Un nuovo studio porta acqua a favore della separazione tra attività di vigilanza e politica monetaria. La congiunzione di queste due attività nella medesima istituzione, la banca centrale, limita anche la disciplina cui è sottoposta la banca centrale, poiché trasferisce sui contribuenti, in modo assolutamente non trasparente, il costo di eventuali errori che la banca centrale commetta nello svolgere l’attività di vigilanza.

L’opportunità che alle banche centrali siano affidati, oltre al compito di garantire la stabilità dei prezzi, altre responsabilità, in particolare per quanto riguarda la stabilità del sistema finanziario, è da sempre oggetto di analisi teoriche che sottolineano i benefici relativi di sistemi alternativi. Sebbene le banche centrali abbiano tradizionalmente avuto ampie responsabilità relativamente alla stabilità finanziaria, alcuni paesi, tra essi Gran Bretagna, Giappone e Germania, hanno recentemente ridefinito i compiti delle proprie banche centrali, limitandone la competenza alla politica monetaria in senso stretto. Questo è anche il principio ispiratore dei trattati europei: essi infatti, pur non escludendo l’attribuzione alla BCE di responsabilità relativamente alla vigilanza sulle banche (attribuzione per la quale sarebbe sufficiente una decisione unanime del Consiglio europeo), hanno per il momento limitato i compiti della banca alla politica monetaria in senso stretto.

A favore della congiunzione tra politica monetaria e vigilanza si osserva che un compito importante della banca centrale è fornire il credito di ultima istanza e cioè evitare che una banca commerciale, la quale si trovi in una situazione di temporanea il liquidità, fallisca, trascinando con sé altre banche. Ma affinché il credito di ultima istanza non si risolva nel salvataggio indiscriminato di qualunque banca, è necessario che la banca centrale sia in grado di distinguere tra situazioni di liquidità e di insolvenza. Questo è tanto più facile, quante più sono le informazioni di cui la banca centrale dispone sulle singole banche: di qui l’opportunità che essa abbia accesso alle informazioni che derivano dall’azione di vigilanza.

Chi al contrario ritiene che sia opportuna la separazione, osserva innanzitutto che l’argomento, appena citato non richiede che la banca centrale sia direttamente responsabile della vigilanza, ma semplicemente che abbia accesso alle informazioni di chi effettua la vigilanza: questo è ad esempio il sistema recentemente adottato in Germania. Contro la congiunzione tra politica monetaria e vigilanza si osserva che essa può dar luogo ad un conflitto di interesse: la banca centrale può essere portata a determinare la politica monetaria non, o non solo, con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi, ma con quello di evitare fallimenti bancari, ad esempio ritardando un aumento dei tassi dei interesse che danneggerebbe i bilanci delle banche.

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A fronte di queste opinioni vi è scarsa evidenza empirica. Gli studi tipicamente confrontano paesi con assetti istituzionali diversi, chiedendosi, ad esempio, se il tasso di inflazione sia sistematicamente più elevato nei paesi in cui la banca centrale ha anche compiti di vigilanza. Ma i risultati–che pure tendono a concludere che paesi in cui la banca centrale è responsabile per la vigilanza hanno in media tassi di inflazione un po’ più elevati–sono difficili da valutare: ci possono infatti essere molti altri motivi che spiegano perché l’inflazione è più alta in questi paesi.

Uno studio recente (1) supera queste difficoltà. Lo studio si concentra sugli Stati Uniti, dove le responsabilità di vigilanza sono attribuite a tre diverse istituzioni: la Fed, l’ufficio del Comptroller of the Currency e la Federal Deposit Insurance Corporation. Poiché, tra questi organismi, solo la Fed ha anche responsabilità per la politica monetaria, ci si può chiedere se quella banca centrale si comporti diversamente dalle altre due istituzioni nello svolgere l’attività di vigilanza. La risposta alla domanda se la politica monetaria influenzi le decisioni di vigilanza è positiva. La Fed, quando alza i tassi di interesse, cerca di mitigarne l’effetto sulle banche divenendo meno rigida, relativamente alle altre due istituzioni, nell’attività di vigilanza. Si noti, tuttavia, che questi risultati non consentano di essere “rovesciati”, e cioè di concludere che, per converso, la vigilanza influenzi le decisioni di politica monetaria.

A questa evidenza, che a mio avviso offre un argomento empirico nuovo a favore della separazione, è importante aggiungere un ulteriore elemento, che riguarda i rapporti tra banca centrale e governi. In Italia per molti anni, e oggi nel Sistema europeo delle banche centrali, non esiste una regola precisa che determini la quota dei redditi da “signoraggio” che la banca centrale trasferisce nelle casse dello Stato. Questo riduce la disciplina cui essa è sottoposta, e quindi rende meno gravi le conseguenze di un eventuale errore nel decidere se una banca è illiquida o insolvente. Se la banca era insolvente, e cioè fallita, e ciononostante la banca centrale l’ha salvata, il costo dell’errore non ricade sulla banca centrale, ma sui contribuenti, perché lo Stato riceverà un trasferimento minore dalla banca centrale. In una democrazia il Parlamento ha certamente il diritto di decidere di usare una parte del gettito fiscale per salvare una banca fallita, ma la banca centrale no. E invece così spesso accade. Ad esempio dovremo attendere gli studi degli storici economici per sapere quanto è costato ai contribuenti italiani il salvataggio dei banchi del sud: non gli aumenti di capitale con onere a carico dello Stato e autorizzati dal Parlamento, che sono stati modesti, ma i finanziamenti indiretti, avvenuti tramite il bilancio della Banca d’Italia.

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(1) Ioannidou, Vasso P. (2001), “Does monetary policy affect central the bank’s role in bank supervison”, CentER, Università di Tilburg

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