Breve excursus fra testi che possono aiutarci a capire come e perché accadono gli scandali finanziari. Allorigine di tutto, vi è una disparità di informazioni tra la società che emette un titolo e linvestitore che lo acquista. Insieme al conflitto di interesse che ne segue e che fa sì che una persona possa utilizzare a proprio vantaggio il potere conferitogli da terzi per la cura dei loro interessi, è una questione che si ripete nella storia economica. E che, a volte, si rivela funzionale allo sviluppo capitalistico.
Supponiamo che sul mercato si offrano due soli tipi di azioni o obbligazioni, quelle “buone” e quelle “cattive” (che chiameremo “bidoni”). Il mercato dei bidoni C’è dunque un’asimmetria nell’informazione disponibile. La società venditrice conosce meglio del risparmiatore acquirente le qualità del titolo oggetto di compravendita. Supponiamo allora che il prezzo del titolo venga fissato in misura pari al valore dei titoli “buoni”. Se l’avesse scritta oggi, George Akerlof, premio Nobel per l’economia nel 2001, avrebbe forse raccontato così la parabola che lo rese famoso per aver spiegato l’importanza delle asimmetrie informative nella formazione degli equilibri di mercato. Invece era il 1970, dominava ancora il fordismo e la scelta cadde sul mercato delle auto usate. Ma cambiando il soggetto (la merce), il risultato non muta, a conferma che il capitalismo cambia solo per restare se stesso (proprio come Tancredi suggeriva a Don Fabrizio). L’allocazione via mercato non consegue l’ottimo collettivo, che si tratti di materialissime automobili fordiste o di immateriali derivati azionari o obbligazionari postfordisti, e anzi c’è il rischio che la diffusione della sfiducia possa pregiudicare il processo di scambio e, con esso, l’esistenza di quanti e quante ne dipendono. Un conflitto di interessi d’antan Messa la cosa in questi termini, risulta più facile capire cosa sia quel “conflitto d’interessi” che domina le cronache di queste settimane segnate dalle vicenda Parmalat. E più ancora si apprezza il giudizio di “pervasività” che Guido Rossi, tra i massimi esperti al mondo di diritto societario, ne ha dato in un prezioso libretto pubblicato l’estate scorsa, quando le cronache erano ancora dominate dagli scandali d’oltralpe e d’oltroceano (Enron, WorldCom, Abb, Vivendi, Ahold) e da noi ci si trastullava nella credenza di esserne immuni: si tratta del conflitto che si materializza in capo a una persona che, a causa di un’asimmetria informativa che gioca a suo favore, usa a proprio vantaggio il potere conferitole da terzi per la cura dei loro interessi. Come le asimmetrie informative, i conflitti d’interessi sono peraltro vecchi almeno quanto il capitalismo. Rossi ricorda che analoghi problemi emersero in occasione del crollo di Wall Street del 1929, ma si potrebbe spingere lo sguardo anche più indietro e risalire perfino alla crisi dei tulipani che imperversò in Olanda sul finire degli anni Trenta del XVII secolo, brillantemente rievocata da Fabrizio Galimberti. Anche lì, scava scava, si trova che il meccanismo generatore era un combinato disposto di asimmetrie informative e conflitti d’interessi, enfatizzato dal particolare impasto psicologico di cupidigia, contagio, fuga e panico entro cui si compie qualsiasi investimento finanziario. Dall’altro lato, l’accresciuta influenza dei mercati finanziari nelle economie occidentali ha snaturato istituti di garanzia pensati per incentivare l’esercizio collettivo dell’attività imprenditoriale. La poco efficace concorrenza perfetta La questione è dunque spinosa e al relativo ottimismo di Rossi che possano essere di “una qualche utilità” un’autorità antitrust per i mercati e una stringente regolamentazione contro l’insider trading per i mercati finanziari, si potrebbe ancora contrapporre il meditato scetticismo del vecchio Joseph Schumpeter nei confronti di regolamentazioni pubbliche che ostacolino il formarsi di pratiche del genere. Le sue considerazioni sono ancora di grande attualità. Affinché il “processo di distruzione creatrice” del capitalismo possa concretamente dispiegarsi, è necessario che l’imprenditore possa prima di tutto difendersi dalla concorrenza, giacché “investire a lungo termine in condizioni cangianti o, più ancora, che mutano (o possono mutare) da un momento all’altro sotto la spinta di nuove merci e nuove tecniche, è come sparare a un bersaglio non solo distinto, ma mobile e che si muove a sbalzi”. Per questo, spiega Schumpeter, sorgono “pratiche monopolistiche” come “i brevetti, o il temporaneo segreto di lavorazione”, che per quanto non specificamente riprovati dagli economisti costituiscono, a suo avviso, “soltanto casi speciali di una classe più vasta, in cui rientrano molti altri casi che la maggioranza degli economisti condannano, sebbene non differiscano sostanzialmente da quelli riconosciuti validi”. Perché, da un lato, “in molti casi piani del massimo respiro non si concreterebbero ove non si sapesse in anticipo che la necessità di forti capitali o la mancanza di esperienza pratica scoraggeranno la concorrenza, o che sono disponibili mezzi sufficienti a paralizzarla in modo da guadagnare tempo e spazio per ulteriori sviluppi”. Dall’altro lato, “nella maggioranza dei casi l’iniziativa sarebbe impossibile se non si scontasse a priori il determinarsi di situazioni eccezionalmente favorevoli, tali se sfruttate manipolando prezzi, qualità e quantità da generare profitti sufficienti per resistere, grazie ad analoghe manovre, a situazioni eccezionalmente sfavorevoli”. Se a ciò si aggiunge che, proprio in apertura del suo articolo sul mercato dei bidoni, Akerlof chiarisce che l’incentivo a rifilare bidoni deriva dal fatto che, in un contesto di concorrenza perfetta, “i rendimenti derivanti da una buona qualità vanno principalmente all’intero gruppo ( ) piuttosto che ai singoli venditori”, ci vorrà poco a concludere (come già Mandeville tre secoli fa) che asimmetrie informative e conflitti d’interessi sono “vizi privati” che però consentono la “pubblica virtù” dello sviluppo capitalistico. Il quale sviluppo si compie non “grazie” alla concorrenza ma tenendola a freno quel poco o tanto che basta all’innovazione per affermarsi e pararsi col segreto (e non di rado la frode) dai processi d’imitazione che inevitabilmente seguiranno. Quando si studia il processo della “distruzione creatrice”, insomma, non si dovrebbe mai dimenticare l’importanza che le ondate speculative del 1633-37, 1718-20 e giù giù fino a quelle del roaring Twenties e della new economy hanno avuto nel determinare l’ascesa di nuove classi sociali alla ribalta della finanza e, in ultima analisi, del benessere.Forse è proprio per questo che il buon vecchio Schumpeter riteneva erronea l’idea di “basare la teoria della regolamentazione statale dell’industria sul principio che si debba far funzionare il big business come la rispettiva industria funzionerebbe in regime di concorrenza perfetta” e diffidava i “socialisti” (cioè i riformisti d’allora) dal criticare il capitalismo trustificato facendo leva sulle presunte virtù del modello concorrenziale. Se fosse ancora in vita, gli scapperebbe da ridere. Per saperne di più George Akerlof, Il mercato dei “bidoni”. L’incertezza della qualità e il meccanismo di mercato, in Id., Racconti di un Nobel dell’economia, Università Bocconi Editore, Milano 2003. Guido Rossi, Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano 2003. Nicola Borzi, La parabola Enron e la crisi di fiducia del mercato mondiale, Feltrinelli, Milano 2003. Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia [1942], Etas, Milano 2001. |
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