricavi.
Sul lato dei ricavi le cose non sono semplici.
Nella maggior parte dei casi, la trasmissione di una partita in televisione non genera ricavi sufficienti a ripagare il costo dei diritti. Difficilmente quindi il prezzo percepito dalle squadre può salire, anzi è facile che nei prossimi rinnovi contrattuali scenda. Il solo modo per limitare questo calo sarebbe aumentare la spettacolarità e la commercializzazione delle trasmissioni sportive ammettendo le telecamere negli spogliatoi o sui pullman di trasferimento, facilitando interviste esclusive per chi paga i diritti e lasciando più spazio agli sponsor.
Ma è una strada che non manca di controindicazioni.
I ricavi da botteghino sono stabili da molti anni con un leggero calo in termini reali dovuto alla riduzione di presenze (-7 per cento negli ultimi quattro anni). La saturazione degli stadi italiani (58 per cento nel 2001) è inferiore a quella di altri paesi europei come la Francia (74 per cento), la Germania (73 per cento). I livelli di saturazione della Gran Bretagna (oltre il 90 per cento) sono collegati a stadi mediamente più piccoli, tutti con posti numerati.
Il prezzo italiano ha già punte assi superiori agli altri paesi europei, ma la quota di biglietti venduti ad alto prezzo è molto contenuta. Inoltre, mancano i ricavi accessori: il Manchester United ricava cifre importanti dalla vendita di pranzi e rinfreschi.
La strada per l’aumento dei ricavi passa da una ricostruzione di stadi dedicati al calcio con molto spazio per servizi accessori, box da vendere ad aziende e utilizzabili durante tutta la settimana.
Si tratta di una strada che richiede capitali da investire, tempi lunghi e competenze manageriali che spesso mancano nelle società italiane, salvo eccezioni davvero rare.
I ricavi di sponsorizzazione e merchandising possono crescere, ma non di molto e richiedono quelle stesse competenze manageriali.
Il confronto spesso fatto con il solito Manchester è in parte fuorviante perché quella squadra è un caso abbastanza unico anche nel più strutturato panorama inglese. Inoltre, tradizionalmente il Manchester organizzava direttamente la produzione del merchandising che quindi nel suo bilancio appare come fatturato complessivo e non solo come quota di royalty, come invece avviene nella maggior parte dei casi.
Le squadre più avvedute cominciano a pensarsi come imprese che operano nel settore dell’intrattenimento: il problema è allora la massimizzazione del flusso complessivo di diritti e vanno progettate architetture sportive e orientamenti commerciali per gestire in modo appropriato la molteplicità dei ricavi.
Investimenti per il risanamento
Le azioni per la riduzione dei costi possono riguardare prezzo di acquisto e compensi dei calciatori, e quindi gli ammortamenti e la dimensione delle rose di giocatori che una squadra ha disposizione.
Le squadre italiane hanno una rosa media di trentotto giocatori, un numero sensibilmente superiore alle media degli altri paesi. Le rose delle squadre maggiori sono anche più ampie con molti giocatori inutilizzati, talvolta prestati a quelle minori pur di tenerli in gioco.
Nell’avvio della stagione 2003-04 la stampa ha riportato diversi episodi di riduzione dei compensi dei calciatori. Il trend non potrà che continuare e il costo medio dei giocatori dovrà scendere a circa la metà dei livelli raggiunti nel 2002-03. Del resto, l’incidenza degli stipendi dei giocatori sul fatturato è del 75 per cento in Italia contro il 64per cento in Francia, il 55 per cento in Spagna, il 46 per cento in Germania. Anche se, considerando l’incidenza sui costi complessivi, le differenze potrebbero essere minori
L’ampliamento delle rose e l’escalation dei compensi sono anche il frutto di strategie sportive che puntano più sulla somma di talenti individuali che sulla costruzione di una squadra il cui valore aggiunto sia l’interazione tra i singoli soggetti. L’effetto economico di quelle strategie è proprio l’incapacità delle squadre di trattenere eventuali rendite.
Per una squadra, l’investimento in giocatori è strettamente correlato con i risultati sportivi e dunque anche nel percorso di risanamento si pongono alcuni problemi a cavallo tra l’equilibrio sportivo e l’antitrust.
Se non tutte le squadre sono disciplinate allo stesso modo dalla ricerca di profitto, anche i risultati sportivi possono esserne influenzati. Le squadre che possono sopportare perdite senza problemi potrebbero spendere cifre più elevate per avere giocatori più validi e risultati sportivi migliori, con una distorsione sia della concorrenza per i ricavi, che delle dinamiche agonistiche.
Inoltre, nella ricerca di un ampliamento dei ricavi, le città con un bacino di popolazione più grande e più ricco (importante per il mercato pubblicitario che guida i ricavi da sponsorizzazioni e quelli dei diritti televisivi) sono avvantaggiate.
In tutta Europa i campionati nazionali sono caratterizzati da una marcata polarizzazione tra un ristretto gruppo di grandi squadre in grado di competere per il titolo e gli altri club che si limitano a partecipare.
Alla lunga questa configurazione può però essere controproducente.
Le squadre infatti sono in concorrenza tra loro per le risorse economiche e i risultati sportivi, ma devono cooperare per organizzare i tornei, concordare le regole e mantenere un minimo di equilibrio nella competizione. È interesse di ogni squadra che i suoi concorrenti non siano troppo deboli perché altrimenti l’interesse per le partite calerebbe e con esso scenderebbero i ricavi.
Le nuove regole UEFAche prevedono vincoli sui bilanci abbastanza stringenti, tra cui un tetto per gli stipendi al 70 per cento del fatturato, vanno nella direzione di disciplinare i comportamenti economici pericolosi.
Per il calcio italiano si tratta però di ricostruire una cornice di regole e istituzioni adatta alla nuova interazione tra dinamiche sportive e concorrenza economica.
(1) Ad esempio, nel trasporto marittimo buona parte dei profitti sono realizzati con acquisti e vendite tempestive di navi i cui prezzi subiscono oscillazioni vistose.
4 Novembre 2003
Luca Enriques
Le norme contabili “salva-calcio”approvate nella primavera scorsa saranno oggetto di due procedure d’infrazione della Commissione europea: sarà verificata la compatibilità con la disciplina degli aiuti di Stato e con le norme contabili europee.
L’articolo 2447 del codice civile
Alla radice delle ragioni sottese all’intervento di “salvataggio” del Governo italiano, è una norma del codice civile (l’articolo 2447) che nessuna direttiva comunitaria ci impone, che non ha equivalenti in diversi altri Stati membri dell’Unione europea e la cui giustificazione economica è più che dubbia. Se con le modifiche alla riforma del diritto societario si eliminasse quella norma, verrebbe meno anche l’esigenza di modificare le regole di bilancio delle società calcistiche e si potrebbe dunque evitare la procedura d’infrazione.
Una scelta del genere avvantaggerebbe anche molte piccole e medie imprese non calcistiche, che spesso sono condannate a chiudere da quella stessa norma, pur non essendo tecnicamente insolventi.
Giuseppe Pisauro ha già chiarito a suo tempo per quali ragioni il Governo e il Parlamento hanno deciso di intervenire: per evitare alle società calcistiche la scomoda eredità di ammortamenti eccessivi, si è consentito di spalmare su più esercizi le svalutazioni del patrimonio giocatori. In questo modo, si è permesso alle società calcistiche di non riconoscere immediatamente in bilancio gravi perdite, che avrebbero comportato in molti casi la necessità di ricapitalizzare la società o di scioglierla.
L’articolo 2447 del codice civile, infatti, nella vecchia come nella nuova formulazione conseguente alla riforma del gennaio 2003, dispone che in caso di riduzione del patrimonio netto, in conseguenza di perdite, al di sotto del minimo legale (100mila euro nella vecchia disciplina, 120mila nella nuova), la società abbia due opzioni: o raccoglie nuovi mezzi freschi mediante aumento di capitale o si scioglie e dunque viene liquidata.Vi è in realtà una terza opzione, quella della trasformazione in società di persone, ma essa pare preclusa alle società calcistiche. Le perdite conseguenti alle svalutazioni avrebbero avuto sui bilanci l’effetto di imporre ai soci una ricapitalizzazione della società (prospettiva assai poco piacevole, vista la scarsa redditività dell’investimento in società calcistiche), pena lo scioglimento automatico delle società stesse.
Scioglimento o fallimento?
Nei commenti sulla stampa si confonde spesso lo scioglimento seguito da liquidazione con il fallimento (il dover “portare i libri in tribunale”). Si tratta, però, di ipotesi ben diverse: infatti, una società può benissimo sopravvivere e pagare regolarmente i propri debiti, anche se il suo patrimonio si è ridotto al di sotto del minimo legale e perfino se il suo patrimonio netto è negativo. Ciò può accadere in quanto le norme contabili spesso non consentono di contabilizzare attività immateriali (ad esempio, l’avviamento) che invece permettono a una società di sopravvivere e di trovare credito a prescindere dai risultati di bilancio.
E del resto, non occorre essere esperti di finanza per capire che, in mercati anche vagamente efficienti, la capacità di una società di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni non può essere influenzata dal modo in cui si contabilizzano determinate perdite. O i soldi per pagare i giocatori e gli interessi bancari ci sono o una società deve portare i libri in tribunale a prescindere dalle norme in materia di bilancio.
L’articolo 2447 del codice civile disconosce, di fatto, questa realtà e si preoccupa di tutelare i creditori, imponendo la liquidazione o la ricapitalizzazione, già in una fase di semplice allarme che si basa esclusivamente su dati contabili, non necessariamente indicativi del reale stato di salute di una società, come si è visto.
Una regola da eliminare
Assieme a Jon Macey, ho sostenuto che una regola di questo tipo, presente anche in altri ordinamenti europei (ma non in tutti), dovrebbe essere cancellata, perché a fronte dei limitati benefici che può assicurare ai creditori sociali, impone alle imprese e al sistema economico nel suo complesso costi assai significativi.
In sintesi, possono darsi due casi: o una società che presenta perdite al di sotto del minimo legale è realmente in crisi o vi sono attività non contabilizzabili che consentirebbero alla società di proseguire con quella struttura finanziaria e patrimoniale. Nel primo caso, è improbabile che i creditori più attenti (le banche) non abbiano avuto sentore delle difficoltà prima che i dati contabili emergano e che non abbiano conseguentemente attivato strumenti di autotutela in grado di prevenire l’aggravarsi della crisi (ad esempio chiedendone il fallimento), a vantaggio, di solito, anche degli altri creditori. Nel secondo caso, s’impone ai soci, di fatto, un’inutile ricapitalizzazione, richiedendo loro di vincolare alla società capitali superflui rispetto ai bisogni finanziari di questa. Se, per qualunque ragione, i soci hanno problemi di liquidità, dovranno cercare l’aiuto di terzi, così diluendo la propria quota, e se non riusciranno a trovare terzi disposti a investire nella società (non è necessariamente facile convincere un estraneo della bontà di un investimento le cui prospettive reddituali non possono riflettersi nei dati contabili). Tutto ciò, chiaramente, scoraggia ex ante l’iniziativa imprenditoriale in forma di società di capitali.
Se le società calcistiche avessero potuto svalutare il patrimonio giocatori senza la spada di Damocle dell’articolo 2447 del codice civile, la necessità del decreto salva-calcio non sarebbe mai sorta.
Poiché questa regola è assai discutibile in generale, quale migliore occasione di quella fornita dalle modifiche e correzioni alla riforma del diritto societario per eliminarla per tutte le società, abrogando al contempo le norme contabili salva-calcio, così da accontentare la Commissione europea? Dopotutto, una simile norma pone tutte le società di capitali italiane, calcistiche e non, in una posizione di svantaggio competitivo nei confronti di quelle costituite in Stati (anche calcisticamente) non secondari, come l’Inghilterra, che si guardano bene dall’introdurla.
Per saperne di più
L. Enriques e J. Macey, Raccolta di capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale, in Rivista delle società, 2002, pp. 78-120 (traduzione di un articolo pubblicato in Cornell Law Review, 2001, vol. 86, pp. 1165-1204). Una proposta di superamento della norma in questione era contenuta nella proposta di riforma del diritto societario presentata dai Ds nella scorsa e nella presente legislatura.
4 Novembre 2003
Carlo Scarpa
Siamo alle solite. Quasi tutte le imprese di un settore, quello del calcio, sono in profonda crisi, e la colpa, come sempre, non è di nessuno. Caso mai è “del casino che c’è in questo paese” (Gaucci) o di qualsiasi altra cosa, basta che non si dica che la responsabilità è delle società di calcio.
Artifici contabili
Tutte le società calcistiche di serie A, imprese come tutte le altre, hanno ricavi “da gestione caratteristica” inferiori ai costi. E hanno spazzato la polvere sotto il tappeto. Ovvero, invece di preoccuparsi di aumentare i ricavi ordinari, hanno pensato ad artifici contabili, gonfiando ad arte queste “plusvalenze”, vendendo parti del loro patrimonio (giocatori, ma non solo) a valori superiori a quelli riportati a bilancio. Come funziona il meccanismo?
Supponiamo di essere una società di calcio e di dover quest’anno ripianare i conti. Prendiamo perciò un calciatore che vale un milione di euro e lo scambiamo con un’altra squadra che ha un giocatore che vale altrettanto. Però a bilancio sia noi, sia l’altra società scriviamo dieci milioni.Entrambe abbiamo così una plusvalenza pari a nove milioni di euro. Per i flussi di cassa odierni, questa operazione è irrilevante perché alla fine abbiamo un giocatore che vale quanto quello di prima; però abbiamo “inventato” un’entrata extra, che compensa il fatto che i costi sono superiori ai ricavi “normali”.
Ma la contabilità ha memoria e si vendica, tramite gli ammortamenti. Se oggi abbiamo “acquistato” un giocatore che formalmente ci è costato dieci milioni abbiamo aumentato i costi di domani, perché quel “bene” deve essere ammortizzato: ogni anno, una frazione di questi dieci milioni deve comparire come costo nel nostro bilancio.
Da qui, la richiesta di poter “spalmare” questi costi su più anni di quanto non facciano altre imprese.
La colpa dell’attuale crisi, che per molti diverrebbe insostenibile se il decreto di gennaio 2003 fosse ritenuto inammissibile da Bruxelles, non è di altri che delle società di calcio. Il problema di ricavi inferiori ai costi era noto; il giochino delle plusvalenze è stato il classico rimedio di breve periodo, che nel lungo periodo (e ormai ci siamo) ha creato più problemi di quanti ne abbia coperti. Le imprese hanno finto di non sapere, confidando di essere “troppo grosse per fallire”; in termini sociali, se non in termini puramente economici.
Falliranno le società di calcio? Non credo. La politica industriale europea non è irragionevole, non mira ad affossare le imprese, mira a costringere nazioni e imprese a giocare in modo onesto. La politica industriale europea è fatta anche di salvataggi tollerati se non favoriti (France Telecom e Alstom sono solo due esempi recenti). Ma occorre parlare seriamente non più di come nascondere i problemi, ma di come risolverli.
Nessuna facile soluzione
Una ricetta? Credo che solo molta presunzione potrebbe far pensare di averne una pronta in tasca. Ma può essere istruttivo confrontare i bilanci di una grande società straniera, il Manchester United, con quelli della società italiana meglio gestita, finanziariamente, ma non solo: la Juventus. Vediamo qualche numero, riferito ai bilanci fino al 2001-02.
Si dice spesso che il problema delle società italiane è il costo dei calciatori. In parte è vero: nel 2001-02 il costo complessivo per gli stipendi della Juventus era 137 milioni di euro, mentre per il Manchester la cifra era 103 milioni. Ma per il Manchester il costo complessivo del lavoro rappresenta almeno il 54 per cento dei costi, per la Juventus il 50 per cento. Allora, il problema del calcio italiano non è il costo dei calciatori. Altri hanno costi simili, ma fanno profitti.
Ammortamenti: qui stanno i veri dolori, perché per la Juventus abbiamo 68 milioni di euro, per il Manchester solo 26 (il 13 per cento dei costi, contro il 25 per cento della Juventus). Il Manchester ha giocatori scadenti, o qualche squadra, anche se la meglio gestita del paese, ha avuto una politica un po’ allegra?
I ricavi? Quello che si racconta un po’ meno è che i ricavi delle società italiane dipendono in modo straordinario dai diritti Tv, che sono oltre il 50 per cento dei ricavi delle società italiane, il 43 per cento dei ricavi della Juventus, ma solo il 22 per cento di quelli del Manchester.
Ancor meno si racconta che i ricavi dei biglietti, dei pranzi serviti allo stadio ecc. nel 2001-02 hanno fruttano al Manchester 78 milioni di euro, il 36 per cento delle sue entrate annuali. Per la Juventus il fatto che la gente vada o meno allo stadio è quasi secondario (l’8 per cento dei ricavi), tanto che pare che il nuovo stadio avrà una capienza molto minore di quella attuale, ma forse sarà maggiormente capace di dare servizi agli spettatori. E non è un problema di costo dei biglietti: in partite normali quelli del Manchester costano da 23 a 31 sterline, quelli della Juventus da 20 a 55 euro (a parte le poltrone).
Quali allora le radici della disaffezione per lo stadio? Non è facile a dirsi. Forse una parte della crisi è dovuta a chi convince la gente che il calcio è moviola e complotti. Forse un’altra parte sta nei problemi di ordine pubblico.
Non ci sono risposte facili, ma per queste società eludere il problema non è più possibile.
18 Febbraio 2003
Giuseppe Pisauro
L’emendamento a favore delle società di calcio, approvato alla Camera durante l’esame in prima lettura della legge di conversione del decreto fiscale di fine anno, prevede che le società sportive che svalutano i diritti pluriennali delle prestazioni degli sportivi professionisti (in pratica il “prezzo di acquisto” del calciatore) debbano procedere, ai fini civilisti e fiscali, all’ammortamento della svalutazione in dieci rate annuali (art. 3, comma 1-bis del Ddl n. 1996/AS di conversione del Dl 282/2002). Si tratta di un’importante deroga al regime normale della svalutazione dei cespiti, secondo cui la relativa minusvalenza entra tra le componenti negative del conto economico interamente nell’esercizio in cui si manifesta.
Perché questa norma proprio adesso?
Per rispondere, vale la pena ricordare la pratica, ampiamente seguita dalle società negli anni recenti, di mantenere in equilibrio il bilancio realizzando plusvalenze sul patrimonio calciatori. Il meccanismo, sostenibile in un mercato con prezzi crescenti, è semplice e può essere illustrato con un esempio. Una società acquista il calciatore A (diciamo Vieri) a un prezzo di 1000 e gli fa un contratto di cinque anni. Il primo anno tra i costi vi sarà il relativo ammortamento, pari a 200. L’anno successivo, il calciatore viene ceduto a un prezzo di 2000, realizzando così una plusvalenza di 1200, pari alla differenza tra prezzo di vendita (2000) e valore non ammortizzato del calciatore (800), che viene iscritta tra le componenti positive del conto economico. Contemporaneamente viene acquistato il giocatore B di abilità equivalente (diciamo Crespo) a un prezzo di 2000, sempre con un contratto di cinque anni. Per effetto di queste due operazioni, il conto economico del secondo anno presenta un risultato positivo di 800 (1200 la plusvalenza sul calciatore A, 400 l’ammortamento del calciatore B). Se la società è quotata in borsa, può persino distribuire un dividendo agli azionisti.
Il meccanismo è vantaggioso per entrambe le società che partecipano allo scambio e può prestarsi a strumentalizzazioni, come si capisce da un altro esempio. Due società acquistano i calciatori X e Y a un prezzo di 1000 ciascuno (X e Y, per gli esperti di calcio, potrebbero essere Pirlo e Guglielminpietro), decidono poi di scambiarli, attribuendo a ciascuno un prezzo di 2000. Dopo di che si potrebbe procedere anche a uno scambio di prestiti (X e Y diventano allora Helveg e Domoraud) per lasciare le cose (calcistiche, ma non contabili) esattamente come prima.
Naturalmente, se si inverte la tendenza dei prezzi a crescere, il meccanismo si interrompe e resta la scomoda eredità di un pesante onere per ammortamenti (620 milioni di euro per le società di serie A nel 2002, con una crescita del 26% rispetto all’anno precedente, secondo il Sole-24 Ore). A quel punto diventa desiderabile svalutare il patrimonio calciatori, per riportarlo in linea con i valori di mercato e abbattere così gli ammortamenti. Per continuare con il primo esempio, se nel terzo anno i prezzi scendono del 50 per cento, il vero valore di mercato (non ammortizzato) del calciatore B sarà di 800 (contro il valore di 1600 iscritto nello stato patrimoniale). Per riportare l’ammortamento a 200, si può procedere a una svalutazione che dà luogo a una minusvalenza da iscrivere nel conto economico, così da compensare esattamente la plusvalenza dell’anno prima. La società, però, va in perdita. A garanzia dei terzi, il codice civile fissa un limite alle perdite (il capitale sociale non può scendere sotto un minimo) e prescrive che quando la perdita di esercizio è superiore a un terzo del patrimonio netto la società, calcistica o meno, deve ricapitalizzare o fallire. La possibilità di spalmare la minusvalenza su dieci anni serve appunto a evitare queste spiacevoli conseguenze.
La norma con ogni probabilità è priva di costi per il bilancio dello Stato. Nel nostro esempio, se la società con un patrimonio calciatori di 1600 procede alla svalutazione del 50 per cento, abbatte l’ammortamento a 200 e iscrive tra i costi un decimo della minusvalenza (vale a dire 80): in tutto 280, una cifra inferiore ai 400 di ammortamenti della situazione attuale. L’operazione si traduce, quindi, in un miglioramento del conto economico, mentre le imposte da pagare non diminuiscono. Per questo motivo, la Commissione Bilancio della Camera ha rivisto il suo parere inizialmente negativo sull’emendamento poi approvato in assemblea.
Ma se non vi sono costi per l’erario, ce ne sono per il sistema economico. Vi è un chiaro effetto distorsivo della concorrenza nei confronti di società che operano in altri settori e delle società calcistiche di altri paesi UE. Per questo il provvedimento ha già attirato l’attenzione delle autorità europee. Ma naturalmente la distorsione maggiore è nei confronti delle società calcistiche italiane (è il caso del Bologna e del Lecce) che hanno già provveduto a svalutare il patrimonio calciatori e a ricapitalizzare. Per non parlare del rafforzarsi della sensazione, già avvalorata da precedenti provvedimenti, che le regole contabili siano manipolabili a piacere. In questo caso, una regola l’iscrizione nel conto economico dell’intero ammontare di eventuali plusvalenze e minusvalenze è stata usata in modo strumentale nel passato e prontamente modificata quando la sua applicazione è diventata svantaggiosa. Il beneficio (immediato) per le società di calcio è evidente, i costi (futuri) per tutto il sistema economico lo sono meno, ma il risultato non è un pareggio.
27 Febbraio 2003
Giuseppe Pisauro
Alcuni lettori ci hanno chiesto chiarimenti sugli effetti fiscali del provvedimento salva-calcio. La questione è molto importante, in quanto la presenza di un vantaggio fiscale è elemento cruciale per qualificare un intervento come “aiuto di Stato”. L’articolo 87 del Trattato europeo stabilisce che “sono incompatibili con il mercato comune ( ) gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. L’articolo precedente si è concentrato sugli aspetti negativi più gravi della norma salva-calcio: la distorsione della concorrenza e la manomissione delle regole contabili. Vediamo ora le implicazioni fiscali.
Pur sembrando improbabile, non si può escludere che il provvedimento salva-calcio determini uno sgravio fiscale futuro.
Per comprendere questo punto, partiamo dall’attuale normativa tributaria. Una spa paga l’Irpeg in percentuale dell’utile, naturalmente se quest’ultimo è positivo. Se, invece, è in perdita, la spa non paga imposte né riceve un sussidio dal fisco, ma può usare la perdita come una sorta di “buono-sconto” sulle imposte degli anni successivi. Nel linguaggio tributario, la società può “riportare in avanti” la perdita, vale a dire sottrarla dall’utile degli anni successivi prima del calcolo dell’imposta. La validità del “buono-sconto” ha, tuttavia, una data di scadenza: deve essere speso interamente entro cinque anni.
Le società di calcio attualmente sono in perdita, quindi non pagano imposte. L’emergere della minusvalenza, derivante dalla svalutazione del patrimonio calciatori, si aggiungerebbe alla perdita e darebbe luogo a un ulteriore buono-sconto sulle imposte future, da spendere sempre entro cinque anni. Immaginando, come è plausibile, che le società di calcio nei prossimi anni saranno ancora in perdita, il nuovo buono-sconto (la minusvalenza) non avrebbe per loro alcun valore, dato che non riusciranno a spenderlo.
Il decreto salva-calcio consente di spalmare la minusvalenza su dieci anni, in altre parole fraziona il buono-sconto e ne allunga la validità. L’ultima tranche del buono-sconto sarà originata tra dieci anni e avrà validità per altri cinque anni. Se cosa su cui si può essere scettici, ma che è comunque possibile nell’arco dei prossimi quindici anni le società calcistiche riusciranno a portare in utile i propri bilanci, potranno allora spendere la parte residua del buono sconto e godere di uno sgravio fiscale.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Lascia un commento