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Molta retorica per l’anatocismo

L’anatocismo non è da guardare a priori con ostilità. In un conto corrente bancario è indissolubilmente legato alla presenza dell’interesse. E se si regolano le frequenze di capitalizzazione ci si devono attendere nuovi equilibri nei quali i tassi di interesse debitori a capitalizzazione trimestrale vengono soppiantati da equivalenti e più elevati tassi a capitalizzazione annuale. La regolamentazione dell’anatocismo non si giustifica dunque per una questione di prezzo del denaro, bensì per ragioni di trasparenza e di controllo. Costanza Torricelli commenta l’articolo; la controreplica degli autori.

Molta retorica per l’anatocismo

I lettori delle pagine economiche dei quotidiani avranno recentemente familiarizzato con il significato della parola “anatocismo”, termine che proviene in via diretta dal greco, aná “sopra” e tókos “parto, frutto” e quindi “interesse”. L’anatocismo rappresenta dunque la pratica di chiedere interessi non solo su un debito, ma anche sugli interessi maturati su quel debito. Il codice civile italiano, in vigore dal 1942, vieta l’anatocismo quando è pattuito prima ancora del formarsi del debito, salvo che risultino ‘usi contrari’. Anche se le ragioni economiche del divieto non sono del tutto esplicite, poiché l’anatocismo viene da sempre accostato all’usura, esso ha assunto un’immediata accezione negativa di natura ideologica, plausibilmente presente anche nel divieto del nostro codice. (1)


Le regole delle banche


La regola civilistica è stata disapplicata nei contratti bancari che sono stati sistematicamente modellati sulle norme redatte nell’ambito dell’associazione di categoria. Fino alle soglie del Duemila i contratti di conto corrente contemplavano la capitalizzazione degli interessi a favore della banca su base trimestrale e quella a favore del cliente a frequenza annuale.
A più riprese la Corte di cassazione ha dichiarato l’illegittimità della prassi bancaria di capitalizzare a cadenza più ravvicinata gli interessi dovuti dal cliente, mentre la Corte costituzionale ha cassato una sorta di sanatoria delle clausole anatocistiche inserite nei contratti fino al 1999 (in corrispondenza dell’entrata in vigore di una legge che impone l’allineamento della frequenza di pagamento degli interessi attivi e passivi nei rapporti di conto corrente) e ha esposto le banche al rischio di dover restituire le somme ingiustamente percepite nel decennio precedente.
Le stime affermano che l’entità complessiva del contenzioso potrebbe arrivare ad alcune decine di miliardi di euro, anche se l’ammontare complessivo sarà poi determinato dai costi che ogni singolo soggetto dovrà sopportare, rispetto al valore del risarcimento che si attende. Non è, tuttavia, nel merito delle sentenze che si vuole dibattere, né se esse siano la “giusta punizione all’arroganza delle banche”, come enfaticamente dichiarano alcune associazioni dei consumatori. è invece la regolamentazione dell’anatocismo nelle operazioni bancarie l’argomento che merita qualche riflessione di stampo economico.


Tassi di interesse e anatocismo


Innanzitutto, l’anatocismo in un conto corrente bancario (cioè in un contratto di durata indeterminata) è indissolubilmente legato alla presenza dell’interesse, cioè non può esistere tasso di interesse senza anatocismo. Nel momento in cui si liquida un interesse (trimestrale, annuale o decennale che sia), non è più possibile distinguere il capitale dal frutto del capitale. In altri termini, per impedire l’anatocismo sarebbe necessario che non venisse pagato alcun interesse. Quindi, il “divieto dell’anatocismo” va svestito della sua aura romantica e retorica: non sono gli interessi sugli interessi a dover essere vietati, ma al più le frequenze troppo basse di capitalizzazione, oppure l’asimmetria tra la frequenza del pagamento degli interessi dovuti dalla banca e quella degli interessi dovuti dal cliente.


Secondariamente, il “tasso di interesse” di per sé è un’unità di misura del prezzo del denaro ambigua, non completamente definita se non se ne dichiara anche la frequenza di capitalizzazione. Un tasso del 7 per cento non può essere ritenuto migliore di un tasso del 6,95 per cento se non a pari frequenza di capitalizzazione. Ma, tuttavia, è sempre possibile comparare due tassi con regime di capitalizzazione differente, a patto di fare un semplice calcolo di equivalenza. Così, per esempio, un tasso di interesse del 7 per cento capitalizzato annualmente è equivalente a un tasso di interesse del 6,82 per cento circa capitalizzato trimestralmente.


Quindi l’anatocismo non è da guardare a priori con ostilità, e comunque se si regolano le frequenze di capitalizzazione ci si devono attendere nuovi equilibri nei quali i tassi di interesse debitori a capitalizzazione trimestrale vengono soppiantati, ceteris paribus, da equivalenti (ma più elevati) tassi di interesse debitori a capitalizzazione annuale. Sarebbe come se una legge vietasse alle birrerie di vendere la birra a pinte e imponesse la vendita solo a litri: naturalmente i prezzi si adatterebbero automaticamente aumentando il prezzo unitario.


Non è, dunque, una questione di “prezzo” del denaro che può razionalmente giustificare la regolamentazione dell’anatocismo, bensì ragioni di trasparenza e di controllo.
Nel primo caso, poiché la capitalizzazione trimestrale dà origine a tassi dovuti dal cliente che appaiono più bassi di quanto non sarebbero se fossero capitalizzati annualmente, uniformare le frequenze rende immediatamente osservabile la differenza tra tassi debitori e tassi creditori, che altrimenti risulterebbe artificiosamente ridotta. Inoltre, il momento della liquidazione degli interessi dovuti dal cliente (alla chiusura contabile periodica) è quello di controllo tra le parti ed è una verifica che può generare il superamento delle soglie di affidamento. Ridurre la frequenza di controllo del prestatore di capitale può alterare alcuni tratti economici della relazione tra creditore e debitore.
Non è agevole determinare quale sia la frequenza economicamente ottimale, ma una più approfondita riflessione in questa direzione sarebbe senza dubbio opportuna per una definitiva regolamentazione dell’anatocismo che non sia unicamente affidata all’autonomia privata e, solitamente, al potere negoziale della banca.

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(1) Per una rassegna sull’etica dell’interesse e dell’usura si veda Sen, A. K., “Denaro e valore: etica ed economia della finanza”, Lezioni Paolo Baffi di moneta & finanza, Banca d’Italia, 1991.

Il commento, di Costanza Torricelli


Pur condividendo lo spirito dell’articolo, ritengo che alcune affermazioni contenute nel paragrafo “Tassi di interesse ed anatocismo” siano imprecise mentre per altre l’argomentazione risulterebbe più efficace oltre che più comprensibile se la si inquadrasse nella disciplina di riferimento, ovvero la “matematica finanziaria”.



Anticipando in sintesi il mio commento: 1. l’esistenza del tasso di interesse è condizione necessaria ma non sufficiente per l’anatocismo 2. il concetto di tasso di interesse non è una misura ambigua del costo (ovvero della redditività) di una operazione finanziaria qualora se ne specifichi la base temporale di riferimento (es. l’anno) e la natura (nominale o effettivo) 3. la trasparenza richiede più di ogni altra cosa l’obbligo di un riferimento esplicito al tasso annuo effettivo, che è l’unico vero indicatore di costo (ovvero di redditività) comprensibile per il cittadino.



Per chiarire queste affermazioni, è opportuno fare riferimento ad alcuni concetti di base, peraltro molto intuitivi, della matematica finanziaria. Tale disciplina si occupa, fra l’altro, dei calcoli del valore finale, il cd. montante, di un capitale preso a prestito (o viceversa investito) per un certo periodo di tempo ad un certo tasso di interesse, riferito ad una certa base temporale (es. anno, trimestre, etc).


Fra la varie modalità di calcolo del montante quella nota come “capitalizzazione composta” prevede che gli interessi fruttino interessi, ovvero utilizzando le formule di calcolo della capitalizzazione composta si introduce per definizione l’anatocismo. In tal caso si ha la cosiddetta “capitalizzazione degli interessi” che può avvenire su diverse basi temporali (es. trimestre, anno, etc).


Tuttavia, esiste un’altra modalità di calcolo che va sotto il nome di “capitalizzazione semplice”, caratterizzata dal fatto che gli interessi maturano solo sul capitale inizialmente versato (o preso a prestito) e che pertanto non prevede l’anatocismo.


La variabile tasso di interesse può esser definita e calcolata per qualsiasi operazione finanziaria indipendentemente dal fatto che tale operazione sia governata dalle leggi della “capitalizzazione composta” o della “capitalizzazione semplice”.


Pertanto l’affermazione dell’articolo secondo cui “non può esistere tasso di interesse senza anatocismo“, pur se riferita ad un contratto di durata indeterminata, non è corretta. In linea di principio sarebbe infatti possibile prevedere una liquidazione degli interessi al momento della chiusura del contratto con un calcolo effettuato secondo le regole della capitalizzazione semplice.


E’ vero che nella prassi dei conti correnti bancari, anche per motivi economico-contabili, la liquidazione degli interessi viene fatta con frequenza periodale e non a fine rapporto, ma credo che sia opportuno non confondere il dibattito con affermazioni di questo tipo. Basti pensare ad una operazione finanziaria di acquisto (o vendita) di un BOT o un CTZ, per la quale si può calcolare il tasso di interesse, ma non sussiste anatocismo.



In sintesi, l’anatocismo nasce non tanto dalla presenza di un tasso di interesse, ma dal fenomeno di capitalizzazione degli interessi, ovvero, matematicamente, dall’uso delle formule della capitalizzazione composta.



Il concetto di tasso di interesse è una “misura del prezzo del denaro ambigua“, come recita l’articolo, solo se viene riportato in termini ambigui, come del resto viene fatto nella trattazione dell’articolo. Il concetto di tasso di interesse non è più ambiguo qualora se ne specifichi la base temporale di riferimento (spesso annua) e la natura (nominale o effettivo).



Posto che i tassi di riferimento nelle esemplificazioni riportate dall’articolo siano annui, le argomentazioni nel penultimo e terzultimo capoverso si possono rendere molto più chiare e precise facendo riferimento alla distinzione tra tasso annuo nominale e tasso annuo effettivo. La matematica finanziaria dimostra facilmente ciò che l’intuizione altrettanto facilmente accetta, ovvero che quando la capitalizzazione degli interessi avviene più volte in un anno, il tasso annuo nominale non è un indicatore corretto del costo (ovvero rendimento) dell’operazione. Tuttavia, noto un tasso annuo nominale, è possibile calcolare il corrispondente tasso annuo effettivo. Nell’esempio nell’articolo, il tasso di interesse del 6,82% è un tasso annuo nominale convertibile (ovvero con interessi capitalizzati) trimestralmente a cui corrisponde un tasso trimestrale del 1,705% e (tramite un semplice calcolo) un tasso annuo effettivo del 6,99641% (circa 7%).

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Pertanto l’affermazione del penultimo capoverso equivale a dire che a fronte di un divieto di capitalizzazione trimestrale degli interessi al tasso, ad esempio, del 1,705% trimestrale, le banche per ottenere lo stesso risultato applicherebbero un tasso annuo del 6,99641%. In altre parole il tasso annuo del 6,99641% è finanziariamente equivalente (e pertanto indifferente) a un tasso trimestrale del 1,705% se si opera in capitalizzazione trimestrale degli interessi. Il punto, che non mi pare ben illustrato dall’esempio della birra, è che cambiando la frequenza, se valgono le leggi della capitalizzazione composta, il tasso annuo effettivo è più alto di quello che si otterrebbe moltiplicando per quattro quello trimestrale (1,705% *4=6,82% rappresenterebbe infatti il tasso annuo nominale).



Ovvero il concetto espresso nell’articolo che “i tassi di interesse debitori a capitalizzazione trimestrale vengono soppiantati, ceteris paribus, da equivalenti (ma più elevati) tassi di interesse debitori a capitalizzazione annuale” è decisamente fuorviante. Il confronto sul livello (più elevato) è mal posto essendo i due tassi espressi su basi temporali diverse, mentre il fatto che i due tassi siano equivalenti indica che sono finanziariamente indifferenti e questo è ciò che rileva nel confronto.



Sotto il profilo della trasparenza, giustamente invocata dall’articolo, la strada di uniformare le scadenze non è necessariamente l’unica e quella giusta. Piuttosto è importante imporre l’obbligo di informare, relativamente ad ogni contratto, circa il tasso annuo effettivo piuttosto che quello nominale. Peraltro, va ricordato che a tali indicatori i cittadini sono oramai da anni usi anche grazie (questa volta!) ai martellamenti pubblicitari che a fronte del famoso TAN (tasso annuo effettivo) devono dichiarare l’altrettanto famoso e asteriscato TAEG (tasso anno effettivo globale, il globale indica costi accessori). Così come chi vuole accendere un mutuo è diventato familiare all’ISC, indicatore sintetico di costo che altro non è che un tasso annuo effettivo.




(1) I titoli come BOT o CTZ sono titoli a cedola nulla che peraltro si possono interpretare come esempio di capitalizzazione c.d. anticipata degli interessi, che rappresenta la terza modalità di calcolo. Tale modalità viene più spesso illustrata tramite la definizione del cd. tasso di sconto o tasso di interesse anticipato.
(2) Naturalmente tanto più alta è la frequenza di capitalizzazione degli interessi tanto più il tasso annuo effettivo sarà maggiore di quello nominale.

La controreplica degli autori


Il tema della composizione degli interessi, per quanto semplice ed intuitivo per gli studiosi di matematica finanziaria (e non solo di questa disciplina), si mantiene ostico per i non addetti ai lavori. Basta leggere la rassegna stampa, e anche la normativa, in tema di anatocismo. I limiti di spazio e la necessità di mantenere un linguaggio non tecnico hanno imposto comunque nel nostro articolo di fare alcune scelte semplificative, sia concettuali che lessicali. Sono quindi benvenute le puntualizzazioni del commento, se favoriscono la divulgazione di concetti che rimangono in ogni modo elementari.

Nel merito, quindi, solo poche contro-puntualizzazioni:

1. si sostiene che gli interessi sul conto corrente bancario (in quanto contratti a tempo indeterminato) non implichino necessariamente l’anatocismo, perché sarebbe teoricamente possibile capitalizzare semplicemente gli interessi alla chiusura del contratto, quando che essa avvenga. Ciò può essere vero in termini puramente astratti, ma risulta del tutto improponibile in termini economici. Si immagini quanto può essere disponibile una banca a prestare soldi ad un’impresa a fronte di una scadenza di pagamento degli interessi passivi in un futuro indeterminato, a discrezione dell’impresa! E infatti l’esempio concreto proposto nel commento non si riferisce a contratti a tempo indeterminato, ma a BOT e CTZ, contratti con scadenza ben definita. Quindi, ribadiamo, l’esistenza di un tasso di interesse implica necessariamente l’anatocismo;

2. le obiezioni alla nostra affermazione che “il concetto di tasso di interesse è … una misura ambigua … ” coniugate in vario modo nella seconda parte del commento, nascono tutte da un equivoco sul nostro scritto. L’artificio retorico cui siamo ricorsi è stato riferirsi al “tasso di interesse di per sé“, intendendo la nozione di “tasso di interesse senza ulteriore specificazione di base temporale e natura” che è invalsa nell’uso comune. Che questa misura sia ambigua come viene spiegato nel commento ci è ben noto, anzi è proprio la tesi che volevamo sostenere. Se si rilegge la seconda parte del nostro articolo con questa avvertenza, tutte le perplessità sollevate sul nostro scritto si ricompongono. Ci sembrava evidente, ma se non era così è stato utile sottolinearlo.


 


 


 


 


 


 

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  1. Federico Ferro-Luzzi

    A seguito della sentenza da ultimo emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione che dichiara la nullità della pratica a mente della quale le banche capitalizzavano gli interessi dei clienti, le Associazioni dei Consumatori si sono lasciate andare a trionfalistiche dichiarazioni: il motivo, francamente, sfugge.
    La sentenza in commento, infatti, rappresenta una delle più cocenti sconfitte subite dalle Associazioni dei Consumatori. Gli è, infatti, che a prescindere da qualsivoglia considerazione sulla sentenza, certo è che qualora si pervenisse definitivamente alla conclusione che la pratica in commento fosse nulla per contrarietà a norme imperative, la categoria che subirebbe i danni maggiori, subito dopo le banche, sarebbe proprio quella dei consumatori.
    La sentenza a sezioni unite della cassazione, infatti, ha statuito la nullità della clausola, nullità che, allora, colpirebbe tanto l’anatocismo “passivo” quanto quello “attivo”. In altri termini. Le banca usavano (e il termine mi sembra appropriato) capitalizzare gli interessi a debito del cliente ogni tre mesi e quelli a credito ogni anno: dichiarata la nullità del procedimento tale nullità non potrebbe che colpire entrambi gli usi.
    A seguito della declaratoria della nullità, allora, le banche: dovranno restituire quanto percepito a seguito della capitalizzazione degli interessi passivi (a debito del cliente), ma dovranno vedersi restituito quanto illegittimamente percepito dai clienti a seguito della capitalizzazione degli interessi attivi (a credito).
    Se si riflette sulla circostanza che i soggetti che normalmente vanno a debito nei confronti delle banche sono imprenditori, commercianti e piccoli artigiani mentre i soggetti che vantano costantemente un credito nei confronti delle banche sono, appunto, i consumatori (pensionati, casalinghe, impiegati, studenti, etc.)… cosa avranno mai da festeggiare le Associazioni di consumatori francamente non si capisce.
    Quando le banche saranno costrette a restituire quanto ricevuto, appunto, da imprenditori, commercianti e piccoli artigiani, potranno chiedere, e proprio sulla proprio base della tanto pubblicizzata sentenza, a pensionati, casalinghe, impiegati e studenti di restituire quanto illegittimamente percepito.

    • La redazione

      Federico Ferro-Luzzi evoca uno scenario estremo nel quale anni di rapporti tra le banche e i loro clienti sarebbero travolti dalla giurisprudenza della Cassazione e tutti gli interessi attivi e passivi dovrebbero essere restituiti. Forse non si arriverà a tanto, ma anche questa analisi conferma la posizione espressa nell’articolo e cioè che la vicenda in esame è complessa e avrà conseguenze non ovvie.

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