Il dibattito degli ultimi mesi sembra dare per scontato che la presenza di banche straniere sia dannosa per il nostro sistema economico. Mentre l’esperienza mostra che è vero il contrario. Nel paese di destinazione dell’investimento estero si ha una crescita dell’efficienza complessiva del sistema bancario, con effetti positivi sull’intera economia. Se invece si crede che il sistema bancario italiano non sia ancora pronto per fronteggiare la concorrenza delle grandi istituti europei si apre un’altra questione: perché considerare terminata la sua ristrutturazione?

Nel tradizionale discorso al Forex, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, ha risposto alla lettera pubblica con la quale il commissario UE al Mercato interno, Charlie McCreevy, aveva chiesto rassicurazioni sul suo impegno a favore di un sistema bancario in cui le partecipazioni azionarie estere sono valutate allo stesso modo di quelle italiane. Il governatore ha affermato che “la Banca d’Italia esamina ogni ipotesi che le viene sottoposta di aggregazione o di rilevante partecipazione al capitale, tra banche italiane, di banche italiane in banche estere, di banche estere in banche italiane” e ha rimarcato che sono presenti in Italia “importanti intermediari internazionali, in una proporzione maggiore rispetto ad altri sistemi bancari europei”, segnatamente quello tedesco, quello francese e quello spagnolo.


Una presenza dannosa?


La questione sembrerebbe quindi risolta, con una pubblica affermazione a favore dell’apertura dei mercati e la dimostrazione che quello italiano è, nei fatti, ben più aperto di altri. Sono però soltanto dello scorso 14 gennaio le dichiarazioni attribuite al governatore, al presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia in difesa dell’italianità del nostro sistema bancario. Al di là della diatriba sull’effettivo grado di apertura, larga parte del dibattito degli ultimi mesi sembra dare per scontato che la presenza di istituti controllati da operatori esteri sia dannosa per il nostro sistema economico. Ma è vero? L’evidenza attualmente disponibile sembra indicare il contrario.
Come confermano anche le recenti acquisizioni effettuate da intermediari italiani nei paesi dell’Est Europa, l’espansione internazionale nel settore bancario si realizza principalmente attraverso l’acquisizione da parte di istituti più grandi e più efficienti, che operano in paesi finanziariamente più sviluppati, di banche più piccole e meno efficienti, localizzate in paesi con sistemi finanziari meno sviluppati. (1) È probabile che gli intermediari stranieri abbiano costi superiori rispetto a quelli locali, perché operano in contesti giuridici, istituzionali, culturali e linguistici diversi da quelli dei loro paesi d’origine. Ma pare evidente che se decidono di effettuare un’acquisizione è perché confidano che grazie alla loro maggiore efficienza realizzeranno profitti adeguati. Nel paese di destinazione dell’investimento estero si avrà una crescita dell’efficienza complessiva del sistema bancario. Come dimostra l’amplissima letteratura sulla relazione tra sviluppo finanziario e crescita reale, questo avrà effetti fortemente positivi sull’intero sistema economico. Peraltro, argomenti assai simili sono stati utilizzati, correttamente, contro chi auspicava la difesa delle banche del Mezzogiorno dalle acquisizioni dei più efficienti intermediari del Centro-Nord.

Leggi anche:  Bce in mezzo al guado

Pro e contro la nazionalità


La richiesta di reciprocità nell’apertura internazionale dei sistemi bancari, un’argomentazione già ampiamente criticata dalla letteratura sul protezionismo commerciale, appare in questo contesto infondata, perché non costituisce una condizione necessaria affinché un paese tragga benefici dalla presenza di più efficienti intermediari esteri. Esistono altre motivazioni, oltre a quella della reciprocità, a favore della difesa della nazionalità dei sistemi bancari? Un primo argomento, avanzato da alcuni osservatori, è che le banche estere avrebbero come unico obiettivo l’ingresso nei segmenti di mercato più profittevoli, quelli dei servizi al dettaglio, e ridurrebbero invece il flusso di finanziamenti alle imprese produttive, in particolare quelle medie e piccole. Anche questa argomentazione appare però debole. Da un lato, se il finanziamento delle piccole imprese non fosse un’attività profittevole, non si vede perché dovrebbe essere effettuato dalle banche italiane che, in seguito alla privatizzazione realizzata nel corso degli anni Novanta, hanno come unico obiettivo la massimizzazione del valore per i loro azionisti. Dall’altro lato, se le banche estere riducessero i finanziamenti alle imprese medie e piccole perché sono meno efficienti nel valutarne il merito di credito, non si vede perché altri intermediari nazionali non dovrebbero occupare gli spazi rimasti liberi. In effetti, un simile andamento si è registrato proprio in seguito alle operazioni di concentrazione realizzate in Italia nello scorso decennio, con la crescita della quota delle banche piccole e minori sul totale dei prestiti ai residenti dal 16,3 per cento nel 1992 al 30,8 nel 2003. (2)
Un secondo argomento, comune a larga parte della letteratura sul protezionismo commerciale, sottolinea la necessità di difendere i settori in temporanea difficoltà. Secondo questa interpretazione, il sistema bancario italiano, pur essendo uscito con successo da una radicale ristrutturazione, non sarebbe ancora pronto per fronteggiare la concorrenza delle grandi banche europee. Tra qualche anno, esso sarà invece in grado di difendersi autonomamente dalle pressioni degli intermediari esteri, con l’indubbio vantaggio che i profitti dell’attività bancaria rimarranno nel nostro paese.
A patto che si chiarisca quali passi ulteriori devono compiere le banche italiane per potersi confrontare con quelle europee, l’argomentazione appare condivisibile. Ma è allora possibile, come vorrebbero alcuni, considerare terminata la ristrutturazione del sistema bancario italiano?

Leggi anche:  Digitalizzare aiuta a gestire meglio i fondi Ue

(1) Cfr. “The Patterns of Cross-Border Bank Mergers and Shareholdings in the Oecd Countries”, Journal of Banking and Finance, vol. 25, n. 12, December 2001, pp.2305-2337 e “Where Do Banks Expand Abroad? An Empirical Analysis“, Journal of Business, vol. 79, n. 1, January 2006 (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=301644), di Dario Focarelli e Alberto Franco Pozzolo.


(2) Cfr. “The effects of bank mergers on credit availability: evidence from corporate data”, Banca d’Italia, Temi di Discussione del Servizio Studi, n. 479 (http://www.bancaditalia.it/ricerca/consultazioni/temidi/td03/td479/td_479/tema_479_03.pdf), di Emilia Bonaccorsi di Patti e Giorgio Gobbi.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Digitalizzare aiuta a gestire meglio i fondi Ue