Lavoce.info

Tariffe poco pubbliche

Molti i peccati originali della vicenda di privatizzazione di Autostrade spa. A partire da una struttura di regolazione inadeguata e dall’impostazione orientata a “far cassa”. Con il risultato di aver creato molti benefici per il regolato e altrettanti danni per gli utenti. I pedaggi autostradali sono oggi definiti in funzione dell’equilibrio finanziario dei concessionari, senza rispondere a più generali criteri di interesse pubblico.

Sorpresa: con il nuovo anno aumentano i pedaggi autostradali. In realtà non si tratta di una sorpresa, ma dell’epilogo (per ora) di una vicenda intricata. Cerchiamo di ricostruirla.

Una vicenda intricata

Alla vicenda delle concessioni autostradali è stata data un’impostazione contraddittoria fin dall’origine. La privatizzazione di Autostrade spa, avvenuta sotto il Governo di centro-sinistra, ha scontato da subito una struttura regolatoria inadeguata (una autorità con poteri sanzionatori era prevista, ma non è mai stata costituita), e un’impostazione orientata a “fare cassa”. Trattandosi di un monopolio, questo confligge frontalmente con la difesa degli utenti.

Sono seguite specifiche azioni che hanno ulteriormente peggiorato la situazione. Nonostante pareri contrari espressi sulla stampa (per esempio, mio e di Andrea Boitani), la società Autostrade, che rappresenta più del 50 per cento della rete e più del 60 per cento del fatturato del settore, è stata ceduta a privati come entità unica, senza alcuna verifica sull’esistenza di economie di scala, e senza tener conto dei rapporti di forza che si sarebbero creati tra un regolatore debole e un regolato che fatturava tre miliardi di euro all’anno.

Si è creata un’impresa dominante non giustificata dall’interesse degli utenti, contravvenendo al principio di minimizzare i rischi di “cattura”, cioè che gli interessi del monopolista prevalgano su quelli degli utenti. Ed è solo un dettaglio, ma non trascurabile, che il soggetto industriale che si è aggiudicato la concessione fosse considerato “vicino” al Governo in carica.
In questo modo si rendeva difficilissimo il dispiegarsi della competizione per l’intero comparto. Tale linea d’azione si è poi tradotta in una convenzione che specificava le “regole” dei rapporti tra Stato e privati subentranti, ma che non è stata oggetto di dibattito, neppure nella sede istituzionale naturale, il Cipe. (1)

L’ambigua convenzione

Questa convenzione ha contenuti ambigui e contraddittori.

Ad esempio, viene ribadito che il principio regolatorio è basato sul metodo del “price cap”, e contemporaneamente si garantisce la redditività del concessionario. Ma quel metodo nasce proprio per simulare il mercato, che certo non garantisce la redditività a soggetti inefficienti. Inoltre, la convenzione prevede una serie di investimenti da remunerare con specifici incrementi tariffari.
Le “perle” non sono finite.
Il “rischio traffico” (ricavi basati su stime erronee della domanda) è lasciato al concessionario, mentre è evidente che il traffico autostradale dipende soprattutto da variabili economiche aggregate. La teoria prescrive che al soggetto regolato vadano lasciati rischi che possa controllare. Perché il regolato ha accettato di buon grado di assumersi tale rischio “improprio”? Guarda caso, le previsioni del traffico definite da Anas (il soggetto concedente) sono risultate così prudenti da generare rilevantissimi extraprofitti al concessionario negli anni seguenti.

Infine, nella formula del “price cap” entra un dispositivo di incentivazione per la qualità del servizio, che, a stesso giudizio di Anas, appare indifendibile, e che in realtà genera solamente ulteriori profitti per il regolato.
La concessione ha generato rilevanti ricavi per l’erario, circa sette miliardi di euro, a fronte di immobilizzi “a libro” dell’ordine di due miliardi. Ma quale è il significato economico di quest’ultimo valore? Rappresenta il capitale che il venditore ha giudicato “necessario” per la gestione dell’impresa, e quindi è un fattore produttivo da remunerare.

Leggi anche:  Ponte sullo Stretto: una cattedrale nel deserto demografico

Tuttavia, la privatizzazione “italiana” si è limitata alla gestione dell’asset, che rimane pubblico (al contrario del modello inglese). Quindi, in un’ottica di efficientizzazione complessiva e coerente, occorrerebbe fare una attenta analisi per valutare se veramente serva tutto quel capitale.
Ma poiché l’obiettivo era “fare cassa”, la minimizzazione di questo fattore non è avvenuta, e si è così creato un beneficio al regolato e un danno degli utenti. .

Aggiustamenti tariffari

Anas, il soggetto concedente delle autostrade, alla fine del 2002, al termine del primo quinquennio regolatorio per Autostrade spa, propone un meccanismo di aggiustamento tariffario che parte dai ricavi del regolato (che generano extraprofitti rilevantissimi), invece che dai costi.
Non applica così alcun “claw back”, contraddicendo il principio fondamentale che il regolato può fare extraprofitti nel quinquennio regolatorio (anzi, è incentivato a farli dal dispositivo), ma non a renderli poi perpetui. Esattamente come, nel mercato, un’impresa che innova è protetta da un brevetto, ma solo per un periodo limitato di tempo.

La segreteria del Nars (organismo tecnico del Cipe) ovviamente obbietta all’assenza di “claw back”, e propone un dispositivo che, almeno parzialmente, smussa nel tempo gli extraprofitti, lasciando comunque al regolato profitti rilevanti. (2)
La situazione al momento attuale sembra di totale stallo, e il Cipe non decide in merito alla revisione del dispositivo, richiesta dal Cipe stesso alla fine del 2002. Intanto Anas, in qualità di concedente, ha consentito alcuni aumenti senza “claw back”.
Secondo indiscrezioni non verificate, ma verosimili, un possibile sbocco potrebbe essere l’impegno del concessionario a realizzare ulteriori investimenti, oltre quelli già concordati con Anas, in cambio di tariffe più elevate.

Si tratta di una soluzione auspicabile solo in teoria, poiché il meccanismo reale di decisione sulla priorità, l’utilità e i costi degli investimenti è fortemente condizionato dalla “dominanza” dell’impresa regolata, e non è sottoposta a verifiche “terze” (per esempio, con gare pubbliche per le valutazioni, come richiesto dalla Banca Mondiale).
L’intero quadro degli investimenti è in realtà sottratto a un vero meccanismo regolatorio, (cioè di tutela degli utenti), e i rischi di “cattura” del regolatore appaiono particolarmente rilevanti.

È evidente che gli investimenti già concordati non sono per nulla “minacciati” dalla proposta Nars, in quanto vengono comunque riconosciuti in tariffa. Il concessionario sembra invece avanzare proprio questo argomento per evitare che gli vengano ridotti nel tempo i profitti.
Un altro argomento conclamato “ad nauseam” dal concessionario è il confronto con le tariffe europee, che sono più elevate di quelle italiane. Tale confronto ignora il fatto che la rete italiana è molto vecchia, e quindi in grandissima misura già ammortizzata (cioè già pagata dagli utenti), mentre non è così in altri paesi.

Leggi anche:  Zone 30, un dibattito senza dati

Danni interni ed esterni

Cosa concludere? Innanzitutto, che la difesa dei “campioni nazionali” (o regionali, o comunali) sembra fare comunque aggio sulla tutela dei consumatori.
Ciò riflette rapporti impropri tra sfera economica e sfera politica, i cui “malefici” sono da contrapporre ai benefici di una supposta maggior competitività internazionale, proclamata dai monopolisti, ma mai verificata. La debolezza strutturale del regolatore (nonostante l’indubbio valore dei singoli tecnici), può creare un quadro di regole incerte e arbitrarie, che alla fine danneggiano anche le imprese regolate e in generale la liberalizzazione.
In secondo luogo, il danno maggiore di tariffe che sostanzialmente ignorassero il principio fondativo della regolazione mediante “price cap”, cioè l’erosione periodica di eventuali extraprofitti (cosa molto diversa dal loro recupero retroattivo, si badi, che nessuno richiede), ricadrebbe anche al di fuori del sistema autostradale. Tutti i concessionari potrebbero premere per regole più favorevoli delle attuali, o peggio ancora, negoziate caso per caso con la controparte politico-amministrativa, senza fastidiose interferenze di organi tecnici posti a tutela degli utenti.
Inoltre, non sembra lungimirante attirare capitali privati con condizioni di eccezionale favore in settori protetti dalla competizione internazionale, distogliendoli così da impieghi a maggior contenuto di innovazione: la tendenza è già ampiamente in atto, e andrebbe moderata, non incoraggiata.
Infine, si ricorda che le tariffe autostradali sono oggi definite unicamente in funzione dell’equilibrio finanziario dei concessionari (comunque interpretato), mentre in realtà dovrebbero rispondere a criteri di interesse pubblico molto più vasti, attinenti all’allocazione ottimale dei flussi di traffico, alle esternalità ambientali, eccetera.
Questa è la linea dominante della politica europea dei trasporti, condivisa anche dalla Banca Mondiale. Altrove (per esempio, in Germania e Austria) è oggetto di sperimentazioni e di dibattito e in Italia è stata raccomandata esplicitamente dall’ultimo Piano generale dei trasporti e della logistica.
In questa ottica, l’ambito e i contenuti stessi delle concessioni dovrebbero essere radicalmente rivisitati, incrementando il ruolo dell’iniziativa privata nel settore molto al di là degli stretti confini attuali, con meccanismi che consentano il pieno dispiegarsi della concorrenza.
Ma di ciò, a una prossima riflessione.

 

(1) Né, ovviamente all’interno del valoroso ma istituzionalmente debole organo tecnico consultivo del Cipe preposto ai temi regolatori, cioè nel Nars, organismo di cui lo scrivente ha fatto parte.

(2) Si noti, tra l’altro, che l’applicazione del “claw back” giocherebbe a favore del regolato nel caso questi per qualsiasi motivo incorresse in perdite (cioè in costi superiori ai ricavi), proprio in quanto alla fine del periodo in cui ciò fosse successo, le tariffe partirebbero dai costi, e non dai ricavi: il “claw back” tutela anche il regolato da rischi di possibili errori del regolatore.

 

 

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Zone 30, un dibattito senza dati

Precedente

Sommario 15 gennaio

Successivo

L’unica ricetta è crescere

  1. Angelo

    Se aumenta il traffico autostradale, ed è sicuramente aumentato più di quanto previsto quando le autostrade sono state costruite e/o date in concessione, aumentano gli incassi dei concessionari: quindi dovrebbe diminuire il periodo di ammortamento … a meno che la maggior usura non incrementi i costi di gestione!
    Angelo

    • La redazione

      Vi è certo un aumento dei costi di manutenzione, ma lontanissimo dall’aumento dei ricavi tariffari, in quanto le tariffe sono dimensionate sui costi di ammortamento ecc. E’ uno degli “oggetti” di cui deve occuparsi il regolatore per tutelare l’utenza da rendite di monopolio, ma le “technicalities” sono assai complesse, poichè coinvolgono anche la ripartizione dei rischi d’impresa ecc.. Cordialmente Marco Ponti

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén