Lavoce.info

Lo spettro di Bolkestein s’aggira per l’Europa

Il commercio di servizi nella Ue è frenato sia dal livello delle regolazioni nazionali che dalla loro eterogeneità. Ma l’assenza di un mercato integrato dei servizi è uno dei maggiori ostacoli alla crescita. E un grave danno per i cittadini europei perché il settore dei servizi è il principale, se non l’unico, fattore di crescita economica e occupazionale nei paesi avanzati. La sempre più diffusa opposizione alla “direttiva Bolkestein” si spiega solo con la scarsa lungimiranza dei governanti nell’avviare le riforme necessarie per uscire dalla stagnazione.

L’Unione europea è uno spazio economico anomalo. I beni e i capitali circolano liberamente, specialmente dopo il completamento del Mercato unico nel 1993, ma i servizi faticano a trovare la strada del commercio intraeuropeo. Eppure, gli stessi trattati che hanno abolito le frontiere per i manufatti e i flussi finanziari garantiscono formalmente anche la libera circolazione dei servizi. Per esempio, uno studio dell’Ocse (http://www.olis.oecd.org/olis/2003doc.nsf/linkto/eco-wkp(2003)11) rilevava che, in media, nel 2001 vi erano meno barriere esplicite all’investimento diretto dall’estero nell’Unione europea che negli Stati Uniti proprio in considerazione del fatto che, in teoria, tra i paesi membri non ci sono limiti alla creazione di imprese transfrontaliere, una delle principali modalità di fornitura di servizi a livello internazionale.

Tutti gli ostacoli dell’Unione

In realtà le cose sul campo stanno diversamente. Un impressionante numero di ostacoli regolamentari e amministrativi impedisce ai prestatori di servizi non solo di creare filiali nell’Unione, ma anche di commerciare utilizzando altre modalità, quali la vendita transfrontaliera o l’invio di personale specializzato. Regolazioni e burocrazie nazionali frenano il commercio e gli investimenti in due modi: creando alti costi fissi per le imprese desiderose di accedere al mercato di un altro paese membro e moltiplicando questi costi nel caso, sempre più frequente in un contesto di globalizzazione, di imprese che operano simultaneamente su più mercati. In altri termini, il commercio di servizi è frenato sia dal livello delle regolazioni nazionali che dalla loro eterogeneità nell’Unione.
È stato calcolato che raccogliere le informazioni necessarie a stabilirsi commercialmente in un singolo paese europeo può costare fino a 160mila euro in consulenze legali per un’impresa di un altro Stato membro; le procedure amministrative legate alla concessione di ogni autorizzazione possono costare fino a 65mila euro (da moltiplicare per le numerose autorizzazioni richieste); e la documentazione legale necessaria per potere offrire servizi transfrontalieri può implicare costi di entità anche superiore. (1) Ovviamente, queste cifre salgono con il numero di paesi nei quali si intende offrire servizi, a causa dell’assenza di armonizzazione comunitaria e della specificità delle regolazioni nazionali in materia di servizi. Così, questi ostacoli mantengono il commercio intraeuropeo di servizi ben al di sotto delle sue potenzialità. Recenti stime suggeriscono che la loro eliminazione potrebbe aumentare i flussi di commercio e di investimento diretto estero del 30-40 per cento rispetto ai loro livelli attuali.

Leggi anche:  Agricoltori e cordoni della borsa pubblica*

Un handicap alla crescita

Non è difficile capire come l’assenza di un mercato integrato dei servizi sia uno dei maggiori handicap dell’Europa rispetto agli Stati Uniti. In effetti, la difficoltà di commerciare e investire liberamente nell’Unione si traduce in scarse pressioni concorrenziali e in un sottodimensionamento del settore. Mentre le imprese manifatturiere devono continuamente migliorare l’efficienza dei propri processi produttivi e la qualità e la varietà dei loro prodotti per fare fronte alla concorrenza estera, i prestatori di servizi possono farne sovente a meno perché sono protetti dalle forti barriere alla concorrenza create dagli ostacoli regolamentari e amministrativi al commercio e all’investimento estero. L’assenza di incentivi concorrenziali può forse spiegare perché nei paesi dove le regolamentazioni sono più rigide il contributo dei servizi che utilizzano nuove tecnologie alla crescita della produttività è più debole (Figura 1). Inoltre, mentre la manifattura può godere delle economie di scala legate alla dimensione europea (e globale) del mercato dei beni, il settore dei servizi opera in gran parte su scala nazionale (e spesso locale), rimanendo inefficiente e di ridotte dimensioni. Non è un caso che, come ampiamente documentano studi effettuati dall’università di Groningen, i forti differenziali di crescita della produttività aggregata tra Stati Uniti e Unione europea negli ultimi quindici anni siano spiegati in gran parte dalla scarsa crescita della produttività in molti dei servizi prodotti nel Vecchio Continente. Non è un caso nemmeno che, a livello internazionale, la quota degli occupati nel settore dei servizi sia funzione decrescente della rigidità delle regolazioni economiche e amministrative che affliggono questo settore (Figura 2).

A danno dei cittadini

Tutto ciò è tragico per i cittadini europei, nella loro duplice veste di lavoratori e consumatori, perché il settore dei servizi è il principale (se non addirittura l’unico) fattore di crescita economica e occupazionale nei paesi avanzati. Il sottosviluppo del terziario frena la creazione di ricchezza e occupazione, oltre a mantenere artificialmente elevati i prezzi dei servizi, che costituiscono una quota crescente dei consumi intermedi delle imprese e dei consumi finali dei cittadini europei. Eppure, l’eterogeneità dei servizi, che vanno dal commercio al dettaglio o dall’assistenza sanitaria fino alla consulenza tecnica alle imprese e alle famiglie, fa sì che lo sviluppo di questo settore potrebbe assorbire lavoratori sia di bassa che di alta qualifica, contribuendo a ridurre i forti tassi di disoccupazione che caratterizzano molte economie europee, così come è avvenuto negli Stati Uniti nel corso degli ultimi due decenni. I guadagni occupazionali che si potrebbero ottenere eliminando le regolazioni restrittive della concorrenza nel settore dei servizi, sono stimati dall’Ocse attorno al 3 per cento della popolazione in età lavorativa in un paese come l’Italia. Inoltre, come dimostra uno studio recente della Fondazione Rodolfo Debenedetti, guadagni di qualità e efficienza nei servizi resi alle imprese possono anche tradursi in forti aumenti di produttività delle aziende manifatturiere, innescando un ciclo virtuoso capace di innalzare la produttività globale delle economie europee.

Leggi anche:  Perché il rapporto Draghi non è solo un libro dei sogni

In questo contesto, la crescente opposizione alla cosiddetta “direttiva Bolkestein” sui servizi, anche da parte degli stessi politici che l’avevano finora appoggiata, non può non apparire come una delle numerose manifestazioni di un sempre più allarmante “masochismo europeo”. In effetti, scopo della direttiva era proprio di dare un colpo d’acceleratore alla realizzazione del mercato unico nel campo dei servizi, seppur in modo progressivo e con un gran numero di deroghe finalizzate a non urtare le sensibilità dei paesi più refrattari alle riforme in questo campo (come la Francia). Gli effetti della direttiva si farebbero sentire sia sull’occupazione che sulla crescita europea, in piena sintonia con i tanto strombazzati obiettivi di Lisbona. Ma i governanti sembrano avere perso l’audacia e la lungimiranza sia dei padri fondatori che dei loro emuli che, in anni più recenti, hanno contribuito allo sviluppo dell’Unione. Preferiscono continuare a enunciare obiettivi e a seguire le paure, spesso infondate, di una parte dell’elettorato piuttosto che varare le riforme necessarie per fare uscire l’Europa dalla stagnazione.

Per saperne di più

G. Nicoletti, S. Golub, D. Hajkova, D. Mirza e K. Yoo (2003), “Policies and international integration: influences on trade and foreign direct investment”, http://www.olis.oecd.org/olis/2003doc.nsf/linkto/eco-wkp(2003)13, e H. Kox, A. Lejour e R. Montizaan (2004), “The free movement of services within the EU”, http://www.cpb.nl/eng/pub/document/69/doc69.pdf

R. Inklaar, M. O’Mahony e M. Timmer (2003), “ICT and Europe’s productivity performance industry level growth account comparisons with the United State”s, http://www.ggdc.net/pub/online/gd68(online).pdfe R. Inklaar, M. Timmer e B. van Ark (2005), “Productivity differentials in the US and EU distributive trade sector: statistical myth or reality”, http://www.ggdc.net/pub/online/gd76(online).pdf.

Oecd (2003), “Quantifying the benefits of liberalising trade in services,” Chap. 1, http://iris.sourceoecd.org/vl=1416528/cl=16/nw=1/rpsv/~6678/v2003n12/s1/p1l

R. Faini, J. Haskel, G. Barba-Navaretti, C. Scarpa e J. Wey (2004), “Contrasting Europe’s decline: do product market reforms help?”, http://www.frdb.org/images/customer/report_one.pdf

 

(1) http://europa.eu.int/comm/internal_market/services/docs/strategy/2004-propdir/before-after_en.pdf

 

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  In Italia sono bassi anche gli stipendi dei calciatori

Precedente

Antonveneta, i paradossi di una battaglia

Successivo

Sognando coi piedi per terra

  1. Giacomo Dorigo

    Da quello che ho capito la Bolkenstein comporta che il fornitore del servizio risponde alle leggi del proprio paese anche se va in un altro. Questo però non mi sembra molto leale, è chiaro che poi la gente ha paura di una corsa al ribasso delle tutele ambientali e sociali. Perchè invece non si uniformano le regolamentazioni a livello europeo così che la normativa sia una sola?

    • La redazione

      Gentile lettore,

      Al principio del paese d’origine è stato dato un risalto sproporzionato alla sua reale portata. In realtà questo principio comporta una serie di deroghe che coprono quasi tutte le aree “sensibili” delle politiche regolatorie dei paesi membri, come ad esempio le politiche sociali, del lavoro, urbanistiche, ambientali, le qualifiche professionali, l’erogazione dei servizi pubblici e i servizi sanitari. In ultima analisi, il principio è volto soprattutto a eliminare differenze nelle procedure e nei requisiti amministrativi per la creazione d’imprese o l’offerta di servizi in un altro paese membro. L’idea è che molte di queste differenze non sono giustificate da motivi d’interesse pubblico (per esempio il requisito vigente in alcuni paesi che un’impresa fornitrice di servizi debba essere garantita esclusivamente da una banca del paese ospite, oppure le differenze nei tempi necessari per ottenere una risposta dall’amministrazione pubblica, o ancora il requisito di recarsi di persona presso l’amministrazione del paese ospite per raccogliere le informazioni necessarie per l’ottenimento di una licenza, etc.). L’eliminazione di queste differenze può facilitare notevolmente l’offerta di servizi transfrontalieri, specialmente per le piccole e medie imprese. Il principio è anche volto a far sì che la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia d’idoneità di un’impresa a fornire servizi in un altro paese membro o di coerenza delle normative nazionali con gli obiettivi della direttiva si estenda automaticamente a tutti i paesi dell’Unione. In questo modo si genera un processo di armonizzazione “dal basso” (da non confondere con un’armonizzazione “verso il basso”) che può portare in modo relativamente rapido all’integrazione del mercato dei servizi europeo. Data la giungla di normative relative a ciascun tipo di servizio in ogni paese europeo, l’alternativa di un’armonizzazione “dall’alto” (con apposite direttive per ciascun tipo di servizio) richiederebbe il tempo di più generazioni. È proprio per evitare questo che la Commissione ha scelto la scorciatoia della direttiva sui servizi.

  2. Corrado Truffi

    Sono “ferocemente” europeista. Nel senso che spero in un’Europa politicamente, economicamente, culturalmente davvero unita, federale. Ma anche nel senso che spero che l’Unione Europea porti a propagare il modello di welfare di Francia e Germania (o meglio di Svezia e Finlandia) verso gli altri paesi membri. Nel senso che confido che la dimensione continentale consenta all’Europa di competere sul mercato globale, di accettare le regole della concorrenza e del libero mercato senza buttare a mare la sicurezza sociale e la protezione dei diritti sociali delle persone.
    Per questo mi riesce difficile essere d’accordo con lo schematismo dell’articolo, secondo cui la direttiva Bolkestein è la panacea per quasi tutti i mali d’Europa, e i suoi critici sono solo disinformati o demagoghi contrari al libero mercato.
    E per lo stesso motivo mi riesce difficile esser d’accordo con i critici integrali “à l’Attac”, per i quali dietro la liberalizzazione dei servizi notarili o della consulenza alle imprese, o dei servizi di pulizia, ci sarebbe un diabolico progetto di abolizione della sanità e dell’istruzione pubbliche.
    In breve: possibile che non si riesca ad elaborare un discorso chiaro e non estremista, da una parte e dall’altra? Perché non è possibile stabilire che dovrebbe essere l’Europa in sé (e non i singoli stati) a definire un insieme base di beni e servizi pubblici da sottrarre alla libera concorrenza in quanto pubblici, evitando così ogni possibile fraintendimento? E perché sulla disciplina del lavoro non di riesce a formulare uno statuto dei diritti a livello europeo?
    La scelta di difendere lo stato sociale e le varie protezioni a livello di singola nazione, abolendo di fatto l’Europa, mi sembra particolarmente miope. Ma altrettanto miope mi sembra che gli europeisti (e la concreta amministrazione europea, la Commissione), continuino a far vivere l’Europa solo attraverso la liberalizzazione dei mercati e una deprimente idea di un’Europa dei banchieri e degli imprenditori, e non delle persone (del popolo europeo??): è inutile lamentarsi della facile demagogia anti europea, se si fa nei fatti di tutto per fornirgli buoni argomenti.

    • La redazione

      Gentile lettore,

      Mi dispiace che lei abbia trovato il mio articolo schematico. È bene tenere presente che non si trattava di un pezzo sulla direttiva Bolkestein, ma sui danni che l’assenza di un mercato integrato dei servizi porta alla crescita economica e occupazionale dell’Unione Europea. Dalla sua lettera, mi sembra di capire che sulla necessità di una maggiore integrazione in questo campo siamo d’accordo. Il problema è che quando si passa dall’enunciazione di principî alla messa in pratica di politiche “integratrici” spesso queste politiche vengono eccessivamente semplificate e caricaturizzate. La direttiva Bolkestein ne è un esempio eclatante. La direttiva in questione non mette in pericolo nè i sistemi di welfare di cui lei parla (e che peraltro differiscono in modo sostanziale da paese a paese) nè i servizi pubblici o le tutele dei cittadini “all’europea” (che poi differiscono anch’essi notevolmente da paese a paese). Infatti la direttiva menziona espressamente una serie di campi in cui il principio del paese d’origine non vale e in cui prevale invece la legislazione del paese ospite. Questi campi includono il diritto del lavoro (compresi quelli risultanti dai contratti collettivi), i requisiti relativi alle qualifiche professionali, le modalità di erogazione e finanziamento dei servizi pubblici (inclusi i servizi sanitari pubblici e l’educazione pubblica), le normative di carattere ambientale, sanitario e urbanistico, la tutela dei consumatori, etc. Per di più, la direttiva stabilisce che il principio del paese d’origine non si applica ai cosiddetti lavoratori “in distacco” (cioè quelli che lavorano per un’impresa di servizi in un paese diverso da quello d’origine per brevi periodi), che rimangono
      coperti da un’apposita e preesistente direttiva (96/71/EC). Per intenderci, un’impresa di costruzioni polacca non può lavorare in Italia applicando ai suoi lavoratori il diritto del lavoro e/o il contratto collettivo di settore polacco. Infine, la direttiva esclude esplicitamente una serie di settori non-manufatturieri che sono coperti da altre direttive: i servizi finanziari, i trasporti, l’energia e l’acqua, i servizi di comunicazione e loro reti. Per mancanza di spazio non posso dilungarmi oltre, ma è evidente che c’è una sproporzione tra la reale portata della direttiva, che è volta principalmente a ridurre i costi di natura amministrativa per le imprese di servizi che vogliono operare in più paesi dell’Unione, e le paure che essa genera nell’opinione pubblica. Tutte le informazioni sulla direttiva possono essere facilmente trovate sul sito della CE, ma la confusione è tale su questi temi che sarebbe utile probabilmente scrivere un articolo interamente dedicato ad essa.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén