In Italia la difesa della concorrenza non è un principio sancito dalla Costituzione, come è invece il caso nell’Unione europea. Il principio è garantito dall’indipendenza attribuita all’Autorità di vigilanza con legge ordinaria. Ma perché questa indipendenza venga tutelata, il valore della concorrenza dovrebbe essere assunto come principio condiviso dalla politica. Questo non accade nel nostro paese e si spiegano così molte delle difficoltà attuali dell’economia. Non esistono soluzioni tecniche. Piuttosto, si deve ricorrere all’arte della persuasione.

La concorrenza è ormai universalmente invocata come principio generale di organizzazione della divisione sociale del lavoro, nei singoli paesi come nell’intero sistema internazionale degli scambi. In entrambi gli ambiti, la sua affermazione concreta necessita di un quadro organico nel quale si compongano scelte politiche, disegno delle istituzioni preposte alla sua tutela, amministrazione di un “diritto della concorrenza” atto a identificare i comportamenti ammissibili degli operatori economici nel mercato.

La vicenda italiana

Non esula, ovviamente, da questo schema la vicenda italiana, nella quale tuttavia alcune peculiarità meritano di essere messe in risalto. Il disegno istituzionale di tutela della concorrenza si regge, nella legge 287 del 1990, su due elementi. Il pieno recepimento del diritto europeo della concorrenza e l’attribuzione della sua amministrazione a un’Autorità, cui viene garantita una vasta indipendenza dal potere esecutivo. L’indipendenza, nei termini in cui essa è specificamente definita e tutelata, rappresenta, in ampia misura, una peculiarità italiana. Sulla portata del requisito di indipendenza Fabio Merusi ha scritto pagine penetranti. (1) Preso sul serio, esso presuppone una implicita “costituzionalizzazione” del principio stesso di concorrenza, sopperendo all’assenza di una sua “costituzionalizzazione” esplicita. Il punto è però che, se è principio di rango “costituzionale”, la concorrenza deve appartenere all’insieme dei principi condivisi dalla comunità politica. Solo a tali condizioni essa può influenzare e limitare anche la sfera delle scelte politiche, legislative e di governo, giacché lo fa entro confini che la comunità politica non mette in discussione. Il requisito di indipendenza ha pertanto bisogno di “nutrirsi” di una siffatta condivisione; e non di innestarsi su un sostanziale “contrasto”, se non nei termini di una contraddizione fisiologica in un sistema di “checks and balances”. Nell’Unione europea, la Commissione, che amministra il diritto europeo della concorrenza, non è indipendente dal potere politico. Essa è uno dei soggetti politici dell’Unione. L’indipendenza non è necessaria nel diritto europeo perché lì il principio di concorrenza è esplicitamente di rango costituzionale e trova una dettagliata enunciazione nel Trattato. Dal Trattato, il potere delle istituzioni di governo dell’Unione trova così una propria delimitazione anche nella coerenza con il principio di concorrenza.

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La concorrenza e la politica economica

Chi osservi con disincanto la storia politica italiana degli ultimi quindici anni troverà difficile riscontrarvi un siffatto “quadro organico” tra scelte politiche, assetti istituzionali, principi di diritto. Mentre gli altri elementi, tutto sommato, sono stati presenti, le scelte politiche hanno fatto ripetutamente difetto. La comunità politica ha spesso vissuto l’amministrazione del diritto della concorrenza come attività a sé estranea, talvolta conflittuale. E l’Autorità preposta alla tutela della concorrenza ha spesso visto nella vasta indipendenza, assicuratale dalla legge, una garanzia nei confronti di un potere politico, altrimenti noncurante del valore della concorrenza. È, in particolare, decisamente bizzarro che secondo la vulgata (ma non le norme) all’Autorità competa la “promozione” della concorrenza. Alla fine degli anni Ottanta, l’approvazione della legge 287 era stata una scelta politica significativa, nella quale si erano manifestati tutti gli elementi di un sentire comune. Nell’esperienza successiva, la concorrenza è apparsa alla classe politica, e con sempre maggior frequenza, tema politicamente “non pagante”. Se questo non meraviglia in una prospettiva di breve periodo (quando costringe a porre a confronto privilegi attuali particolari con benefici prospettici diffusi), è grave il difetto di condivisione che ha impedito di valorizzarne la portata, in chiave esplicitamente politica, in una prospettiva di lungo periodo. La carenza di questa prospettiva è alla radice di molte delle attuali difficoltà dell’economia italiana. L’approfondimento e l’allargamento dello spazio europeo e la rivoluzione negli scambi mondiali esigono una ri-allocazione dell’economia italiana nella divisione internazionale del lavoro. Oggi più che mai questo processo può soltanto essere affidato alla libertà del mercato e al rifiuto di protezione di ogni rendita. La perdita di quote di commercio mondiale – un risultato negativo che l’Italia non condivide neppure con le altre economie mature dell’Unione europea – ne sottolinea l’indilazionabilità. A questa diagnosi, che trova concordi gli economisti, fa riscontro, da un decennio, appena un lip-service da parte dei responsabili della politica economica. L’Autorità della concorrenza ha provato a colmare la distanza, mostrando analiticamente quanto il tradizionale dualismo italiano – tra settori esposti alla concorrenza internazionale e settori protetti, ma con i primi tributari dei secondi dal lato degli input – incida sulla debole performance economica.

Il conflitto di interessi

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La separazione, quando non l’esplicito contrasto, tra scelte politiche e assetti istituzionali di tutela della concorrenza, ha però continuato ad approfondirsi, fino a partorire la sciagurata decisione di gravare l’Autorità della concorrenza di compiti di controllo del conflitto di interessi dei governanti. Compiti non solo estranei, ma anche gravemente corrosivi della sua ragion d’essere. Le recenti nomine sono appena la conseguenza di questa scelta. Come previsto, l’amministrazione della norma sul conflitto di interessi ha semplicemente assunto la priorità dell’agenda politica, con il rischio di depotenziare l’Autorità della concorrenza.

La morale

La morale della storia è semplice, anche se disarmante per chi preferirebbe scioglimenti sofisticati. Nell’assenza di armonia tra scelte politiche, assetti istituzionali e diritto della concorrenza, è inevitabile che, al momento appropriato, a prevalere siano le prime. Per dirla con Mario Monti, è il risultato di una scelta – politica – dovuta all’assenza di una Politica. È dunque difficile che la soluzione possa essere trovata facendone un problema di uomini, meno che mai di aspetti tecnici (come, da più parti proposto, i criteri di nomina: se la diagnosi qui avanzata è corretta, negli esiti osservati si riflette un equilibrio politico che si sarebbe riprodotto con qualsiasi altra formula tecnica che lasci alla politica un doveroso margine di discrezionalità). Neppure è un problema di architettura istituzionale: la forte cura, nell’assetto istituzionale vigente della legge 287/90, per l’indipendenza e la competenza dell’Autorità della concorrenza non l’hanno protetta dalla generosità dei Danai, dalla quale è stata sopraffatta. Suggerirei anzi, a futura garanzia di ogni auspicabile mutamento di contesto, di non perdere mai di vista nella discussione che questo assetto istituzionale è invero particolarmente robusto e attrezzato allo scopo. Resta, alla radice, un problema di scelte politiche. Per chi le ritenga sbagliate e gravi, c’è, in ultima analisi, una sola tecnica da proporre e da affinare: l’arte della persuasione.

(1) Fabio Merusi, Democrazia e autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2000.

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