I dati Istat mostrano che tra luglio e settembre 2003 sono morte ventimila persone in più rispetto all’anno precedente. Attribuibili all’ondata di caldo di quell’estate. A suo tempo, un’inchiesta dell’Istituto superiore di Sanità aveva negato ogni emergenza. E mentre in Francia è stato varato un piano di assistenza agli anziani “fragili”, da noi si discute ancora. Il fondo per la non autosufficienza dovrà preoccuparsi di favorire una rete territoriale di interventi a più livelli: strutture centrali, enti locali, famiglie, operatori privati e volontariato.

Come ogni anno, a fine giugno, l’Istat ha presentato il Bilancio demografico annuale del nostro paese: una contabilità delle nascite e delle morti, delle immigrazioni e delle emigrazioni.
I media hanno evidenziato soprattutto l’aumento della natalità rilevata nel 2004, ma hanno trascurato un altro dato: il numero mensile di morti avvenute nel triennio 2002-2004.

La calda estate del 2003

Dai dati si desume che tra luglio e settembre 2003, la famosa estate dell’emergenza caldo, sono morte complessivamente circa 144mila persone. Nell’anno precedente e in quello successivo, le morti registrate sono 124mila. L’Istat stessa attribuisce l’incremento di 20mila morti alla “anomalia registrata nel 2003”, descritta nel rapporto come “una forte ondata di caldo estivo che aveva provocato, nel periodo giugno-settembre, quasi 20mila morti in più rispetto agli stessi mesi del 2002”.
Ricordiamo tutti quei giorni e lo stillicidio di morti e di dichiarazioni pubbliche, che dal nostro paese sembravano espandersi Oltralpe, verso paesi dotati, oltre che di brezze meno leggere, di sistemi sanitari e assistenziali più sviluppati del nostro, come la Francia e la Germania.

I piani di Francia e Italia

Allora, terminata l’emergenza, si erano fatti alcuni calcoli.
In Francia, la contabilità delle morti è stata subito precisa, con una stima di circa 11mila decessi attribuibili, direttamente o indirettamente, all’ondata di calore: un dato sufficiente a produrre un importante dibattito pubblico sull’assistenza agli anziani, ma anche la ricerca delle responsabilità politiche e amministrative. Messo sotto pressione, il ministro alla Sanità Mauri scaricò la responsabilità su uno dei massimi dirigenti della sanità pubblica, che fu costretto a rassegnare le dimissioni. Successivamente, fu approntato un piano nazionale di emergenza, pronto a entrare in azione in eventuali e futuri casi analoghi.
Va anche detto che la Francia, al pari della Germania, proprio negli ultimi anni ha avviato un nuovo programma pubblico dedicato specificamente all’assistenza degli anziani più fragili. Perché la strage estiva aveva avuto, se possibile, un merito: aveva rivelato che la vulnerabilità non dipendeva soltanto dalle condizioni di salute e dall’età, ma anche dalla solitudine, dalla condizione abitativa, dalla mancanza di informazione e di assistenza medica. Aspetti non così fatali ed eccezionali come i primi, la cui portata poteva essere ridotta attraverso piani territoriali, servizi di ascolto e di counselling, accurati piani di monitoraggio e di prevenzione.
E nel nostro paese? Il ministro della Salute da un lato reagì scatenando una polemica con gli enti locali, accusati di scarsa capacità di intervento. (1) Dall’altro annunciò l’avvio di un’inchiesta, affidata all’Istituto superiore di sanità. Dopo alcuni mesi, sulla base di dati sui decessi raccolti nei capoluoghi di Regione o provincia autonoma nei mesi di luglio-agosto, l’inchiesta si chiuse con una notizia rinfrancante: in Italia, nell’estate del 2003, i morti erano stati 7.600 in più rispetto all’anno precedente, molto meno di quanti segnalati Oltralpe. Inoltre, le morti erano concentrate nelle grandi città del Nord Ovest (oltre che a L’Aquila, “che abitualmente gode di clima fresco”). Il rapporto adombrava una spiegazione causale fondata su fattori esclusivamente meteorologici: l’ondata di caldo era stata mortale soprattutto nelle grandi città, dove la temperatura è più alta a causa dell’edificato, e nell’area occidentale del paese, dove “il clima estivo è solitamente temperato e fresco”. Insomma: nulla di eclatante, che richiedesse la ricerca di responsabilità o l’approntamento di un piano di emergenza. L’estate del 2004 non creò problemi, fu fresca e sembrò allontanare ogni allarme.
Due anni dopo apprendiamo dall’Istat che la strage prima annunciata in diretta e poi negata dai dati ministeriali, effettivamente c’era stata. Che i morti, nell’estate del 2003, sono stati quasi tre volte tanto quelli dichiarati allora.
Ma i circa 8mila morti presunti dell’estate 2003 (in realtà 20mila) hanno prodotto, col loro sacrificio, soltanto un breve documento ministeriale, che offre alcune banali linee guida alla popolazione (stare al fresco, bere sopra la norma, non lasciare soli i propri anziani, non camminare per strada nelle ore centrali della giornata, evitare grandi scorpacciate, e così via) e blande indicazioni ai comuni su come prevenire ulteriori emergenze (attivare il volontariato, mobilitare gli ospedali, censire gli utenti dei servizi attraverso la sensibilizzazione dei medici di base). Nonostante i reiterati annunci del ministro della Salute, nessun piano nazionale di assistenza agli anziani è stato nel frattempo approvato.
Solo nei mesi estivi, alla prima apparizione del caldo, subito l’allarme ritorna, gonfiato dai media e debolmente inseguito dai responsabili di turno. Che, ancora nel 2005, insistono su “custodi sociali” affidati in gran parte al volontariato, su un call center centralizzato, nonché sull’avvio di un censimento degli anziani fragili ancora tutto da definire e da calibrare.

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Logica preventiva e responsabilità

In realtà, tutta la vicenda mostra la persistenza di due vecchi vizi italiani. Da un lato, la tendenza ad affrontare i problemi assistenziali solo nell’emergenza, senza né mai sviluppare una logica preventiva. Dall’altro, la tendenza delle istituzioni a evitare di assumersi responsabilità politiche precise.
Per intervenire bisognerebbe innanzitutto conoscere meglio i termini del problema: comprendere quali sono i fattori di fragilità fisica e sociale degli anziani e considerare i molti buchi esistenti nel sistema di assistenza. Dal dibattito francese emerge come a rischio non siano genericamente gli over 65, ma gli “anziani anziani” (oltre 80 anni), fragili non solo sul piano sanitario ma anche su quello della mobilità fisica e dell’isolamento sociale (anziani soli, senza familiari, senza vicinato; persone con invalidità cronica più che malate, per i quali il ricovero in ospedale è non solo improprio e costoso, ma inutile).
L’area della fragilità va inoltre individuata con attenzione, attraverso il lavoro di rete territoriale di chi già opera sul campo (volontariato, associazioni, centri anziani, parrocchie, eccetera) e non attraverso la trasmissione di inutili elenchi amministrativi. Più in generale, bisogna sostenere reti alternative a quelle familiari, come le assistenti familiari straniere, evitando l’istituzionalizzazione se non nei casi più gravi. Così come bisogna evitare gli abbandoni temporanei da parte dei familiari incentivando l’attivazione dei servizi di respite care.
In Francia ad esempio, il piano di interventi post-estate 2003 prevede un più generale irrobustimento dell’intervento pubblico. Più investimenti per assicurare la presenza di risorse umane professionali nella rete socio-sanitaria anche nei mesi estivi (infermieri, medici ospedalieri, medici di medicina generale, assistenti sociali, etc.), evitando problemi legati alle ferie). Costituzione di equipe di collegamento fra le differenti figure e le reti di vicinato. Forti investimenti nelle strutture ospedaliere e residenziali per favorire la presenza di ambienti più freschi (condizionatori, etc.) e per mantenere aperti tutti i reparti geriatrici e di lungo degenza.
Più in prospettiva, si tratta di costruire un piano nazionale che affronti davvero alla radice il problema dell’assistenza agli anziani. L’emergenza caldo serve a sollevare il problema e fa emergere un aspetto della fragilità dell’anziano non autosufficiente che non può essere risolto attraverso una semplice misura di sostegno economico. Il futuro e auspicato Fondo per la non autosufficienza dovrà favorire, oltre che un aumento della responsabilità finanziaria pubblica in questo campo, anche una mobilitazione della rete territoriale degli interventi a più livelli: strutture centrali, enti locali, famiglie, operatori privati e volontariato.

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(1) È interessante notare come nell’ottica dell’allora ministro fossero maggiori le responsabilità dei comuni rispetto a quelle dell’apparato sanitario e socio-sanitario pubblico, che da lui dipendeva.

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