Le regole sulle competenze, la governance e la durata dei mandati di Banca d’Italia andavano modificate da tempo, come proposto su lavoce.info anche quando ridimensionare i poteri di Banca d’Italia o criticare il Governatore era considerato da molti economisti quasi un tradimento.  Riproponiamo ai nostri lettori alcuni degli interventi apparsi su questo tema.

Antonveneta, i paradossi di una battaglia, di Giuseppe Montesi

Una vicenda anima in questi giorni la Borsa italiana: lo scontro per il controllo della banca Antoveneta.
I dubbi riguardano in particolare le condizioni e il ruolo svolto dalla Banca Popolare di Lodi e dalle autorità di controllo e vigilanza.

La posizione del cacciatore e della preda

La tabella sotto mette a confronto le due banche, riepilogando alcuni dei dati più significativi.

Valori in ’000
(Anno 2004)

BPL

ANT

Totale attivo

43.284.979

45.432.252

Massa Amministrata

66.075.374

65.612.648

Patrimonio netto

2.729.146

2.642.464

Margine di interesse

981.241

1.371.041

Margine Servizi

803.691

837.889

Margine di Intermediazione

1.784.932

2.235.074

Risultato di Gestione

874.406

1.085.971

Utile di esercizio

168.382

282.688

ROE

6,58%

9,62%

Fondi Generati dalla Gestione

752.268

1.311.480

Sofferenze Nette/impieghi Netti (%)

1,70%

3,7%

Sofferenze Nette/Patrimonio Netto (%)

16,40%

54,20%

Indice Copertura Sofferenze Nette (%)

34,40%

69,80%

Patrimonio di base/Attività di rischio ponderate

6,35%

5,77%

Patrimonio di vigilanza/Attività di rischio ponderate

9,64%

9,80%

No. Dipendenti

8.706

10.481

No. Sportelli Bancari

970

1.004

Capitalizzazione (aprile ’05)

2.444.721

7.638.996

PBV (aprile ’05)

0,896

2,842

I due gruppi sono del tutto equivalenti dimensionalmente, sia come massa amministrata che come total asset. Antonveneta si presenta con una redditività migliore (anche se aveva chiuso il 2003 con oltre 800 milioni di perdita) e con una copertura delle sofferenze doppia di quella di Popolare Lodi. Indubbiamente, la grossa differenza sta nel loro valore di mercato delle due banche: in questo momento Antonveneta capitalizza oltre tre volte il valore di Bpl. A questi dati vale la pena aggiungere qualche osservazione in più su Bpl. Un report elaborato a febbraio di quest’anno da un’analista inglese, Andrew Sentance, mette in evidenza che Popolare Lodi, per completare alcune acquisizioni del passato, dovrà pagare nel 2005 oltre 700 milioni di euro. (1)
Inoltre, la banca ha iscritto in bilancio alcune partecipazioni che con l’applicazione dei criteri Ias, potrebbero comportare svalutazioni per circa 300 milioni di euro. In particolare, tra queste c’è la partecipazione in Caribolzano, che ancora nel bilancio 2004 è iscritta al costo e valutata 368 milioni, equivalenti a un valore di 502 euro per azione, quando nel 2004 Bayerische Landesbank ha venduto la sua quota per un’equivalente di 220 euro per azione. Solo questa partecipazione potrebbe comportare una svalutazione di oltre 200 milioni di euro. E se non sarà svalutata, aspettiamo una spiegazione del perché.

Domande & paradossi

Ma perché Bpl vale un terzo di Antonveneta nonostante siano due banche abbastanza simili per dimensione e attività svolta? Antonveneta è palesemente sopravalutata in questo momento, ma è bene ricordare che la differenza di valore era rilevante anche prima degli ultimi eventi. Evidentemente, il mercato ha attese in termini di redditività alquanto superiori per Antonveneta.Altrettanto evidentemente i rilievi di Andrew Sentance su Bpl sono largamente condivisi tra gli operatori. I numeri del resto parlano chiaro: Bpl in termini sia di Pbv che di Pe, attuali e attesi, è all’ultimo posto tra le maggiori banche italiane. Tutto questo rende quantomeno strano che sia Bpl (capitalizzazione: 2,4 miliardi di euro) a scalare Ant (capitalizzazione: 7 miliardi di euro), e non viceversa. Per la cronaca, Abn Ambro, la banca olandese che su Antonveneta ha lanciato un’Opa, capitalizza sul mercato qualcosa come 33 miliardi di euro. In poco più di un mese, Bpl ha acquistato sul mercato azioni di Antonveneta per circa 2 miliardi di euro e nel 2005 avrà almeno altri 700 milioni di euro da pagare. Come pensa Bpl di finanziare tutto questo? Come ha finanziato gli acquisti fino a questo momento? Probabilmente scambiando titoli di Stato e obbligazioni con azioni; ma questo è un gioco un po’ rischioso. Soprattutto per una banca che ha già una bassa copertura delle sofferenze (molto al di sotto della media delle banche italiane), con un patrimonio che è destinato probabilmente a intaccarsi nel 2005.
In uno scenario simile, la scelta del management di Bpl di acquistare azioni di un’altra banca a prezzi così elevati, diciamo pure fuori mercato, non sembra razionale. Per non parlare, poi, di chi ha autorizzato tutto questo. Si tenga presente che il Pbv medio delle maggiori banche italiane è di circa 1,68. Unicredito ha un Pbv di 2. A livello europeo, il Pbv medio è di 1,85; il valore più elevato è quello di Ubs, 2,99. È credibile che Antonveneta mantenga un Pbv di 2,84? O che valga in termini relativi quanto una banca come Ubs? La risposta è molto semplice: no.
Immaginiamo che Bpl conquisti il controllo di Antonveneta. Ai prezzi attuali, considerando una valutazione di Antonveneta basata su di un Pbv medio delle banche italiane di 1,68, il premio che sta pagando sarebbe di circa il 70 per cento, qualcosa come 800 milioni di euro sugli acquisti dell’ultimo mese. Per conquistare un altro 50 per cento, arriveremo a 2,4 miliardi. Se consideriamo gli attuali target price su Antonveneta, medio (19,2) e mediano (17,6), il premio si posiziona tra il 40 e il 50 per cento; a cui corrisponde un valore di 500-650 milioni per gli acquisti dell’ultimo mese e 1,5-2 miliardi per conquistare il 75 per cento.
Vediamo ora la cosa dal lato degli azionisti di Bpl. I benefici derivanti dalla conquista di Antonveneta saranno maggiori dei costi e tali da recuperare il possibile effetto diluizione legato all’aumento di capitale necessario per finanziare l’operazione e riportare i ratios patrimoniali a livelli accettabili? Stiamo parlando di coprire dei costi, non di possibili guadagni. Agli azionisti attuali di Bpl bisognerebbe forse spiegare come e in quanto tempo si pensa di recuperare i 500-800 milioni di euro già spesi come premio per acquistare azioni di Antonveneta, ovvero dal 20 al 30 per cento e oltre della capitalizzazione attuale di Bpl. È evidente che Bpl non è nelle condizioni di lanciare un’Opa totalitaria su Antonveneta e dunque si guarderà bene dal superare la soglia del 30 per cento, oltre la quale scatta l’obbligo. A questo punto, però, non si comprende per quale motivo si è permesso a Bpl di aumentare la sua quota, dopo che Abn Ambro aveva lanciato l’Opa. Tanto più che la normativa impone a Bpl l’obbligo di Opa anche nel caso in cui si accordi con altri azionisti al fine di controllare Antonveneta. Forse la strategia di Bpl in questa vicenda è rastrellare azioni sul mercato scommettendo su un aumento del prezzo di Opa da parte di Abn Ambro?
La conclusione a cui vogliamo arrivare è piuttosto evidente: come è possibile che una banca nelle condizioni di Bpl, con i peggiori fondamentali di mercato, sia stata autorizzata a rastrellare, a prezzi così alti, tante azioni sul mercato con l’obiettivo di controllare un istituto che nella peggiore delle ipotesi vale almeno il doppio? Secondo quali principi e quale logica di regolamentazione prudenziale stanno ragionando in Banca d’Italia? Come rispondono agli appunti di alcuni analisti che già stimano i ratios patrimoniali di Bpl a un terzo del valore del 2004? Non vorremo fare i profeti di sventura, ma per come si sono messe le cose, ci sono veramente pochi dubbi che questa storia alla fine avrà un costo. Anche se ci vorrà ancora un po’ di tempo per stabilire quale sia la sua dimensione, chi sarà effettivamente a pagare e quali saranno le possibili conseguenze.
Per limitare questo costo esiste tuttavia una strada molto semplice: Bpl fermi le sue ambizioni e aderisca all’Opa di Abn Ambro. La scelta è poco onorevole, ma è probabilmente quella economicamente più indolore, se consideriamo anche il fatto che circa il 5 per cento della quota di Popolare Lodi in Anotonveneta è a prezzi di carico certamente più bassi di 25 euro per azione.

Postilla


L’offerta pubblica di scambio di Banca Popolare Lodi su Antonveneta prevede una valorizzazione dell’istituto di Padova pari a 26 euro per azione. I rapporti impliciti di concambio prevedono un valore per azione di 9,2 per Bpl e di 45 per Reti Bancarie, ipotizzando quindi un premio, rispettivamente, di circa il 18 e 13 per cento sui prezzi attuali. Come hanno riportato tutti i giornali, ai prezzi attuali, l’Ops di Bpl corrisponde in realtà a circa 23 euro per azione di Antonveneta. L’offerta è sul 70 per cento del capitale.
Questo significa che in questo momento qualcuno dovrebbe pagare circa 600 milioni di euro, impliciti nella valorizzazione teorica di Antonveneta a 26 euro. Va poi aggiunto il premio che Bpl ha pagato per portare la sua quota a quasi il 30 per cento. Il premio come abbiamo visto è presumibilmente compreso tra i 500 e gli 800 milioni. La somma dei due premi determina un costo totale compreso tra 1,1 e 1,4 miliardi di euro, di cui gli azionisti di Bpl e di Antonveneta dovranno farsi carico.

Guadagni certi e incerti

Nel progetto di Ops elaborato da Bpl si legge: “Il nuovo Gruppo, caratterizzato da nuove potenzialità di crescita, da un’intensa creazione di valore e da interessanti sinergie in termini di ricavi e di costi superiori ai 300 milioni di euro, costituirà un rafforzamento del comparto creditizio italiano e un forte richiamo per altre realtà della stessa categoria e dimensioni”. Belle parole a parte, ora come ora la cosa risulta piuttosto vaga. A partire da questi ipotetici 300 milioni: sono le effettive sinergie che si avranno ogni anno (si sta considerando ad esempio i maggiori costi per interessi passivi legati alle emissioni obbligazionarie previste dal soggetto di Ops)? E da quando? È piuttosto evidente infatti che fa molta differenza se tutto questo si pensa di averlo entro due, tre, cinque o dieci anni.

Ma prendiamo per buoni questi dati e immaginiamo che questi benefici siano permanenti e si concretizzino in un tempo ragionevole di tre anni. Ipotizzando un tax rate del 40 per cento e un costo del capitale del 9,5 per cento (data la situazione, non è certo una stima per eccesso), abbiamo una potenziale creazione di valore pari a circa 1,4 miliardi di euro, appena in grado di coprire i soli costi vivi dell’operazione. Non vi sono compresi, comunque, il costo dei consulenti e quelli legati alla complessa operazione di aumento di capitale di Bpl che non sono certo poca cosa. L’offerta di Abn Ambro prevede un’Opa sull’intero capitale: 25 euro in contanti per ogni azione di Antonveneta. Gli attuali azionisti di Antonveneta, se potranno, dovranno quindi scegliere tra un guadagno certo e l’ipotesi di dover pagare subito qualcosa, con la speranza di recuperare poi, e nella migliore delle ipotesi, poco più di quello che hanno già pagato. Naturalmente, sempre che con il tempo non emergano problemi di stabilità finanziaria, visto che come ha rilevato giustamente Alessandro Penati su Repubblica, Bpl assomiglia sempre di più a un hedge fund più che a una Banca, e che ovviamente le sinergie di 300 milioni stimate da Bpl diventino una realtà nel giro di pochi anni e non risultino sovrastimate. Abn Ambro stima in poco più della metà i risparmi in termini di costi e da indiscrezioni di stampa in circa 100 milioni quelle in termini di ricavi. In bocca al lupo!

(1) Il report su Bpl di Andrew Sentance per Gestnord si trova nel sito di Borsa Italiana. Dopo la pubblicazione, Sentance è stato licenziato dal gruppo che fa capo a Maurizio Sella (presidente Abi) con la seguente motivazione “aver divulgato a terzi (tra cui l’agenzia Bloomberg) informazioni relative a Bpl, delle quali è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di collaborazione” (vedi l’Espresso del 18 marzo). Chiunque abbia letto quel report si sarà accorto che non c’è nulla di veramente rilevante che non possa essere ricavato dai documenti ufficiali e dalla stampa.

I costi della mancata concorrenza, di Tito Boeri e Roberto Perotti

Il possibile compromesso alla Camera…

Nell’ ambito del dibattito sul risparmio, si sta delineando un compromesso sul ruolo della Banca d’ Italia: potrà tenersi il controllo di fatto del sistema bancario, vincendo così la concorrenza dell’Antitrust, in cambio di un qualche limite sul mandato del governatore.

Il giudizio su questo compromesso dipende necessariamente dalla valutazione del ruolo della Banca d’Italia nel tutelare la concorrenza del sistema bancario in questi ultimi anni. Una parte importante di questa valutazione consiste nella risposta ad una semplice domanda: quali sono stati gli effetti sul consumatore del processo di riorganizzazione del sistema bancario?

.. e la disputa con Bruxelles sull’internazionalizzazione

La risposta a tale quesito è importante anche in connessione alla recente disputa fra Banca d’Italia e Commissione Europea. Il grado effettivo di concorrenza all’interno del sistema bancario dipende infatti dalla protezione di cui le banche italiane godono nei confronti di potenziali investitori esteri. Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ha sottolineato come la quota straniera nelle prime quattro banche italiane, pari al 16 percento, sia la più alta d’ Europa. Ma il punto rilevante per valutare l’ effetto sulla concorrenza non è la quota di partecipazione straniera, bensì la contendibilità. Deve essere realisticamente concepibile per una banca straniera acquisire un pacchetto di maggioranza di una importante banca italiana. Oggi questo non sembra essere il caso.

La distinzione tra quota complessiva e pacchetto di controllo di singole banche è importante. Il settore bancario ha fatto molti progressi nell’ultimo decennio, ma permangono notevoli sacche di inefficienza e comportamenti non competitivi. L’ entrata di soggetti stranieri con quote di controllo contribuirebbe a introdurre più concorrenza, forme alternative di cultura aziendale, nuove tecnologie e servizi. Come in tutte le situazioni in cui la concorrenza è limitata artificialmente, alla fine chi paga è il consumatore, in termini di prezzo, qualità e varietà dei servizi bancari offerti al consumatore.

Quanto costa la mancata concorrenza ai consumatori?

Una ricerca di Capgemini ha calcolato il prezzo nel 2003 di una serie di “core banking services” (assegni e pagamenti, gestione del conto, anticipi e scoperti, e gestione degli errori) su un campione di 73 banche in 11 paesi (Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia). I risultati sono nella Tabella 1: come si vede, il prezzo medio di questi servizi nelle 6 banche italiane nel campione (le 6 maggiori banche italiane per attivi) è il più alto: € 206, contro una media nei paesi del campione di € 109. I dati per il 2004 verranno resi noti il 22 marzo di quest’anno. Il costo dei conti bancari, aggiustato nel 2004 per tenere conto della composizione tipica dei servizi bancari utilizzati dal consumatore medio in ogni paese, è ancora in Italia tra i più alti d’Europa, anche se con differenze meno marcate rispetto alla precedente ricerca.

Come riportato dal Sole 24 Ore di lunedì 21 febbraio, una ricerca di Mercer Oliver Wyman per l’ABI su 7 paesi (Italia, Spagna, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Regno Unito) è giunta ad una conclusione simile, pur qualificata in alcune direzioni. La ricerca tiene conto del prezzo effettivo pagato dai consumatori, che spesso si discosta da quello di listino, e dell’ uso di “pacchetti” che includono operazioni e servizi gratuiti; pur con questi aggiustamenti, il costo medio in Italia di un conto di deposito è di € 133, contro una media dei 7 paesi di 73. Anche escludendo il Belgio, l’Olanda e il Regno Unito, dove il modello di business è completamente diverso, l’ Italia ha un costo medio più alto che negli altri paesi.

I più alti costi al consumatore dei servizi bancari di base possono, almeno in linea di principio, essere compensati da uno spread minore tra tassi attivi e tassi passivi, cioè da una remunerazione più alta dei depositi per un dato tasso attivo. In effetti si nota una relazione inversa tra spreads e costi dei servizi bancari in tutti i paesi. Ma non in Italia. Sempre secondo la ricerca Capgemini, dopo la Germania nel 2003 avevamo infatti lo spread più alto di tutti i paesi del campione, 4,5 punti percentuali.

Indicazioni diverse – sui tassi di cambiamento piuttosto che sui livelli – si ricavano dai dati Eurostat (cfr. anche un recente lavoro di Giovanni Ferri e Ugo Inzerillo). Dal 1996 alla fine del 2004, il costo dei servizi bancari era aumentato del 78 percento in Italia, e del 28 percento nella media dei 15 paesi dell’ Unione Europea; esso era addirittura sceso del 30 percento nel Regno Unito. Anche negli ultimi tre anni coperti (dal 2002 al 2004) l’ incremento dell’ indice è stato ben superiore in Italia rispetto alla media UE: 23 percento contro 9 percento.

Questo indice include anche operazioni non al dettaglio. Un dato utile riguardo alle operazioni al dettaglio si può desumere dalla componente “servizi bancari” nell’ indice dei prezzi al consumo ISTAT. Rispetto al 1998, l’indice dei servizi bancari a fine 2004 è aumentato del 48 percento, contro un aumento del 17 percento dell’ indice generale dei prezzi al consumo.

Una terza fonte di informazioni per un confronto internazionale è il rapporto “Public Opinion in Europe: Financial Services” della Commissione Europea. La tabella 2 mostra alcune domande che si riferiscono alle banche, e la percentuale delle risposte “difficile o molto difficile” in Italia e nella media dei paesi Europei; la tabella mostra inoltre il numero dei paesi in cui la percentuale di risposte “difficile o molto difficile” eccede la percentuale italiana.

Questo tipo di investigazioni va preso con cautela: le risposte possono essere influenzate da fattori culturali di cui le banche non sono responsabili. Tuttavia, esse offrono indicazioni interessanti. Come si vede, in tutti i casi la percentuale italiana è superiore a quella della media dei paesi. In alcuni casi (come la trasparenza delle informazioni e il potere contrattuale nel caso di dispute con la propria banca) la differenza è sostanziale.

Quindi che fare?

Il sistema bancario italiano ha indubbiamente compiuto notevoli progressi negli ultimi anni, grazie anche alle direttive dell’Unione Europea che ci hanno imposto di liberalizzare gli sportelli, portando ad un loro forte incremento. Ma un confronto internazionale sui livelli dei costi dei servizi offerti ci dice che rimane ancora molto cammino da compiere. In questo quadro, chiudere le porte alla concorrenza estera può essere pericoloso.

E a chi affidare la tutela della concorrenza bancaria? Da un lato, Bankitalia ha dato chiari segnali sulla propria posizione riguardo all’apertura del nostro sistema bancario a banche estere. Dall’ altro, alcune recenti nomine all’Antitrust fanno temere che questo istituto potrebbe non avere l’ autorevolezza e le competenze necessarie per occuparsi di un settore così cruciale. In assenza di questi problemi – che speriamo siano transitori – la scelta ricadrebbe a favore dell’Antitrust.

Tabella 1: costo dei servizi bancari di base e spread

Italia

USA

Norvegia

Canada

Spagna

Francia

Germania

Svezia

Belgio

Regno Unito

Olanda

Costo annuale dei Servizi Bancari di Base, in Euro

206

175

156

117

104

102

102

88

60

56

31

Spread tra tassi attivi e passivi

4.5

2.7

1.5

1.6

2.2

4.1

6.2

2.6

Fonte: Capgemini, “World Retail Banking Report 2004” , con successive modifiche

Tabella 2: inchiesta Commissione Europea

Italia

EU15

Paesi con percentuale di risposte positive superiore all’ Italia

Confrontare informazione tra banche sulle caratteristiche e i costi dei conti è difficile o molto difficile

62

50

1 paese

Conoscere in anticipo il costo di un prestito dalla banca è difficile o molto difficile

44

43

5 paesi

Cambiare banca è difficile o molto difficile

22

21

3 paesi

Vincere una disputa con la banca è difficile o molto difficile

83

76

Nessuno

L’ informazione da istituzioni finanziarie è chiara e comprensibile: non sono d’ accordo

66

58

1 paese

Fonte: “Public Opinion in Europe: Financial Services”

Settore bancario, la miglior difesa è l’attacco, di Carlo Maria Pinardi e Lorenzo Stanca

Il dibattito sui futuri assetti del settore bancario in Italia e sulla gli orientamenti in materia della Banca d’Italia è attualmente focalizzato sull’apertura del nostro mercato ai gruppi esteri. Minore attenzione viene data a quale debba essere il modello di specializzazione delle nostre banche, soprattutto quelle maggiori. Eppure, si tratta di una questione cruciale, tanto più in una fase in cui l’economia italiana soffre per la scarsa capacità competitiva.

La debolezza italiana

E’ ormai evidente la concentrazione del sistema bancario italiano sulle attività al dettaglio a scapito di quelle “all’ingrosso” (corporate e investment banking). Questa tendenza pone i maggiori gruppi in una situazione di strutturale debolezza, con riflessi non secondari per tutto il sistema bancario italiano e per la competitività del paese nel suo complesso. Un sistema economico privo di un’industria domestica di investment banking non fa certo a meno di tali servizi: li riceve dai gruppi bancari internazionali. Ma è facilmente intuibile che, rispetto a soggetti esteri, banche di matrice italiana hanno un interesse maggiore nel promuovere la crescita e lo sviluppo delle nostre imprese, in quanto queste costituiscono una porzione prevalente del loro portafoglio crediti e rappresentano comunque la componente core della clientela. A conferma di ciò, vi è l’interesse dei maggiori paesi europei nel supportare le banche di investimento domestiche.
La debolezza delle banche italiane nel settore all’ingrosso è generalmente data per acquisita. Alla luce di una serie di vincoli oggettivi in prevalenza di natura dimensionale, si dà ormai per scontato che nell’unificato mercato dei capitali europeo, i gruppi italiani debbano giocare un ruolo marginale nelle attività di corporate e di investment banking.
Ma è proprio così? Certo, la quota di mercato dei soggetti italiani nel mercato bancario europeo all’ingrosso si colloca su valori di gran lunga inferiori al peso relativo della nostra economia (per esempio, circa il 2 per cento nei collocamenti azionari ed obbligazionari nel 2004 del grafico 1). E la ridotta quota di mercato delle banche italiane nella attività di capital market nell’area dell’euro è in qualche modo correlata alla loro ridotta dimensione. Ma le banche italiane hanno un ruolo decisamente marginale anche nel mercato domestico, come mostrano i dati citati dal governatore Fazio all’incontro annuale con gli operatori finanziari a Modena il 12 febbraio: dal gennaio 2000 al giugno 2004, oltre il 70 per cento dell’ammontare delle circa 200 emissioni effettuate da imprese italiane sull’euromercato, è stato collocato da banche estere, che svolgono anche “un ruolo preponderante nelle operazioni di fusione e acquisizione nel nostro mercato”.

La posizione del governatore

Lo stesso governatore, peraltro, sembra preferire uno scenario in cui le banche italiane si concentrano sull’attività al dettaglio, esaltando la loro funzione di “reti”. Infatti dal discorso modenese di Antonio Fazio si ricava che:

1) non si debba procedere a ulteriori consolidamenti nell’ambito dei maggiori gruppi, per evitare il rischio di conseguimento di posizioni dominanti limitative della concorrenza ed essendo dubbi i guadagni di efficienza derivanti dalle accresciute dimensioni;
2) si debbano rafforzare, tramite possibili aggregazioni, gli attori di dimensione media essenziali per la vicinanza al mondo dell’impresa locale;
3) non siano prioritarie integrazioni internazionali, perché con buona probabilità anch’esse “poco efficienti”.

Un ruolo nel corporate e investment banking

Nel segmento all’ingrosso le banche italiane hanno certo un problema di natura dimensionale (vedi grafico 2) ed è evidente che la strada della pur complementare crescita interna richiede tempi eccessivamente dilatati. Se dunque escludiamo fusioni tra i grandi, vuol dire che ci si orienta sulla difesa delle banche/reti, lasciando agli operatori esteri il settore all’ingrosso.
Ma il ritardo accumulato dagli operatori di casa nostra è davvero incolmabile? Le cose non stanno così. Come argomentato nel più articolato allegato “Banche italiane e investment banking: quale futuro?”, la recente esperienza mostra che il mercato europeo del corporate e investment banking non è affatto impenetrabile. Il successo di players regionali europei (Barclays e Royal Bank of Scotland, tra gli altri) che in pochi anni hanno raggiunto posizioni di assoluto rilievo, fa ritenere che vi sia ancora spazio per operatori italiani che sappiano cogliere la sfida. L’emergere di uno o più grandi gruppi bancari italiani porrebbe le premesse per affiancarsi a quelle britanniche, tedesche, francesi e olandesi. In quest’ottica, i costi legati ai problemi derivanti dalla fusione di grandi gruppi (emergere di posizioni dominanti in alcune regioni e costi organizzativi) sarebbero di gran lunga compensati dai benefici che ne conseguirebbero per l’intera economia. Una presenza italiana di rilievo nel segmento all’ingrosso sarebbe oltre tutto estremamente utile per favorire quel processo di crescita dimensionale delle medie imprese italiane che tutti auspicano. Va sottolineato, poi, che l’esperienza mostra che in un eventuale processo di consolidamento continentale le banche più forti nell’attività all’ingrosso tenderebbero ad agire come poli aggreganti.
Last but not least, lo sviluppo delle funzioni di investment banking porterebbe a sfruttare le economie di scala e a dare un senso strategico all’ottima posizione di leadership raggiunta dal sistema bancario italiano nella “Nuova Europa” che altrimenti rischierebbe di risolversi in un investimento in partecipazioni pur importanti, ma non integrate tra loro. Avere nell’industria finanziaria “fabbriche prodotto” – quelle a maggior valore aggiunto – localizzate in Italia è una sfida alla nostra portata. Ogni sforzo andrebbe compiuto da parte dei protagonisti, soggetti istituzionali in primis, per favorire il nascere di attori italiani in grado di occupare un ruolo di rilievo a livello continentale. Forse, mai come in questo caso si può affermare che la miglior difesa è l’attacco.

GRAFICO 1- QUOTE DI MERCATO DELL’ATTIVITA’ DI BOOK RUNNING DI BOND DENOMINATI

IN EURO NEL 2004 SUDDIVISE PER NAZIONALITA’ DEI GRUPPI BANCARI

GRAFICO 2- ASSET TOTALI DELLE PRIMARIE BANCHE EUROPEE E QUOTE DI MERCATO

DELL’ATTIVITA’ DI BOOK RUNNING DI BOND DENOMINATI IN EURO NEL 2004

Le banche estere sono cattive?, di Alberto Franco Pozzolo

Nel tradizionale discorso al Forex (http://www.bancaditalia.it/interventi_comunicati/integov), il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, ha risposto alla lettera pubblica con la quale il commissario Ue al Mercato interno, Charlie McCreevy, aveva chiesto rassicurazioni sul suo impegno a favore di un sistema bancario in cui le partecipazioni azionarie estere sono valutate allo stesso modo di quelle italiane. Il governatore ha affermato che “la Banca d’Italia esamina ogni ipotesi che le viene sottoposta di aggregazione o di rilevante partecipazione al capitale, tra banche italiane, di banche italiane in banche estere, di banche estere in banche italiane” e ha rimarcato che sono presenti in Italia “importanti intermediari internazionali, in una proporzione maggiore rispetto ad altri sistemi bancari europei”, segnatamente quello tedesco, quello francese e quello spagnolo.

Una presenza dannosa?

La questione sembrerebbe quindi risolta, con una pubblica affermazione a favore dell’apertura dei mercati e la dimostrazione che quello italiano è, nei fatti, ben più aperto di altri. Sono però soltanto dello scorso 14 gennaio le dichiarazioni attribuite al governatore, al presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia in difesa dell’italianità del nostro sistema bancario. Al di là della diatriba sull’effettivo grado di apertura, larga parte del dibattito degli ultimi mesi sembra dare per scontato che la presenza di istituti controllati da operatori esteri sia dannosa per il nostro sistema economico. Ma è vero? L’evidenza attualmente disponibile sembra indicare il contrario.
Come confermano anche le recenti acquisizioni effettuate da intermediari italiani nei paesi dell’Est Europa, l’espansione internazionale nel settore bancario si realizza principalmente attraverso l’acquisizione da parte di istituti più grandi e più efficienti, che operano in paesi finanziariamente più sviluppati, di banche più piccole e meno efficienti, localizzate in paesi con sistemi finanziari meno sviluppati. (1) È probabile che gli intermediari stranieri abbiano costi superiori rispetto a quelli locali, perché operano in contesti giuridici, istituzionali, culturali e linguistici diversi da quelli dei loro paesi d’origine. Ma pare evidente che se decidono di effettuare un’acquisizione è perché confidano che grazie alla loro maggiore efficienza realizzeranno profitti adeguati. Nel paese di destinazione dell’investimento estero si avrà una crescita dell’efficienza complessiva del sistema bancario. Come dimostra l’amplissima letteratura sulla relazione tra sviluppo finanziario e crescita reale, questo avrà effetti fortemente positivi sull’intero sistema economico. Peraltro, argomenti assai simili sono stati utilizzati, correttamente, contro chi auspicava la difesa delle banche del Mezzogiorno dalle acquisizioni dei più efficienti intermediari del Centro-Nord.

Pro e contro la nazionalità

La richiesta di reciprocità nell’apertura internazionale dei sistemi bancari, un’argomentazione già ampiamente criticata dalla letteratura sul protezionismo commerciale, appare in questo contesto infondata, perché non costituisce una condizione necessaria affinché un paese tragga benefici dalla presenza di più efficienti intermediari esteri. Esistono altre motivazioni, oltre a quella della reciprocità, a favore della difesa della nazionalità dei sistemi bancari? Un primo argomento, avanzato da alcuni osservatori, è che le banche estere avrebbero come unico obiettivo l’ingresso nei segmenti di mercato più profittevoli, quelli dei servizi al dettaglio, e ridurrebbero invece il flusso di finanziamenti alle imprese produttive, in particolare quelle medie e piccole. Anche questa argomentazione appare però debole. Da un lato, se il finanziamento delle piccole imprese non fosse un’attività profittevole, non si vede perché dovrebbe essere effettuato dalle banche italiane che, in seguito alla privatizzazione realizzata nel corso degli anni Novanta, hanno come unico obiettivo la massimizzazione del valore per i loro azionisti. Dall’altro lato, se le banche estere riducessero i finanziamenti alle imprese medie e piccole perché sono meno efficienti nel valutarne il merito di credito, non si vede perché altri intermediari nazionali non dovrebbero occupare gli spazi rimasti liberi. In effetti, un simile andamento si è registrato proprio in seguito alle operazioni di concentrazione realizzate in Italia nello scorso decennio, con la crescita della quota delle banche piccole e minori sul totale dei prestiti ai residenti dal 16,3 per cento nel 1992 al 30,8 nel 2003. (2)
Un secondo argomento, comune a larga parte della letteratura sul protezionismo commerciale, sottolinea la necessità di difendere i settori in temporanea difficoltà. Secondo questa interpretazione, il sistema bancario italiano, pur essendo uscito con successo da una radicale ristrutturazione, non sarebbe ancora pronto per fronteggiare la concorrenza delle grandi banche europee. Tra qualche anno, esso sarà invece in grado di difendersi autonomamente dalle pressioni degli intermediari esteri, con l’indubbio vantaggio che i profitti dell’attività bancaria rimarranno nel nostro paese.
A patto che si chiarisca quali passi ulteriori devono compiere le banche italiane per potersi confrontare con quelle europee, l’argomentazione appare condivisibile. Ma è allora possibile, come vorrebbero alcuni, considerare terminata la ristrutturazione del sistema bancario italiano?

(1) Cfr. “The Patterns of Cross-Border Bank Mergers and Shareholdings in the Oecd Countries”, Journal of Banking and Finance, vol. 25, n. 12, December 2001, pp.2305-2337 e “Where Do Banks Expand Abroad? An Empirical Analysis“, Journal of Business, vol. 79, n. 1, January 2006 (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=301644), di Dario Focarelli e Alberto Franco Pozzolo.

(2) Cfr. “The effects of bank mergers on credit availability: evidence from corporate data”, Banca d’Italia, Temi di Discussione del Servizio Studi, n. 479 (http://www.bancaditalia.it/ricerca/consultazioni/temidi/td03/td479/td_479/tema_479_03.pdf), di Emilia Bonaccorsi di Patti e Giorgio Gobbi.

Un Governatore è per sempre, di Marco Onado

La pax bancaria, improvvisamente scoppiata fra Governo e via Nazionale con le dimissioni di Tremonti ha mandato in soffitta anche tutta la parte di riforma relativa all’architettura dei poteri di vigilanza e al mandato del Governatore. La riforma, se mai si farà, sarà realizzata a pezzi e bocconi, utilizzando i veicoli legislativi più improbabili: dalla legge comunitaria alla riforma degli ordini professionali. Del resto, meglio non parlare per non mettere in pericolo il faticoso compromesso raggiunto.

Quaeta non movere

Ma proprio la parte cui oggi si rinuncia aveva un senso economico profondo: i poteri di regolamentazione non sono coerenti né con la teoria economica, né con la prassi di altri paesi, né con la necessità (pure invocata dalla nostra legge) di non duplicare i costi di regolamentazione. Sono coerenti solo con il monito (non a caso scritto da sempre sotto la testata dell'”Osservatore Romano”) quaeta non movere. Analoghe considerazioni valgono per il vertice della Banca d’Italia, il cui Governatore è l’unico nel mondo occidentale a non avere un termine al suo mandato, né un limite per il pensionamento. Ed è anche l’unico ad avere potere assoluto in casa propria e a non doversi confrontare con nessuna struttura collegiale. E come non bastasse, la Banca d’Italia è l’unica ad avere un capitale in mano a soggetti privati (le fondazioni ex bancarie) che hanno interessi rilevanti nelle stesse banche controllate.

La questione dell’indipendenza

Si è sostenuto che una soluzione così anomala si giustifica con il bene supremo dell’indipendenza della banca centrale dall’esecutivo, che è fondamento anche del Trattato europeo e dell’unione monetaria. Le obiezioni al riguardo sono sia di carattere storico, sia di carattere istituzionale.
L’obiezione storica è che, nonostante questa garanzia di indipendenza, il deficit pubblico italiano è dilagato ai livelli che tutti conosciamo e solo nel 1981, all’inizio del Governatorato Ciampi, avvenne il cosiddetto “divorzio” fra banca centrale e Tesoro che realizzava davvero l’indipendenza della politica monetaria.
L’obiezione istituzionale è che se siamo soddisfatti delle garanzie di indipendenza previste dal Trattato europeo, basta adottare per la Banca d’Italia le stesse soluzioni previste per la Bce e cioè un mandato non rinnovabile di otto anni per il Governatore.
Nessuno ha finora spinto la sua audacia a proporre anche la nomina di un comitato direttivo.
La semplice proposta di un mandato a termine ha fatto gridare allo scandalo, anche perché improvvidamente si era introdotta nel disegno di legge di riforma una norma transitoria in base alla quale, se la legge fosse stata approvata, si sarebbe dovuto procedere immediatamente alla nomina di un nuovo Governatore. La Bce, in un parere ufficialmente richiesto dal Governo, osservò che ciò non era conforme al Trattato in quanto appariva come una revoca ex lege del mandato e bocciò sonoramente quella norma transitoria. Non andava neppure bene la soluzione di garantire all’attuale Governatore ulteriori otto anni di mandato (il che, va ricordato, gli avrebbe consentito di essere il Governatore più longevo dell’era moderna). Si arrivò così all’ulteriore faticoso compromesso politico secondo cui comunque la riforma non avrebbe dovuto avere effetto retroattivo e non avrebbe potuto toccare il Governatore in carica.
Il ginepraio giuridico è dunque tale da rendere “Comma 22” un gioco da ragazzi e questo spiega perché a un certo punto l’interesse generale sia scemato di colpo. Il tema dell’indipendenza della nostra banca centrale è però troppo importante per abbandonarlo ai ricordi di una stagione politica particolarmente turbolenta e anche per ridurlo alla questione, per quanto intricata, del mandato del Governatore.

L’autogoverno non basta

La struttura della Banca d’Italia, al cui capitale partecipano soggetti che hanno interessi rilevanti in banche vigilate dalla Banca d’Italia, crea problemi affatto nuovi rispetto al passato che non possono essere affidati a istituzioni di autogoverno come il consiglio superiore della Banca d’Italia e le altre previste dall’attuale statuto della banca centrale. Il rischio che ne deriva è, nella definizione più soave, quello della regulatory capture, cioè di un organo di vigilanza troppo attento agli interessi, compresi quelli meno nobili, dei soggetti vigilati e che conferisce robustezza granitica a quelli che si usa chiamare “poteri forti”. La strenua opposizione che le banche italiane hanno fatto ai vari progetti di riforma dei poteri delle autorità è un indizio su cui Watson avrebbe meditato anche in assenza di Sherlock Holmes.
Tutto questo significa che con tutta probabilità in questa legislatura non si parlerà più né di mandato del Governatore, né di assetto complessivo della Banca d’Italia e tanto meno di architettura dei poteri di vigilanza. Ma il problema è solo rinviato e, se vorrà esercitare responsabilità di governo senza sudditanze nei confronti dei poteri forti, l’attuale opposizione dovrà affrontarlo per tempo.

Risposte lente e sbagliate, di Luca Enriques

Come negli Stati Uniti dopo Enron, la politica si è subito attivata per dare una risposta legislativa allo scandalo Parmalat. Non si può certo dire che alla velocità di reazione iniziale abbiano fatto seguito risultati altrettanto rapidi.

Il rischio di far ancora peggio

Ma se si guarda ai contenuti delle proposte in discussione, si può solo essere sollevati dalla lentezza dei lavori parlamentari. Infatti, almeno finora, i nostri legislatori non hanno dimostrato di sapersi dare le giuste priorità né tanto meno di voler rendere un servizio al mercato finanziario e agli investitori. Al contrario, la loro azione è parsa finora fornire involontaria conferma alle tesi di un economista americano, Fred McChesney, che descrive l’attività dei legislatori come volta principalmente a minacciare leggi che danneggerebbero l’economia e specifici gruppi d’interesse, per ottenere consenso o finanziamenti elettorali in cambio della mancata approvazione. (1)

Così, per fare qualche esempio, voler restituire alla Consob il potere di ammissione a quotazione è una mossa che per certo danneggia la Borsa Italiana, ma non è chiaro né cosa ciò c’entri con Parmalat (ammessa in Borsa ai tempi in cui questa era pubblica e sull’ammissione decideva la Consob) né quali vantaggi ne derivino al mercato finanziario italiano; imporre un amministratore di minoranza a tutte le società quotate vuol dire esporre molti consigli di piccole società ai possibili ricatti di rappresentanti di fondi speculativi senza un chiaro vantaggio rispetto alla più prudente scelta del Tuif di prevedere sindaci di minoranza. Deprecabile è poi che lo scandalo Parmalat abbia costituito un pretesto per colpire o per ingraziarsi la principale autorità di vigilanza e, soprattutto, il suo governatore.
Inoltre, i progetti di legge in discussione si limitano ad aggiungere regole senza avere il coraggio di fare pulizia di quelle inutili o controproducenti, che certo non mancano nel nostro ordinamento.
Ancora a titolo di esempio, si pensi alla proposta di spostare in capo alla nuova Autorità dei mercati finanziari (Amef) (posto che sopravviva nell’ultima versione del decreto) il potere di controllo sull’emissione di strumenti finanziari, che oggi spetta alla Banca d’Italia per finalità di tutela dell’efficienza dei mercati, invece di sopprimerlo tout court. Questo potere, infatti, o è ormai inutile (se usato per far fronte a possibili scompensi tra domanda e offerta di attività finanziarie) o è in contrasto con l’ordinamento comunitario (se usato per tutelare gli investitori introducendo un controllo preventivo di rischiosità delle operazioni, come naturalmente sarebbe incline a fare, per missione, l’Amef). Ed è dannoso perché già in passato ha talvolta indotto emittenti stranieri a non offrire i propri strumenti finanziari sul mercato italiano, così da evitare le lungaggini collegate al rilascio dell’autorizzazione: in questo modo, si precludono agli investitori italiani opportunità di investimento potenzialmente interessanti.

Europa ignorata

Da ultimo, il Parlamento ha finora discusso di questi temi sostanzialmente ignorando gli sviluppi comunitari, ad eccezione della direttiva sugli abusi di mercato, per cui sta scadendo il termine di recepimento.
In questa materia la Comunità europea sta delineando un nuovo quadro ben definito di regole che in vari settori (prospetti, servizi d’investimento, informazione societaria) taglierà fuori i legislatori nazionali: che senso ha oggi introdurre nuove regole non in linea con quelle che si dovranno recepire entro un paio d’anni,ad esempio in materia di collocamenti privati?
Ci si potrebbe perfino chiedere se sia il caso di muoversi ora con un intervento dettato dall’urgenza di rimediare agli scandali finanziari recenti. E ciò a maggior ragione se si considera che è necessario non illudersi sul fatto che nuove regole possano evitare nuove frodi finanziarie. La normativa sui mercati finanziari in risposta agli scandali ha qualcosa in comune con gli eserciti sconfitti: come questi vengono di volta in volta riorganizzati in modo da vincere la guerra che hanno appena perduto piuttosto che la successiva, così quella sarà sempre inadeguata di fronte alle forme imprevedibili che assumeranno le frodi che verranno.

Rimediare ai difetti della disciplina

Ciò nondimeno, una riforma della legislazione finanziaria in Italia, come già negli Stati Uniti dopo Enron, resta urgente. Se ben fatta, può servire a dimostrare agli investitori, soprattutto stranieri nel nostro caso, che il sistema politico ed economico italiano è consapevole della gravità di quanto è successo e vuole voltare pagina, colmando quei “buchi” e quei difetti della disciplina che più direttamente hanno agevolato i comportamenti illeciti o scorretti nei casi Parmalat e Cirio e prestando attenzione nel contempo a non accrescere ingiustificatamente il peso della regolamentazione sul funzionamento dei mercati.
Poche novità, ma ben congegnate, tali da non sconvolgere l’operatività quotidiana delle imprese e soprattutto agevolmente collegabili agli eventi del caso Parmalat, sarebbero necessarie e sufficienti per dare il segnale di serietà richiesto dai mercati: la chiusura di alcuni buchi, come la possibilità di quotarsi mediante fusione con una società quotata ormai inattiva così da evitare la trasparenza assicurata dal prospetto, o l’assenza di un obbligo di avvalersi di un unico revisore a livello consolidato o la facilità con cui titoli collocati privatamente possono finire nelle tasche dei piccoli risparmiatori; l’aumento delle ridicole sanzioni penali e amministrative per il falso in bilancio e per le violazioni del Tuif; il rafforzamento della Consob soprattutto sul piano delle risorse umane,in termini di qualità prima ancora che di quantità.
In più, si potrebbe pensare di introdurre regole apprezzate dal mercato senza imporle indiscriminatamente. Ogni società è diversa dalle altre e ciò che avrebbe consentito (forse) di evitare una frode alla Parmalat potrebbe costituire un grave vincolo all’operatività delle tante altre rette da persone rispettabili e attente agli interessi degli investitori: perché allora invece di discutere se imporre una maggioranza di amministratori indipendenti e/o l’approvazione da parte dell’assemblea delle operazioni con parti correlate, non prescrivere la seconda alle sole società che non abbiano una maggioranza di indipendenti? (2)

(1) F. McChesney, Money for Nothing, Cambridge-London, 1997.

(2) E sempreché il consiglio sia composto da un numero massimo di amministratori: come notava di recente Colin Mayer a Bruxelles, durante un convegno sponsorizzato da una società italiana all’avanguardia nella corporate governance, è inutile infatti elevare il numero di indipendenti innalzando al contempo il numero complessivo degli amministratori, poiché ciò che così facendo il cda guadagna in indipendenza dal management lo perde in efficacia.

Tre punti critici e un Ddl, di Stefano Micossi

L’esame del disegno di legge per la tutela del risparmio inciampa di nuovo, con le dimissioni del relatore di maggioranza, in un clima rarefatto nel quale le truppe dei sostenitori sembrano ogni giorno assottigliarsi.
Eppure, il provvedimento resta necessario e urgente. Sul fronte internazionale, perché l’immagine del mercato finanziario è stata seriamente ferita, e il danno deve essere riparato. Sul fronte interno, perché l’incapacità di dotarci di regole e strumenti di vigilanza adeguati a prevenire nuovi scandali come Cirio e Parmalat aprirebbe ancora una volta la strada alle soluzioni giudiziarie, con gravi danni per l’ordinato funzionamento del sistema finanziario.
Tre sono le questioni che il disegno di legge, a mio avviso, deve affrontare correttamente per raggiungere i suoi scopi.

Il fallimento dei controlli

La prima questione riguarda l’equilibrio degli interventi nel rimediare ai fallimenti emersi nel sistema dei controlli. Tali fallimenti interessano due aspetti: i controlli interni ed esterni degli emittenti e il rispetto dei doveri fiduciari degli intermediari e delle reti di collocamento di prodotti finanziari nei confronti dei risparmiatori.

Sul primo aspetto, il disegno di legge, almeno nel suo testo attuale, interviene persino in modo troppo drastico: impone per legge la separazione delle persone del presidente del consiglio di amministrazione e dell’amministratore delegato (articolo 1), attribuisce al collegio sindacale effettivi poteri di revoca degli amministratori (articolo 3), affida ai pubblici poteri la sorveglianza sull’attuazione del Codice di autodisciplina e ne sanziona penalmente le “false dichiarazioni”. Tali previsioni non hanno parallelo negli ordinamento stranieri più rigorosi.

In questo ambito, il recepimento della direttiva europea sugli abusi di mercato (articolo 13) e i nuovi poteri dell’autorità di vigilanza sui mercati (Amef) – purché effettivamente esercitati – già garantiscono un adeguato rafforzamento del sistema.

Invece, il provvedimento potrebbe essere reso più incisivo negli interventi a diretta tutela dei risparmiatori: non solo escludendo la possibilità del collocamento ai privati di titoli riservati all’emissione agli investitori istituzionali per un periodo di almeno dodici mesi, ma introducendo esplicite previsioni sul rispetto dei doveri fiduciari verso i clienti da parte di chiunque distribuisca prodotti finanziari al pubblico. Sulla scorta dell’esperienza inglese, questa previsione è ora inclusa nella nuova direttiva europea sui servizi di investimento, che comunque dovrà essere trasposta nell’ordinamento italiano. Faremmo bene ad anticiparne l’applicazione a tutti gli intermediari e le reti di distribuzione dei prodotti finanziari .

Le funzioni di vigilanza

La seconda questione riguarda il riordino delle funzioni di vigilanza sui mercati per linee funzionali, attribuendo ad autorità separate i controlli di trasparenza sugli emittenti e il mercato, i controlli prudenziali e quelli di concorrenza.

In nessun paese europeo la banca centrale esercita anche i controlli di concorrenza. Quanto ai controlli di trasparenza, l’esclusione dei prodotti finanziari e assicurativi dall’obbligo di prospetto porta non poche responsabilità dei danni inflitti ai risparmiatori. Inoltre, il nostro sistema di vigilanza specializzata per intermediari è esposto a rischi rilevanti di “cattura” dell’ente vigilante da parte dei soggetti vigilati, come del resto è confermato dalla strenua difesa del sistema attuale di vigilanza per settore da parte delle banche e delle società di assicurazione.

Qui il fuoco di sbarramento nelle ultime settimane è divenuto molto intenso. I target principali sono gli articoli del disegno di legge che attribuiscono all’autorità antitrust i poteri di concorrenza sul sistema bancario (articolo 59) e applicano alla banca centrale i principi generali sulla motivazione dei provvedimenti amministrativi (articolo 22 e 23). L’obiettivo è evidente: si vuol salvaguardare la possibilità di continuare a usare la “moral suasion” nel governare la struttura proprietaria e i processi di concentrazione nel sistema bancario, in contrasto con i principi europei sulla mobilità dei capitali.

L’indipendenza delle autorità di controllo

La terza questione, infine, riguarda l’indipendenza delle autorità preposte alla vigilanza sui mercati. Al riguardo, si profilano due pericoli di segno opposto. Da un lato, le procedure di nomina e revoca dei commissari negli organi collegiali di vigilanza rischiano di comprometterne l’indipendenza. In particolare, la previsione di una maggioranza super-qualificata – due terzi della Commissione parlamentare di sorveglianza, articolo 24 – per la conferma parlamentare del governatore della Banca d’Italia e del presidente dell’Amef, è suscettibile di determinare impropri scambi politici nella scelta del candidato e degli altri membri del collegio. Le norme sulla revoca dei commissari della istituenda Amef assomigliano pericolosamente a quelle del Consiglio della Rai, laddove è prevista la decadenza del collegio in caso di dimissioni o revoca della maggioranza dei commissari (articolo 33).

Dall’altro lato, andrebbero respinte anche le pretese di coloro che si oppongono all’introduzione di appropriate procedure di responsabilità – accountability – delle autorità indipendenti nei confronti del Parlamento. Da questo punto di vista, non basta l’indicazione nella legge degli obiettivi dell’autorità nella legge. L’autorità deve anche essere chiamata a spiegare come ha usato i propri poteri per realizzare tali obiettivi, sottoponendosi al giudizio del Parlamento e dell’opinione pubblica. La formulazione attuale del disegno di legge qui appare soddisfacente; ma l’assalto di chi vuole un potere amministrativo autonomo, sottratto allo scrutinio del Parlamento, è vigoroso.

Il testo preparato dai relatori del provvedimento davanti alle commissioni della Camera costituisce una eccellente base di lavoro, ma richiede di essere “ripulito” da molte formulazioni imprecise e ridondanti e, in qualche caso, di cedimenti populistici dei quali non v’è bisogno.
Un comitato ristretto incaricato di redigere rapidamente una versione finale per l’approvazione delle commissioni e, poi, dell’assemblea, sarebbe garanzia di solidità e qualità giuridica in materie tanto tecniche quanto delicate.

Se non ora quando?, di Marco Onado

“La Banca motiva, da sempre, le sue decisioni. Sistematicamente, con la diffusione di relazioni e studi nelle sedi istituzionali, rende conto delle proprie analisi e del proprio operato”. Con queste parole il governatore ha risposto, con encomiabile orgoglio istituzionale, a quanti giudicano inadeguata l’accountability della nostra banca centrale.
La risposta però coglie solo parzialmente il punto: è vero che la Banca d’Italia segue scrupolosamente norme e tradizioni attuali (e ci mancherebbe, si potrebbe aggiungere), ma occorre chiedersi se queste siano adeguate alla odierna realtà economica e politica in cui operano le banche centrali.

Il significato di una parola

In un saggio, breve ma molto efficace, un autentico “decalogo” delle banche centrali (1), Tommaso Padoa Schioppa ricorda che essere accountable significa “non solo essere ritenuto responsabile delle proprie azioni, ma anche essere tenuto a giustificare e spiegare azioni e decisioni. L’accountability è un elemento essenziale e costituente di un ordine politico democratico.
In tale ordine, le istituzioni che hanno il potere di influire sulla vita e il benessere della comunità devono essere soggette allo scrutinio dei cittadini e dei loro rappresentanti eletti”.
Se si condivide questa impostazione, le conclusioni da trarre sono almeno due:

a) le attuali forme in cui la Banca d’Italia rende conto del proprio operato sono fondamentalmente basate su esposizioni unilaterali, quasi “ex cathedra”, come la cerimonia del 31 maggio;
b) l’accountability coinvolge il concetto di responsabilità, dunque rinvia anche ai meccanismi di nomina e di funzionamento dei vertici di un’istituzione.

La cerimonia del 31 maggio

Lasciando da parte il secondo problema, vale la pena di interrogarsi sulle modalità con cui oggi la Banca d’Italia espone pubblicamente le ragioni del proprio operato, a cominciare proprio dalla lettura delle Considerazioni finali.
La cerimonia del 31 maggio ha assunto un ruolo fondamentale nella tradizione della Banca d’Italia, soprattutto dai tempi di Guido Carli e si è caratterizzata per due elementi fondamentali: lo spessore analitico delle diagnosi, cui contribuiva un servizio studi che aveva pochi eguali nel panorama delle autorità monetarie dei principali paesi e l’indipendenza del giudizio rispetto alle pressioni di un potere politico sempre più ansioso di dare l’assalto alla diligenza della spesa pubblica. Qualcuno sostiene che la difesa nei fatti fu meno strenua di quella verbale, ma questo nulla toglie al salto di qualità che Guido Carli diede alle Considerazioni finali, trasformando una relazione di bilancio in uno dei documenti più importanti e attesi della vita economica nazionale.

L’infame attacco alla Banca d’Italia del 1979 diede l’occasione a Paolo Baffi di aggiungere all’analisi economica una delle pagine più alte di rigore morale e di impegno civile, ma ebbe anche l’effetto di rendere tabù per oltre venti anni qualsiasi ipotesi di modificazione anche formale dei poteri della Banca d’Italia, del suo assetto istituzionale, persino delle sue manifestazioni di accountability.
Le Considerazioni finali hanno così continuato a svolgersi secondo la tradizione antica: sul piano dell’analisi economica sono stati gli anni del rientro dall’inflazione, del risanamento del deficit e dell’ingresso in Europa. Tre obiettivi centrati, che non erano affatto scontati nel momento in cui Carlo Azeglio Ciampi prese il timone della Banca d’Italia e su cui egli ha fondato con lucida coerenza le Considerazioni finali di quegli anni.
Allora, la loro solennità trovava quindi due forti giustificazioni: l’orgogliosa difesa delle tradizioni della Banca; il rilievo dei moniti per la classe politica responsabile dei rischi di dissesto finanziario che il Paese stava correndo in quegli anni. Il fatto poi che quei moniti siano serviti perché gli obiettivi sono stati raggiunti (a differenza di quanto era successo negli anni Sessanta) dimostra che quel rito non era affatto né vuoto né inutile. E, si ripete, se a esso non sono state aggiunte forme di accountability diverse, la colpa va ricercata nell’oscuro disegno che colpì i vertici della Banca negli anni bui della Repubblica.

L’esempio di altre banche centrali

Va naturalmente ricordato che il governatore e altri membri del Direttorio hanno spesso occasione di presentare al Parlamento, regolarmente o su invito, la posizione della Banca su temi generali (la Legge finanziaria in primo luogo) o specifici, come è accaduto in occasione dell’indagine conoscitiva sulla tutela del risparmio. Ma nessuna di queste forme assume la veste per così dire istituzionale di confronto dialettico sull’operato della Banca. Non accade così in altri paesi.

La Banca centrale europea è soggetta a forme di scrutinio molto più penetranti e aperte. Il suo rapporto annuale è infatti rivolto non ai partecipanti al capitale, come da noi, ma al Parlamento, al Consiglio e alla Commissione europea. Il Parlamento può richiedere un dibattito generale sul rapporto annuale.
Non solo: come si legge sul Bollettino della Bce (2), l’Eurosistema ha deciso di andare al di là di questi impegni, prevedendo regolari conferenze stampa al termine di ogni riunione mensile del consiglio direttivo.
Non meno stringenti sono le forme di accountability della Fed (la banca centrale americana) fissate da una legge il cui titolo è tutto un programma “Government in the Sunshine Act” (che giunge a prevedere la pubblicità di alcune sessione del Board) e dal Federal Riserve Act, che impone una serie di appuntamenti del presidente del Board con varie commissioni parlamentari e un dibattito semestrale sull’azione della Fed.
Di tutto questo, si ripete, nella legislazione italiana non c’è traccia e non si vede quale vulnus alla tradizione della Banca d’Italia si avrebbe se l’atto più importante della sua accountability non fosse affidata solo a un monologo nelle dorate sale di palazzo Koch, seguito da altre considerazioni che, per quanto importanti come quelle di quest’anno, sono pur sempre quelle di un soggetto vigilato (nonché azionista).

Insomma: le prassi delle banche centrali sono ben diverse da quelle invalse in Italia. Se la fase storica che ha trascinato i suoi effetti velenosi almeno fino alla seconda metà degli anni Novanta, e che aveva fatto accantonare ogni riforma, è definitivamente superata, è ora di adottare assetti istituzionali (in termini di accountability, ma giova ripetere anche in termini di meccanismi di nomina e funzionamento) più vicini a quelli degli altri paesi.

Un buon motivo per inserire tutto questo nell’attuale disegno di legge sulla tutela del risparmio è dato da un indimenticabile libro di Primo Levi: “Se non ora, quando?”.

(1) Tommaso Padoa-Schioppa, An institutional glossary of the Eurosystem, intervento alla conferenza “The Constitution of the Eurosystem: the Views of the EP and the ECB”, 8 March 2000. Disponibile sul sito www.ecb.int.

(2) Bollettino Bce, luglio 1999.

La tela di Penelope della tutela del risparmio, di Michele Polo

La predisposizione definitiva del progetto di legge in materia di tutela del risparmio e disciplina dei mercati finanziari non si è ancora conclusa, dopo le emergenze di questo inverno sul caso Parmalat e Cirio. La duplice esigenza di assicurare una risposta rapida, ma anche organica e convincente, non ha quindi trovato ancora una sua composizione.

D’altra parte, l’intera vicenda sin dai suoi inizi ha avuto molte motivazioni diverse, che hanno non poco contribuito a renderne accidentato il percorso. La scelta di trattare i problemi di governance delle imprese e di conflitti di interesse degli operatori di mercato assieme alla riforma delle autorità di vigilanza non sembra favorire un celere percorso della riforma e l’individuazione di soluzioni sempre convincenti. Ma andiamo con ordine.

Un approccio più ampio

Da quando la voragine dei conti Parmalat e l’estensione delle malversazioni consumate in quella vicenda sono diventate di pubblico dominio, è emersa la chiara consapevolezza che un vasto insieme di sistemi di controllo aveva mostrato la sua palese inadeguatezza.

Partendo da quelli più interni, relativi al ruolo degli amministratori, degli azionisti di minoranza e dei sindaci, continuando con il mancato controllo delle società di revisione, per proseguire con il carente monitoraggio degli istituti di credito (nazionali ed esteri), concludendo con le insufficienti verifiche delle autorità preposte alla vigilanza sulla trasparenza (Consob) e sulla stabilità (Banca d’Italia).

La reazione iniziale, ultima testimonianza del basso profilo della politica nostrana, è nota ai lettori, e sintetizzata nella domanda con cui, all’inizio della vicenda, il caso veniva riassunto dal Governo: come poteva la Banca d’Italia ignorare quanto stava succedendo?

Va dato atto ai lavori delle commissioni riunite Finanze e Attività produttive della Camera dei deputati di aver ampliato l’iniziale approccio e considerato le molteplici dimensioni di riforma necessarie. Nel testo licenziato il 5 maggio 2004 si ritrovano essenzialmente tre nuclei di problemi, che riflettono la complessità delle problematiche emerse.

La prima può essere sintetizzata facendo riferimento ai problemi di governance delle imprese, e richiede una riconsiderazione dei sistemi di controllo interni (consiglio di amministrazione, amministratori indipendenti, collegio sindacale, tutela delle minoranze) e dei conflitti di interessi (in relazioni all’amministrazione e al finanziamento). La seconda investe il ruolo di soggetti terzi che operano nei mercati finanziari (intermediari finanziari, revisori contabili). Il terzo capitolo riguarda infine una riforma delle competenze e dell’organizzazione delle autorità pubbliche di vigilanza dei mercati finanziari, quello che era il piatto forte dell’iniziale proposta governativa.

La riforma delle authorities

Nonostante l’approccio organico che il progetto di legge ha oggi assunto, i veleni dell’iniziale impostazione, strumentalmente finalizzata a trovare un unico colpevole e una definitiva resa dei conti, rimangono nel testo e spiegano in gran parte l’allungamento dei tempi. La decisione di unire in un unico progetto i provvedimenti necessari per assicurare una governance più trasparente delle imprese e per contrastare i conflitti di interesse degli operatori sui mercati finanziari assieme con una riforma delle autorità di vigilanza, non sembra una scelta felice per diverse ragioni.

Innanzitutto, perché si è intervenuti su una materia, la riforma delle authorities, già in agenda nell’azione del Governo, con il progetto predisposto dal ministro Franco Frattini e poi portato avanti dal suo successore.

È bene ricordare che, al di là delle possibili critiche alla soluzione proposta dal Governo (si veda Autorità indipendenti: hanno ballato una sola estate), il progetto Frattini nasceva da una esigenza riconosciuta e condivisa, quella di regolare in modo organico e uniforme una serie di realtà nate in sequenza negli anni Novanta e caratterizzate da sovrapposizioni nelle competenze, funzioni simili applicate in settori contigui e grande eterogeneità nelle strutture. Il progetto di legge sulla tutela del risparmio, proponendo una riforma delle sole autorità in materia finanziaria, e adottando soluzioni disomogenee per i criteri di nomina e di governance, mantiene e aggiunge eterogeneità al quadro esistente, pur seguendo un condivisibile criterio di riorganizzazione delle autorità per funzioni (di vigilanza sulla trasparenza, sulla stabilità, sulla concorrenza).

In secondo luogo, procedere a una ridefinizione delle competenze nell’ambito di una riforma complessiva di queste istituzioni permetterebbe di mantenere un richiamo costante alla necessità di garantire (nel disegno di competenze, criteri di nomina, poteri e relazioni reciproche) l’indipendenza delle autorità dall’esecutivo. Questo non sembra avvenire in modo soddisfacente nel progetto di legge sulla tutela del risparmio, dove il ruolo del Cicr, della prevista commissione parlamentare di tutela del risparmio e l’intervento diretto del Governo nell’indicazione del presidente dell’Autorità per i mercati finanziari suggeriscono al contrario un possibile arretramento degli spazi di autonomia delle autorità indipendenti.

La scelta di affrontare la riforma delle autorità di vigilanza entro il testo sulla tutela del risparmio porta inoltre ad affrontare una serie di questioni che sono importanti in un ridisegno delle autorità (ovvio il riferimento ai criteri di nomina e alla durata del governatore della Banca d’Italia), ma che poco sembrano avere a che fare con la tutela dei risparmiatori.

Infine, il riordino delle authorities presuppone un riesame dello stesso ruolo di Banca d’Italia, tema delicato che la proposta di riforma Frattini prudentemente scelse di accantonare, e che invece va considerato. Predisponendo però un quadro di regole uniforme, entro il quale trattare anche il caso specifico della banca centrale.

L’occasione per separare le prime due parti dal riordino delle authorities potrebbe essere colta dalla necessità di recepire la direttiva 2003/6/Ce in materia di abusi di mercato.

Una possibile via di uscita dall’attuale impasse potrebbe essere quindi quella di scorporare la riorganizzazione delle competenze e della governance delle autorità in materia finanziaria riprendendo il percorso avviato dalla riforma Frattini, e completare l’iter del progetto di legge di tutela del risparmio per le altre parti. E in attesa di un riassetto complessivo delle autorità, si potrebbe procedere con il solo potenziamento dei poteri di indagine di Consob, uno dei punti delicati emersi nella vicenda Parmalat.

Gli obiettivi e gli strumenti, di Michele Grillo

Anche la saggezza proverbiale sa che “prendere due piccioni con una fava” è un esito di per sé non impossibile, ma comunque affidato a circostanze fortuite e fortunate.
La teoria economica – le cui proposizioni, come sostenne molti anni fa Paul Samuelson, poche volte trascendono l’ovvio (benché si muovano entro i suoi confini con grande eleganza) – avverte i responsabili della politica economica che non è cosa buona impiegare strumenti in numero inferiore agli obiettivi che si perseguono.
È naturale aggiungere: tanto meno lo è, se si possono avere a disposizione strumenti in quantità maggiore, e più acconci.

Le banche, la concorrenza e la stabilità

La relazione tra strumenti e obiettivi mette a fuoco un profilo importante di cui si è occupato l’Antitrust, il 29 gennaio scorso, davanti alla commissione bilaterale per un’indagine conoscitiva sulla tutela del risparmio, intervenendo in merito alla vexata quaestio su concorrenza e stabilità nel settore bancario.
Secondo la normativa vigente, l’acquisizione di una banca deve essere autorizzata sia dall’Autorità di concorrenza, la quale accerta che non si crei una “posizione dominante” nel mercato (articolo 20 della legge 287/90), sia dall’Autorità di vigilanza, la quale accerta che ricorrano le condizioni di una “gestione sana e prudente” della banca (articolo 19, comma 5, del Testo unico bancario).

Oggi, la Banca d’Italia è il soggetto che applica entrambe le norme. Si discute dell’opportunità di ripartire le competenze per “funzioni”: la concorrenza all’Antitrust, la stabilità alla Banca d’Italia.

Ma molte delle difficoltà all’origine della discussione potrebbero mantenersi immodificate, anche dopo una ripartizione delle competenze, fintanto che al perseguimento di due finalità distinte resta allocato un unico strumento “strutturale”, il controllo delle concentrazioni.

Circostanze e soluzioni diverse

Dinanzi alla commissione bilaterale, il governatore Antonio Fazio ha sostenuto la sinergia tra obiettivi di concorrenza e di stabilità. Ma tale sinergia sembra nascere dal ricorso allo stesso strumento, più che da una congruenza tra le due finalità.
Il divieto di una concentrazione che crea una posizione dominante potrebbe, infatti, porre problemi di stabilità se, per esempio, la banca acquisita dovesse essere a rischio di fallimento, con effetti di destabilizzazione del sistema dei crediti e dei debiti, nonché di una ampia dissipazione del capitale informativo incastonato nelle relazioni di clientela.

Specularmente, la crescita esterna di una banca, anche se non dà luogo a posizione dominante, potrebbe mettere a rischio la stabilità, se si realizza in forme che ne indeboliscono la “sana e prudente gestione”.
Il Testo unico paventa tale possibilità, non solo per la modifica del controllo, ma anche per la partecipazione di minoranza qualificata nel capitale di una banca.

È opportuno, allora, distinguere tra diverse circostanze. Nel caso di una concentrazione che crea una posizione dominante, ma può favorire la stabilità (per esempio, quando una grande banca ne acquisisce un’altra in difficoltà), l’Antitrust ha suggerito una soluzione semplice: l’Autorità di concorrenza potrebbe autorizzare l’operazione se, con parere motivato, l’Autorità di vigilanza mostra che essa è strettamente necessaria alla stabilità.

Questo schema di soluzione è ben conosciuto dal diritto antitrust (si veda il caso di autorizzazione di intese vietate) ed esiste una consolidata giurisprudenza sulla condizione di stretta necessità.

L’autorizzazione, inoltre, accenderebbe un riflettore su possibili comportamenti abusivi della banca in posizione dominante.

L’articolo 19

Diverso è il caso in cui la “gestione sana e prudente” della banca fosse messa a repentaglio da una modifica del controllo, o della sola partecipazione al capitale, di una banca, senza effetti negativi sulle condizioni di concorrenza nel mercato.

A ben vedere, l’articolo 19 del Testo unico, nel farsi carico di questa circostanza, tiene conto di due distinte preoccupazioni. Quando l’acquirente è un’impresa non bancaria è in gioco il principio di separazione tra banca e industria. L’intervento “strutturale” – autorizzare o vietare l’acquisizione – può essere uno strumento appropriato all’obiettivo di stabilità. Lo stesso strumento è irrilevante per la concorrenza, giacché acquirente e acquisita operano in mercati diversi. Quando l’acquirente è un’altra banca, assegnare all’obiettivo della “sana e prudente gestione” uno strumento “strutturale”, come fa il Testo unico, potrebbe, invece, condurre a un contrasto tra finalità di stabilità e finalità di concorrenza.

Nella legislazione antitrust, il principio che la banca è sottoposta, come ogni altra impresa, alle regole del mercato, si è consolidato quando è maturato il convincimento che, ai fini di stabilità, il ricorso a strumenti di regolazione prudenziale è preferibile alla regolazione strutturale.

Regolazione prudenziale significa che una banca deve soddisfare requisiti oggettivi e predeterminati di solidità patrimoniale e di integrità dei soggetti che partecipano al suo capitale. Ma tali requisiti devono essere verificati in ogni momento del processo evolutivo di una banca, e tutte le banche possono e devono essere, pertanto, ugualmente e costantemente vigilate, secondo i criteri della regolazione prudenziale, indipendentemente dal fatto che sia in gioco una fattispecie di concentrazione, che è invece tipicamente soggetta alla verifica di concorrenza.

È, allora, necessario fare risolutivamente i conti con l’articolo 19 del Testo unico bancario: per evitare che l’assegnazione di strumenti di regolazione strutturale (e non prudenziale) a fini di stabilità ostacoli il ridisegno dell’architettura dei controlli secondo un efficiente criterio di ripartizione delle competenze per funzioni.

Le qualità di un’Authority, di Francesco Vella

Il caso Parmalat rappresenta una grande opportunità e un grande rischio per l’ordinamento della finanza.

Opportunità e rischi

Nel corso della storia le crisi finanziarie, grandi o piccole che siano, sono sempre stati utili, anche se a volte tragici e costosissimi, stimoli per legislatori sonnolenti a occuparsi con più attenzione della tutela dei risparmiatori.
Il rischio è invece quello che l’incredibile gravità delle vicende sulle quali sta indagando la magistratura generi il classico polverone mediatico, utilizzato per far passare scelte confuse e affrettate, imposte più dai “bisogni” della politica che dalla reale consapevolezza dei possibili effetti sul funzionamento dei mercati e sulla prevenzione dei fenomeni di patologia.

Il dibattito sulle competenze delle autorità di controllo è emblematico di questo rischio-opportunità.

Da tempo, in molti paesi europei ed extraeuropei è in corso un processo di revisione delle competenze di vigilanza, fondato sulla sacrosanta convinzione della assoluta inadeguatezza degli attuali assetti istituzionali nel fronteggiare i rischi di instabilità degli intermediari e nel garantire condizioni di trasparenza sui mercati.
È un processo profondo, basato su una attenta e ponderata valutazione dei costi e dei benefici delle diverse soluzioni possibili. Ad esempio, sul tanto celebrato caso inglese, nessuno ha ricordato che l’ipotesi del “single regulator” era stata sottoposta agli elettori già nel programma del 1997 del Labour Party, e che il Financial Sevices and Markets Act è stato emanato nel 2000 dopo una fase di consultazione avviata nel 1998, che ha coinvolto tutti i soggetti interessati (studiosi, rappresentanti delle associazioni di categoria, esponenti politici eccetera). Fase di consultazione giustificata proprio dall’esigenza di dare un salutare, ma ben meditato ed efficiente, scossone a un sistema che aveva creato negli anni Novanta più di una preoccupazione e qualche doloroso salasso ai sudditi di Sua Maestà.

Un analogo percorso è stato seguito anche in altri ordinamenti che però sono giunti a risultati diversi.
Una volta superato il tradizionale modello settoriale, e cioè una suddivisione delle competenze della vigilanza per soggetti, poco funzionale in mercati finanziari sviluppati con intermediari multi-prodotto, la scelta è stata tra il regolatore unico e la suddivisione dei poteri di controllo sulla stabilità e sulla trasparenza tra due distinte autorità.

Un recente studio comparato della Banca centrale europea mette in evidenza come gli Stati Ue si siano indirizzati verso queste due soluzioni, mentre il modello settoriale prevale ancora nei nuovi aderenti alla Comunità. Lo stesso studio richiama però anche un significativo, e troppo spesso sottovalutato, dato “trasversale”: in tutti i sistemi (compresi quelli con il “single regulator”) permane comunque, anche se con diverse modalità, un forte coinvolgimento della banche centrali nella vigilanza sugli intermediari. (1)

Un sistema né carne né pesce

Il nostro apparato dei controlli non è né carne né pesce, perché in parte conserva una vocazione settoriale (si pensi ai controlli sulle assicurazioni) e in parte presenta una suddivisione per obiettivi, che però riguarda soltanto alcune attività di intermediazione. Si tratta, in sostanza di una “ibridazione” non certo efficiente, con molte aree grigie dove si possono annidare fenomeni elusivi.
La riforma, quindi, è un esigenza reale che deve essere soddisfatta tenendo conto delle peculiarità e della storia del nostro contesto istituzionale, delle caratteristiche dei mercati e dell’intermediazione. Finora, i numerosi studi compiuti e le prime rilevazioni sulle esperienze già avviate, non danno risultati definitivi sul modello ottimale di integrazione delle competenze di vigilanza.

Il “single regulator” può interloquire con maggiore incisività con i grandi operatori polifunzionali e ha il vantaggio di consentire maggiori economie di scala nell’attività di supervisione, prevenendo le difficoltà di coordinamento tra più autorità, e la nostra esperienza dimostra quanto siano rilevanti. Il rischio però è che una eccessiva concentrazione di poteri in un unico, nuovo soggetto solleciti gli appetiti della politica che potrebbe condizionarne l’autonomia e l’indipendenza. Inoltre, svolgere contemporaneamente missioni diverse con diverse metodologie di intervento può generare conflitti e non indifferenti problemi di governance interna (recentemente l’Fsa inglese ha rivisto la propria struttura organizzativa).
Il modello incardinato su due autorità presenta il vantaggio di una maggiore specificazione delle singole “missioni”, evitando la creazione di mega-strutture con tutti i relativi rischi di gigantismo burocratico.

La strada migliore

Per il nostro paese, è innegabilmente questa la strada più facilmente percorribile in tempi ragionevoli, perché in parte è già disegnata dalle norme del Testo unico della finanza: consentirebbe perciò una più rapida razionalizzazione del sistema, accorpando i controlli di stabilità nella Banca d’Italia, quelli relativi alla trasparenza nella Consob, e attribuendo nel contempo all’Antitrust tutte le competenze in materia di concorrenza.
Ma non sarebbe sufficiente: per rafforzare i presidi alla tutela del risparmio bisogna anche occuparsi di altri, forse più spinosi, aspetti della operatività dei controllori.
Una riforma che abbia l’ambizione di essere tale non può rinunciare a un ampliamento dei poteri di intervento e sanzionatori delle autorità, al quale deve però corrispondere una adeguata accountability, e soprattutto una più forte trasparenza dei processi decisionali e delle strutture di amministrazione e governo.

Occorre, in sostanza, creare gli strumenti per valutare le performance delle autorità, perché una vigilanza inefficiente rappresenta un costo, sia per i vigilati che per la collettività.
Naturalmente, qualsiasi intervento presuppone la condivisione di un valore comune, senza il quale ogni tentativo di riforma sarebbe oltre che inutile, pericoloso. Le autorità devono essere responsabili (e pagare quando sbagliano), ma libere da interferenze politiche, altrimenti non funzionano e perdono autorevolezza.
Può apparire un concetto ovvio, ma non è affatto scontato: un legislatore che, al di là dei proclami, volesse dare un segnale concreto in questa direzione, dovrebbe abolire del tutto organismi come il Cicr nei quali i rischi di interferenze sono fin troppo evidenti. Lo testimoniano proprio le ultime vicende nostrane.

(1) European Central Bank, Developments in National Supervisory Structures, June, 2003

Come riordinare i controlli, di Carmine Di Noia e Stefano Micossi

I fatti gravissimi della crisi Parmalat gettano nuovo discredito sul mercato finanziario e il sistema dei controlli dell’Italia, dopo il fallimento della Cirio e numerosi episodi di collocamento di strumenti finanziari discutibili presso i risparmiatori. Al di là delle responsabilità per ciascun episodio, che andranno accertate e sanzionate caso per caso, un intervento di riordino del sistema di vigilanza e controllo sui mercati finanziari non sembra rinviabile. Quest’intervento deve rispondere a chiari principi, valorizzando gli elementi di forza del sistema esistente.

Gli obiettivi dei sistemi di regolamentazione finanziaria

Gli obiettivi dei sistemi di regolamentazione e controllo dei mercati finanziari sono quattro:

1) macro-stabilità: include la gestione della moneta, il credito di ultima istanza e la vigilanza sul sistema dei pagamenti. Nell’Unione europea questi compiti sono attribuiti al sistema delle banche centrali;
2) micro-stabilità: include la verifica dei requisiti per l’esercizio delle attività d’intermediazione e i controlli sulla solidità patrimoniale degli intermediari (banche, assicurazioni, investitori istituzionali, intermediari mobiliari). Nell’Unione europea queste funzioni, inclusa la vigilanza sulle banche, restano di competenza delle autorità nazionali; nella stragrande maggioranza dei paesi sono affidate ad autorità specializzate diverse dalle banche centrali (vedi la tabella allegata);
3) trasparenza e protezione dell’investitore: include gli obblighi d’informazione sulle emissioni e gli emittenti quotati, le regole per la tutela dell’integrità del mercato e la parità di trattamento (insider trading, offerte pubbliche, eccetera) e quelle sul comportamento degli intermediari (tra cui sono di particolare rilievo i doveri fiduciari verso i clienti). Queste funzioni sono tipicamente affidate ad autorità specializzate, talora coincidenti con quelle di sorveglianza sulla micro-stabilità, talora separate;
4) concorrenza, affidata ad autorità specializzate non di settore.

L’evoluzione dei sistemi di regolamentazione

La regolamentazione e le funzioni di vigilanza nacquero segmentate per comparti di intermediazione. La realizzazione contestuale del secondo (micro-stabilità) e del terzo (trasparenza) obiettivo era affidata alle autorità di settore; la banca centrale esercitava tali funzioni per le banche insieme alla macro-stabilità. La concorrenza si è sviluppata più tardi e in base a principi autonomi.
Negli ultimi decenni, i sistemi di regolamentazione e vigilanza dei mercati finanziari hanno visto l’abbandono generalizzato dell’impostazione tradizionale per soggetti, a favore di un’impostazione per obiettivi.

La ragione principale è costituita dall’erosione dei confini tradizionali d’attività degli intermediari, la quale produce due conseguenze. La prima è l’emergere di conflitti di interesse all’interno degli intermediari polifunzionali, tra le funzioni di emissione e collocamento, credito e gestione del risparmio. La seconda è che non è possibile mantenere regole diverse per intermediari che svolgono attività sempre più simili, tra l’altro per il rischio di arbitraggi regolamentari.

Tali conflitti si riverberano sull’efficacia della vigilanza: le autorità tradizionali, centrate su intermediari, tendono a privilegiare l’obiettivo della stabilità dei propri soggetti vigilati rispetto a quelli della protezione dell’investitore o della concorrenza.

Il sistema italiano

Rispetto a questo quadro, il sistema italiano appare ibrido, con elementi di modernità che coesistono con elementi tradizionali.
La legge 1/1991 ha introdotto la vigilanza per finalità, affidando alla Consob la trasparenza su banche e Sim, ma limitatamente al solo comparto mobiliare. La vigilanza su banche, assicurazioni e fondi pensione resta affidata ad autorità specializzate di settore, le quali mantengono anche compiti relativi alla protezione dell’investitore e della concorrenza. La Banca d’Italia mantiene compiti generali di autorizzazione dell’emissione di obbligazioni e vigila sulla concorrenza nel sistema bancario. Le emissioni di banche e assicurazioni sono sottratte agli obblighi di prospetto previste per le altre emissioni (ma quest’anomalia è destinata a cadere con la trasposizione della nuova direttiva europea sui prospetti).

Le riforme praticabili

In questo contesto, un modello di regolamentazione chiaro, coerente con il nostro ordinamento, e praticabile senza eccessive discontinuità istituzionali, è quello per finalità: alla Consob, la trasparenza e la protezione dell’investitore, anche in campo bancario, assicurativo e di fondi pensione. A un’unica autorità specializzata, la protezione della micro-stabilità, costruita aggregando le funzioni e le capacità professionali appartenenti in queste materie a Banca d’Italia, Isvap e Covip. All’Autorità anti-trust, la tutela della concorrenza tra tutti gli intermediari.

L’indipendenza delle diverse autorità dall’esecutivo deve essere rigorosamente difesa, ma esse devono rispondere al Parlamento della realizzazione degli obiettivi fissati dal legislatore. Le autorità dovranno disporre di rafforzati poteri propri di acquisizione dell’informazione e sanzione; occorre migliorare certezza, pubblicità e tempestività delle sanzioni.
Passi ulteriori in direzione del regolatore unico non sembrano oggi praticabili né desiderabili. L’opportunità potrà essere valutata in seguito, alla luce delle esperienze in atto e dell’evoluzione della normativa europea.

Chi deve vigilare sulle banche, di Francesco Giavazzi

L’opportunità che alle banche centrali siano affidati, oltre al compito di garantire la stabilità dei prezzi, altre responsabilità, in particolare per quanto riguarda la stabilità del sistema finanziario, è da sempre oggetto di analisi teoriche che sottolineano i benefici relativi di sistemi alternativi. Sebbene le banche centrali abbiano tradizionalmente avuto ampie responsabilità relativamente alla stabilità finanziaria, alcuni paesi, tra essi Gran Bretagna, Giappone e Germania, hanno recentemente ridefinito i compiti delle proprie banche centrali, limitandone la competenza alla politica monetaria in senso stretto. Questo è anche il principio ispiratore dei trattati europei: essi infatti, pur non escludendo l’attribuzione alla BCE di responsabilità relativamente alla vigilanza sulle banche (attribuzione per la quale sarebbe sufficiente una decisione unanime del Consiglio europeo), hanno per il momento limitato i compiti della banca alla politica monetaria in senso stretto.

A favore della congiunzione tra politica monetaria e vigilanza si osserva che un compito importante della banca centrale è fornire il credito di ultima istanza e cioè evitare che una banca commerciale, la quale si trovi in una situazione di temporanea il liquidità, fallisca, trascinando con sé altre banche. Ma affinché il credito di ultima istanza non si risolva nel salvataggio indiscriminato di qualunque banca, è necessario che la banca centrale sia in grado di distinguere tra situazioni di liquidità e di insolvenza. Questo è tanto più facile, quante più sono le informazioni di cui la banca centrale dispone sulle singole banche: di qui l’opportunità che essa abbia accesso alle informazioni che derivano dall’azione di vigilanza.

Chi al contrario ritiene che sia opportuna la separazione, osserva innanzitutto che l’argomento, appena citato non richiede che la banca centrale sia direttamente responsabile della vigilanza, ma semplicemente che abbia accesso alle informazioni di chi effettua la vigilanza: questo è ad esempio il sistema recentemente adottato in Germania. Contro la congiunzione tra politica monetaria e vigilanza si osserva che essa può dar luogo ad un conflitto di interesse: la banca centrale può essere portata a determinare la politica monetaria non, o non solo, con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi, ma con quello di evitare fallimenti bancari, ad esempio ritardando un aumento dei tassi dei interesse che danneggerebbe i bilanci delle banche.

A fronte di queste opinioni vi è scarsa evidenza empirica. Gli studi tipicamente confrontano paesi con assetti istituzionali diversi, chiedendosi, ad esempio, se il tasso di inflazione sia sistematicamente più elevato nei paesi in cui la banca centrale ha anche compiti di vigilanza. Ma i risultati–che pure tendono a concludere che paesi in cui la banca centrale è responsabile per la vigilanza hanno in media tassi di inflazione un po’ più elevati–sono difficili da valutare: ci possono infatti essere molti altri motivi che spiegano perché l’inflazione è più alta in questi paesi.

Uno studio recente (1) supera queste difficoltà. Lo studio si concentra sugli Stati Uniti, dove le responsabilità di vigilanza sono attribuite a tre diverse istituzioni: la Fed, l’ufficio del Comptroller of the Currency e la Federal Deposit Insurance Corporation. Poiché, tra questi organismi, solo la Fed ha anche responsabilità per la politica monetaria, ci si può chiedere se quella banca centrale si comporti diversamente dalle altre due istituzioni nello svolgere l’attività di vigilanza. La risposta alla domanda se la politica monetaria influenzi le decisioni di vigilanza è positiva. La Fed, quando alza i tassi di interesse, cerca di mitigarne l’effetto sulle banche divenendo meno rigida, relativamente alle altre due istituzioni, nell’attività di vigilanza. Si noti, tuttavia, che questi risultati non consentano di essere “rovesciati”, e cioè di concludere che, per converso, la vigilanza influenzi le decisioni di politica monetaria.

A questa evidenza, che a mio avviso offre un argomento empirico nuovo a favore della separazione, è importante aggiungere un ulteriore elemento, che riguarda i rapporti tra banca centrale e governi. In Italia per molti anni, e oggi nel Sistema europeo delle banche centrali, non esiste una regola precisa che determini la quota dei redditi da “signoraggio” che la banca centrale trasferisce nelle casse dello Stato. Questo riduce la disciplina cui essa è sottoposta, e quindi rende meno gravi le conseguenze di un eventuale errore nel decidere se una banca è illiquida o insolvente. Se la banca era insolvente, e cioè fallita, e ciononostante la banca centrale l’ha salvata, il costo dell’errore non ricade sulla banca centrale, ma sui contribuenti, perché lo Stato riceverà un trasferimento minore dalla banca centrale. In una democrazia il Parlamento ha certamente il diritto di decidere di usare una parte del gettito fiscale per salvare una banca fallita, ma la banca centrale no. E invece così spesso accade. Ad esempio dovremo attendere gli studi degli storici economici per sapere quanto è costato ai contribuenti italiani il salvataggio dei banchi del sud: non gli aumenti di capitale con onere a carico dello Stato e autorizzati dal Parlamento, che sono stati modesti, ma i finanziamenti indiretti, avvenuti tramite il bilancio della Banca d’Italia.

(1) Ioannidou, Vasso P. (2001), “Does monetary policy affect central the bank’s role in bank supervison”, CentER, Università di Tilburg

Le curiose idee del Governatore su banche e assicurazioni, di Francesco Giavazzi

Banche e assicurazioni (penso in particolare a quelle più attive nel settore delle polizze “vita”) si distinguono per la caratteristica molto diversa dei loro bilanci. Le compagnie di assicurazione hanno una raccolta molto stabile, i premi, e impegni a lungo termine e poco liquidi: la scadenza di una tipica polizza vita si estende oltre un decennio e recedere da un contratto è tanto costoso che pochi clienti utilizzano questa possibilità. Le banche invece hanno una raccolta più volatile e soprattutto a breve termine: un deposito bancario può essere ritirato in qualunque momento, senza alcun costo. Le diverse caratteristiche delle passività di queste istituzioni finanziarie ne determinano i criteri di investimento. Le compagnie di assicurazione, così come i fondi pensione, sono investitori a lungo termine: una quota importante del loro attivo è investito in borsa, sia perché, su un orizzonte temporale sufficientemente lungo, il rendimento del mercato azionario supera quello delle obbligazioni, sia perché molti contratti di assicurazione vita consentono di trasferire sull’assicurato un parte delle eventuali perdite indotte da una caduta dei corsi azionari. L’attivo delle banche, invece, è più a breve, proprio a causa dell’elevata liquidità dei depositi. La banca raramente assume impegni a lungo termine: anche il credito alle imprese e ai consumatori è per lo più breve, proprio per evitare un “mis-match” tra attivo e passivo di bilancio. E gli investimenti diversi dal credito sono tipicamente in obbligazioni dello Stato, l’attività più liquida sul mercato.

I rapporti tra banche e assicurazioni

Che cosa suggeriscono queste osservazioni per i rapporti tra banche e assicurazioni? Che qualora un’istituzione detenga quote azionarie dell’altra (non è ovvio che né l’una né l’altra lo debbano fare, ma consideriamo il caso che decidano di farlo), sono le compagnie di assicurazione che dovrebbero essere investitori di lungo termine nelle banche, non viceversa.

Sei anni fa l’Ina, Istituto nazionale delle assicurazioni, privatizzato nel 1994, al momento della privatizzazione della Banca nazionale del lavoro e del Banco di Napoli, acquistò quote di entrambe le banche e iniziò a studiare un piano di integrazione volto a creare un’unica banca con un azionista stabile, appunto l’Ina (*). Il progetto fallì per molti motivi, tra i quali l’opposizione del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, il quale riteneva che banche e assicurazioni dovessero rimanere istituzioni distinte. Una posizione che egli aveva già manifestato, opponendosi a una più ampia presenza delle Assicurazioni Generali in Comit e di Allianz in Unicredito.

Ora apprendiamo che il governatore considera con favore una presenza rilevante di alcune banche (Unicredito, Capitalia e forse altre) tra gli azionisti delle Generali. A che cosa è dovuto questo cambiamento? Evidententemente le priorita’ del governatore non sono considerazioni di natura economica. Soprattutto nel momento in cui quote importanti dell’attivo delle stesse banche è immobilizzato in Fiat, suscitando preoccupazione nei mercati.

(*) Informo i lettori che chi scrive era in quegli anni consigliere di amministrazione di Ina spa

Autorità indipendenti: hanno ballato una sola estate, di Michele Polo

Sta avvicinandosi per le Autorità Indipendenti la fase del declino, dopo il ruolo di primo piano giocato negli anni Novanta? O siamo invece in una fase di utile ripensamento per riordinare e razionalizzare il quadro delle Agenzie oggi operanti in Italia? I segnali appaiono contrastanti: segni di fastidio in modo ricorrente si manifestano dal mondo politico verso la presunta irresponsabilità delle authorities, il decreto che nello scorso agosto, scavalcando le competenze dell’Autorità guidata dal Prof. Ranci, ha bloccato le tariffe elettriche ha rappresentato una pesante invasione di campo; e analoga sensazione si ricava dal Decreto di riordino del settore elettrico e del gas preparato dal Ministro Marzano, laddove si ribadisce in modo puntiglioso la necessità, per l’Autorità di regolazione elettrica, di muoversi all’interno delle direttive in materia energetica indicate dall’esecutivo, vincolo interpretato dai precedenti governi in modo meramente formale. Ma altri segnali vanno in senso opposto, come ad esempio l’organico e condivisibile disegno di riordino presentato dall’On. Tabacci, disegno che ha peraltro molti punti in comune con la proposta, a firma degli On. Amato e Letta, avanzata dal centro-sinistra.

Le Autorità Indipendenti di rilevanza economica

Le principali Autorità Indipendenti di rilevanza economica si sono sviluppate soprattutto nell’ultimo decennio (vedi segnalazione di Polo) articolandosi su tre terreni di intervento:

1) la tutela della concorrenza in tutti i settori produttivi, affidata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato;

2) la tutela della trasparenza del mercato dei capitali e della stabilità degli intermediari del risparmio, di competenza della CONSOB, dell’ISVAP per le assicurazioni, della Banca d’Italia per le aziende di credito, del CVFP per i fondi pensione;

3) la regolazione dei servizi di pubblica utilità, attraverso l’intervento dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità di garanzia delle comunicazioni.

Complessivamente, quindi, le numerose autorità oggi operanti rappresentano lo strumento più importante attraverso cui si è modificato nell’ultimo decennio l’intervento dello Stato nell’economia, non più interlocutore intrusivo, munifico e discrezionale ma arbitro delle regole entro le quali l’iniziativa d’impresa deve svilupparsi. E questo cambiamento ha richiesto e richiede una analoga maturazione delle imprese, non più protette ma destinate a confrontarsi nel gioco della concorrenza.

Perché utilizzare le Autorità Indipendenti?

Se questa è la logica che possiamo ritrovare negli obiettivi perseguiti dalle Autorità, vale allora la pena di chiedersi perché tali finalità debbano essere affidate ad organismi indipendenti e politicamente non responsabili, invece di rimanere tra le materie di competenza del Governo e del Parlamento. Secondo una diffusa opinione, molte delle materie di regolazione e vigilanza oggi affidate alle Autorità dovrebbero tornare di competenza dell’esecutivo, responsabile della loro attuazione in base agli obiettivi definiti nei programmi e approvati dagli elettori. Questa, in fondo, è la strada normalmente seguita per moltissimi capitoli della politica economica, da quello fiscale a quello della sanità, delle pensioni, ecc., temi centrali nelle campagne elettorali e nella successiva azione di governo. La pressione esercitata dalla necessità di ottenere il consenso e di mantenerlo nell’attuazione dei programmi, infatti, rappresenta l’incentivo più importante perché i rappresentanti politici tengano conto delle preferenze degli elettori.

Gli obiettivi che stanno alla base delle più importanti Agenzie di rilevanza economica, tuttavia, si caratterizzano per una attenzione particolare al funzionamento efficiente dei mercati e per la limitazione del potere di mercato dei soggetti economici maggiori. Questi stessi obiettivi, d’altra parte, determinano effetti indiretti e diffusi, e in quanto tali poco avvertibili, sul benessere dei cittadini. E’ quindi poco plausibile che essi giochino un ruolo importante nella competizione elettorale, o che la loro coerente implementazione sia percepita dal governo come cruciale per mantenere il consenso degli elettori.

Al contempo, l’azione di contrasto al potere di mercato dei soggetti economici maggiori va a ledere interessi precisi, ben identificati e capaci di esercitare una notevole influenza e una perdurante attività di lobby sui candidati e gli eletti. In conclusione, lo sviluppo dei mercati e la regolazione dei monopoli rappresentano materie sulle quali debole appare la capacità di controllo degli elettori mentre notevole è la capacità di influenza da parte degli interessi forti colpiti.

Per queste ragioni, affidare all’azione del governo questi obiettivi non garantisce un loro coerente perseguimento. Molti, d’altra parte, sono gli esempi che testimoniano questa distorsione: dal decreto blocca tariffe, che sacrifica all’urgenza di un segnale anti-inflazione lo sviluppo di un coerente quadro di regolazione delle tariffe, alla lentezza con cui si è proceduto, nella seconda metà degli anni Novanta, a definire il quadro di liberalizzazione del settore elettrico e del gas, alla contraddizione che ha caratterizzato le politiche di privatizzazione, attente ai ricavi dalla cessione delle aziende ex-monopoliste di Stato, ma proprio per questo tiepide nei confronti di uno sviluppo della concorrenza che ne avrebbe ridotto i futuri profitti e il valore delle titoli.

La scelta di affidare alle Autorità Indipendenti queste materie e questi obiettivi rappresenta quindi un modo di evitare le incertezze e i ripensamenti che l’azione di governo fatalmente conoscerebbe nella loro attuazione. Un’Agenzia che per statuto abbia il compito di tutelare la concorrenza, o di regolare le tariffe, o di vigilare sulla stabilità degli operatori del risparmio, rappresenta un modo di dare forza a questi obiettivi assicurandone una più coerente realizzazione.

Come utilizzare le Autorità Indipendenti

Perché questa soluzione istituzionale abbia efficacia, occorre tuttavia che alcuni requisiti siano rispettati. In primo luogo, occorre evitare che una stessa Agenzia abbia più obiettivi contemporaneamente, come oggi avviene per la Banca d’Italia (politica monetaria, vigilanza sul credito, tutela della concorrenza) e l’Autorità di Garanzia delle Comunicazioni (regolazione delle telecomunicazioni, difesa del pluralismo). In questi casi, infatti, l’azione diviene eccessivamente discrezionale e la sintesi tra obiettivi diversi poco trasparente e incapace di fornire un riferimento alle imprese.

In secondo luogo, proprio per evitare influenze distorsive dell’esecutivo sull’azione delle Autorità, appare auspicabile eliminare i compiti di indirizzo generale ad esso affidati; inoltre, nella stessa logica, è cruciale che la nomina dei Commissari non spetti al governo ma invece a personalità con un ruolo (e sperabilmente anche un atteggiamento) bipartisan come i Presidenti dei due rami del Parlamento.

Infine, può risultare utile accorpare le competenza su diversi settori in capo ad una stessa autorità, laddove la funzione in essi esplicata sia simile. In questo modo si evitano duplicazioni e si rende efficace l’azione di intervento quando l’evoluzione delle relazioni economiche tende a superare le vecchie distinzioni settoriali. Così, ad esempio, appare convincente la proposta del DdL Tabacci, e in parte quella del DdL Amato-Letta, di riunire la vigilanza su assicurazioni, intermediari finanziari, fondi pensione e aziende di credito sotto una unica Autorità, e la regolazione nel settore elettrico, del gas, idrico e delle telecomunicazioni in una unica Agenzia per i servizi a rete.

Per saperne di più:
i link ai disegni di legge sulle authorities sono:

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