Le forme in cui la Banca d’Italia rende conto del proprio operato sono fondamentalmente basate su esposizioni unilaterali. Norme e tradizioni seguite finora hanno una giustificazione storica, ma non sembrano più adeguate alla attuale realtà economica e politica. E’ ora di adottare assetti istituzionali più vicini a quelli degli altri paesi per l’accountability, ma anche per i meccanismi di nomina e funzionamento della Banca. L’occasione per farlo è il disegno di legge sulla tutela del risparmio.

“La Banca motiva, da sempre, le sue decisioni. Sistematicamente, con la diffusione di relazioni e studi nelle sedi istituzionali, rende conto delle proprie analisi e del proprio operato”. Con queste parole il governatore ha risposto, con encomiabile orgoglio istituzionale, a quanti giudicano inadeguata l’accountability della nostra banca centrale.
La risposta però coglie solo parzialmente il punto: è vero che la Banca d’Italia segue scrupolosamente norme e tradizioni attuali (e ci mancherebbe, si potrebbe aggiungere), ma occorre chiedersi se queste siano adeguate alla odierna realtà economica e politica in cui operano le banche centrali.

Il significato di una parola

In un saggio, breve ma molto efficace, un autentico “decalogo” delle banche centrali (1), Tommaso Padoa Schioppa ricorda che essere accountable significa “non solo essere ritenuto responsabile delle proprie azioni, ma anche essere tenuto a giustificare e spiegare azioni e decisioni. L’accountability è un elemento essenziale e costituente di un ordine politico democratico.
In tale ordine, le istituzioni che hanno il potere di influire sulla vita e il benessere della comunità devono essere soggette allo scrutinio dei cittadini e dei loro rappresentanti eletti”.
Se si condivide questa impostazione, le conclusioni da trarre sono almeno due:

a) le attuali forme in cui la Banca d’Italia rende conto del proprio operato sono fondamentalmente basate su esposizioni unilaterali, quasi “ex cathedra”, come la cerimonia del 31 maggio;
b) l’accountability coinvolge il concetto di responsabilità, dunque rinvia anche ai meccanismi di nomina e di funzionamento dei vertici di un’istituzione.

La cerimonia del 31 maggio

Lasciando da parte il secondo problema, vale la pena di interrogarsi sulle modalità con cui oggi la Banca d’Italia espone pubblicamente le ragioni del proprio operato, a cominciare proprio dalla lettura delle Considerazioni finali.
La cerimonia del 31 maggio ha assunto un ruolo fondamentale nella tradizione della Banca d’Italia, soprattutto dai tempi di Guido Carli e si è caratterizzata per due elementi fondamentali: lo spessore analitico delle diagnosi, cui contribuiva un servizio studi che aveva pochi eguali nel panorama delle autorità monetarie dei principali paesi e l’indipendenza del giudizio rispetto alle pressioni di un potere politico sempre più ansioso di dare l’assalto alla diligenza della spesa pubblica. Qualcuno sostiene che la difesa nei fatti fu meno strenua di quella verbale, ma questo nulla toglie al salto di qualità che Guido Carli diede alle Considerazioni finali, trasformando una relazione di bilancio in uno dei documenti più importanti e attesi della vita economica nazionale.

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L’infame attacco alla Banca d’Italia del 1979 diede l’occasione a Paolo Baffi di aggiungere all’analisi economica una delle pagine più alte di rigore morale e di impegno civile, ma ebbe anche l’effetto di rendere tabù per oltre venti anni qualsiasi ipotesi di modificazione anche formale dei poteri della Banca d’Italia, del suo assetto istituzionale, persino delle sue manifestazioni di accountability.
Le Considerazioni finali hanno così continuato a svolgersi secondo la tradizione antica: sul piano dell’analisi economica sono stati gli anni del rientro dall’inflazione, del risanamento del deficit e dell’ingresso in Europa. Tre obiettivi centrati, che non erano affatto scontati nel momento in cui Carlo Azeglio Ciampi prese il timone della Banca d’Italia e su cui egli ha fondato con lucida coerenza le Considerazioni finali di quegli anni.
Allora, la loro solennità trovava quindi due forti giustificazioni: l’orgogliosa difesa delle tradizioni della Banca; il rilievo dei moniti per la classe politica responsabile dei rischi di dissesto finanziario che il Paese stava correndo in quegli anni. Il fatto poi che quei moniti siano serviti perché gli obiettivi sono stati raggiunti (a differenza di quanto era successo negli anni Sessanta) dimostra che quel rito non era affatto né vuoto né inutile. E, si ripete, se a esso non sono state aggiunte forme di accountability diverse, la colpa va ricercata nell’oscuro disegno che colpì i vertici della Banca negli anni bui della Repubblica.

L’esempio di altre banche centrali

Va naturalmente ricordato che il governatore e altri membri del Direttorio hanno spesso occasione di presentare al Parlamento, regolarmente o su invito, la posizione della Banca su temi generali (la Legge finanziaria in primo luogo) o specifici, come è accaduto in occasione dell’indagine conoscitiva sulla tutela del risparmio. Ma nessuna di queste forme assume la veste per così dire istituzionale di confronto dialettico sull’operato della Banca. Non accade così in altri paesi.

La Banca centrale europea è soggetta a forme di scrutinio molto più penetranti e aperte. Il suo rapporto annuale è infatti rivolto non ai partecipanti al capitale, come da noi, ma al Parlamento, al Consiglio e alla Commissione europea. Il Parlamento può richiedere un dibattito generale sul rapporto annuale.
Non solo: come si legge sul Bollettino della Bce (2), l’Eurosistema ha deciso di andare al di là di questi impegni, prevedendo regolari conferenze stampa al termine di ogni riunione mensile del consiglio direttivo.
Non meno stringenti sono le forme di accountability della Fed (la banca centrale americana) fissate da una legge il cui titolo è tutto un programma “Government in the Sunshine Act” (che giunge a prevedere la pubblicità di alcune sessione del Board) e dal Federal Riserve Act, che impone una serie di appuntamenti del presidente del Board con varie commissioni parlamentari e un dibattito semestrale sull’azione della Fed.
Di tutto questo, si ripete, nella legislazione italiana non c’è traccia e non si vede quale vulnus alla tradizione della Banca d’Italia si avrebbe se l’atto più importante della sua accountability non fosse affidata solo a un monologo nelle dorate sale di palazzo Koch, seguito da altre considerazioni che, per quanto importanti come quelle di quest’anno, sono pur sempre quelle di un soggetto vigilato (nonché azionista).

Insomma: le prassi delle banche centrali sono ben diverse da quelle invalse in Italia. Se la fase storica che ha trascinato i suoi effetti velenosi almeno fino alla seconda metà degli anni Novanta, e che aveva fatto accantonare ogni riforma, è definitivamente superata, è ora di adottare assetti istituzionali (in termini di accountability, ma giova ripetere anche in termini di meccanismi di nomina e funzionamento) più vicini a quelli degli altri paesi.

Un buon motivo per inserire tutto questo nell’attuale disegno di legge sulla tutela del risparmio è dato da un indimenticabile libro di Primo Levi: “Se non ora, quando?”.

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(1) Tommaso Padoa-Schioppa, An institutional glossary of the Eurosystem, intervento alla conferenza “The Constitution of the Eurosystem: the Views of the EP and the ECB”, 8 March 2000. Disponibile sul sito www.ecb.int.

(2) Bollettino Bce, luglio 1999.

 

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