Di una riforma organica degli ammortizzatori sociali si parla ormai dal 1997, ma non sarà varata neanche in questa legislatura. Anche se resta una delle grandi priorità dell’agenda di policy nel nostro paese. Il sistema vigente è fortemente inadeguato rispetto alle funzioni che dovrebbe svolgere e appare completamente fuori linea rispetto agli standard europei. Serve un insieme coerente di interventi capaci di tutelare equamente ed efficacemente i rischi economici della disoccupazione e al tempo stesso incentivare il re-inserimento lavorativo.

Il decreto legge sulla competitività introduce, al capo VII, alcune misure di “potenziamento degli ammortizzatori sociali“: un modesto irrobustimento dell’indennità ordinaria di disoccupazione, l’introduzione di un sussidio alla mobilità territoriale e l’estensione del raggio di applicazione della cassa integrazione straordinaria. Si tratta di misure provvisorie, che si applicheranno solo nel 2005 e nel 2006, “in attesa della riforma organica degli ammortizzatori sociali e del sistema degli incentivi all’occupazione”. Di questa riforma si parla ormai dal 1997 (commissione Onofri). È praticamente impossibile che il vuoto possa essere colmato entro la fine della legislatura. Ma va ribadito con forza che la riforma resta una delle grandi priorità dell’agenda di policy nel nostro paese. Il sistema vigente è infatti fortemente inadeguato rispetto alle funzioni che dovrebbe svolgere (tutela economica della disoccupazione e promozione del reinserimento lavorativo) e appare completamente fuori linea rispetto agli standard europei.

Il modello europeo

Nella maggioranza dei paesi europei la protezione della disoccupazione è organizzata su tre “pilastri”:
1) un pilastro assicurativo, che eroga prestazioni a fronte di versamenti contributivi e per durate massime prestabilite;
2) un pilastro assistenziale “dedicato”, che eroga prestazioni in base a requisiti di reddito, nel caso in cui il lavoratore disoccupato non abbia accesso al primo pilastro oppure abbia esaurito le spettanze contributive, pur perdurando lo stato di disoccupazione;
3) un pilastro assistenziale “generale”, che fornisce qualche forma di reddito minimo garantito a chi si trova in condizioni di povertà, in base a stringenti requisiti di reddito e patrimonio.
Sono stati introdotti in momenti storici diversi nel corso dell’ultimo secolo, ma costituiscono un “sistema” abbastanza coerente e coordinato al proprio interno. Durante gli anni Novanta, nei vari paesi, sono state varate numerose riforme, volte a potenziare la funzione del re-inserimento lavorativo accanto a quella più tradizionale e “passiva” della tutela del reddito. I principali interventi hanno riguardato:
– la riduzione della generosità dei trattamenti
– l’inasprimento della cosiddetta “condizionalità”, ossia delle condizioni che devono essere soddisfatte dal beneficiario per (continuare a) percepire la prestazione;
– il collegamento più stretto tra la fruizione delle prestazioni e le politiche attive del lavoro;
– l’introduzione di nuove forme di tutela per i lavoratori a-tipici ;
– l’introduzione di trasferimenti integrativi dei bassi salari (i cosiddetti in-work benefits).
Non tutte le riforme sono state egualmente efficaci e in qualche caso, pensiamo al pacchetto “Hartz IV” in Germania, hanno incontrato forte opposizione sociale. Ma in tutti i paesi il settore degli ammortizzatori sociali è diventato un “cantiere aperto” di sperimentazione e cambiamento, sulla base di un retroterra istituzionale largamente condiviso.

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L’anomalia italiana

In questo panorama, il caso italiano spicca per le sue anomalie e il suo immobilismo. Sul piano storico, l’Italia ha cominciato bene, introducendo precocemente, nel 1919, il pilastro assicurativo. Ma ha poi deragliato dal binario europeo a partire dagli anni Cinquanta: invece di consolidare questo pilastro e introdurre “complementi” di natura non assicurativa (secondo e/o terzo pilastro), l’Italia ha scelto di sviluppare un pilastro alternativo, la cassa integrazione.
È vero che anche in altri paesi esistono schemi per la tutela delle riduzioni delle ore lavorate in momenti di crisi. Ma si tratta di schemi circoscritti e che comunque giocano un ruolo ben inferiore (anche sul piano dei flussi di spesa) rispetto agli altri tre pilastri. Il deragliamento italiano ha avuto serie conseguenze sul piano distributivo, accentuando quella segmentazione fra “garantiti” e “non garantiti” che rimane una delle principali peculiarità negative del mercato del lavoro italiano. Nei confronti internazionali, l’Italia si distingue sempre per l’alta percentuale di disoccupati che non percepiscono prestazioni e che si trovano sotto la linea di povertà (un fenomeno destinato ad accentuarsi sulla scia dell’aumento dei lavori cosiddetti atipici). La generosità e la durata delle “integrazioni salariali” in costanza di rapporto di lavoro non trovano dal canto loro riscontro in nessun altro paese dell’Unione Europea.
La sfida è smontare questo anomalo “ircocervo” istituzionale: eliminare alcuni pezzi (sul fronte delle integrazioni salariali), aggiungere quelli mancanti (sul fronte delle indennità), ricomporre un “sistema” coerente di ammortizzatori capace di tutelare equamente ed efficacemente i rischi economici della disoccupazione e al tempo stesso incentivare il re-inserimento lavorativo, in stretto collegamento con le politiche attive. E la risposta alla sfida deve essere una riforma “organica”, certo, ma concreta e tempestiva. Le misure tampone e “a termine” non servono più a niente.

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