La frequenza media bimensile degli scioperi in tutti i comparti dei trasporti pubblici in Italia è una anomalia nel panorama internazionale. Alla radice del fenomeno sono, tra l’altro, la norma che favorisce il frazionamento delle rappresentanze sindacali aziendali e l’orientamento giurisprudenziale che limita gli effetti giuridici della clausola di tregua. Entrambi premiano il modello conflittuale di relazioni sindacali, soprattutto nei servizi pubblici, dove il regime di monopolio consente di far pagare agli utenti il costo dell’inefficienza del sistema.

Il problema della frequenza anomala e irragionevole degli scioperi oggi, in Italia, riguarda quasi esclusivamente il settore dei trasporti pubblici. Nell’industria il ricorso all’astensione dal lavoro per la soluzione delle vertenze sindacali nell’ultimo trentennio è andato riducendosi notevolmente: nel settore metalmeccanico, per esempio, si è passati dai 155,2 milioni di ore perse per sciopero nel 1969 (l’anno dell’”autunno caldo”) ai 2,7 milioni del 2003 (nell’ultimo periodo la quantità degli scioperi nell’industria ha registrato di nuovo un aumento, ma per motivi prevalentemente legati al quadro politico generale). Nel settore dei trasporti pubblici le cose sono andate molto diversamente. Per avere un’idea dell’entità del problema, vediamo alcuni dati. (1)

I dati sugli scioperi

Nelle ferrovie italiane, nel sessennio 1999-2004, gli scioperi proclamati sono stati in media 166 all’anno, dei quali 23,7 al livello nazionale e gli altri al livello regionale o locale; nello stesso periodo gli scioperi effettivamente attuati sono stati in media 86 all’anno, dei quali 16 – cioè mediamente più di uno al mese – al livello nazionale.
I controllori di volo italiani – le cui astensioni dal lavoro paralizzano l’intero comparto del trasporto aereo – hanno attuato mediamente 38 scioperi all’anno, tra nazionali e locali, nel settennio 1998-2004 (per un confronto: fra il 1998 e il 2000 in Gran Bretagna, Germania e Spagna gli scioperi dei controllori di volo sono stati zero, in Francia due). A questi si aggiungono gli scioperi dei piloti e degli assistenti di volo delle compagnie aeree, del personale aeroportuale, dei vigili del fuoco, che nello stesso periodo contribuiscono a bloccare i trasporti aerei mediamente due volte al mese. Però questi ultimi sono scioperi “seri”, nei quali i lavoratori perdono la retribuzione; non così nel caso dei controllori di volo, i quali sono per la maggior parte retribuiti anche durante lo sciopero, perché per normativa internazionale molto rigida devono garantire comunque assistenza ininterrotta agli aerei che sorvolano l’Italia: questo spiega perché essi possono bloccare decolli e atterraggi negli aeroporti italiani senza subire perdite di reddito.
Nel settore dei trasporti municipali negli ultimi anni si assiste a una vicenda singolare. Dopo la riforma del settore della fine degli anni Novanta, che ha trasferito alle Regioni la competenza in questa materia, non sono stati disposti i corrispondenti trasferimenti di risorse; le Regioni, senza soldi, mandano a dire ai rappresentanti degli autoferrotranvieri di rivolgersi al Governo; quest’ultimo, dichiarandosi privo di competenza, li rimanda alle Regioni.
Si ha la sensazione che le Regioni lascino deliberatamente aumentare la tensione sindacale, perché il Governo sia costretto ad allargare i cordoni della borsa; che la vertenza sindacale, cioè, venga utilizzata da un’istituzione come strumento di pressione per la soluzione di una vertenza di natura politica con un’altra istituzione. È questo il contesto nel quale si collocano i nove scioperi nazionali che nel 2003 precedono il rinnovo del contratto collettivo di settore, stipulato nel dicembre di quell’anno. Nel corso del 2004 ne vengono poi attuati altri dieci sostanzialmente senza soluzione di continuità (in aggiunta a quelli locali, assai più numerosi in ciascuno dei due anni); e lo stesso sta accadendo nel 2005.

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Il modello di relazioni sindacali

In tutti questi settori il rinnovo del contratto sembra non avere un effetto apprezzabile sulla frequenza delle astensioni dal lavoro, neppure nel periodo immediatamente successivo. Qui, dunque, il sistema delle relazioni sindacali funziona malissimo, dal punto di vista degli interessi dei datori di lavoro, come dei lavoratori. Conservarlo così com’è non è né “di sinistra” né “di destra”: è semplicemente una sciocchezza. Oltr’Alpe un fenomeno analogo si registra, ma in misura molto più ridotta, soltanto nei trasporti pubblici francesi. Esso è, certo, favorito dal regime di monopolio nel quale il servizio di trasporto pubblico è sovente gestito; ma questo dato non basta a spiegarlo, dal momento che in molti altri paesi alla gestione del servizio in regime di monopolio non corrisponde un aumento marcato della conflittualità sindacale.
Alla radice di questa anomalia quasi esclusivamente italiana stanno probabilmente l’elevata frammentazione della rappresentanza sindacale e alcuni dati istituzionali che sembrano fatti apposta per favorire al tempo stesso tale frammentazione e il modello conflittuale di relazioni sindacali. In ogni comparto dei trasporti pubblici, oltre ai tre sindacati confederali maggiori, si annovera una decina di altri sindacati, di varia natura e tendenza. Questi, indipendentemente dalla rispettiva consistenza, se hanno partecipato alla stipulazione anche di un solo contratto applicato in un’unità produttiva, hanno diritto allo stesso numero di rappresentanti aziendali, di permessi retribuiti, di ore retribuite di assemblea, nonché agli stessi spazi per le affissioni e agli stessi locali per le riunioni, rispetto ai sindacati maggiori. La riforma di questa materia, esclusa dall’agenda parlamentare in quest’ultima legislatura, appare quanto mai auspicabile, anzi urgente. Va osservato in proposito che gran parte degli scioperi nei trasporti è proclamata da sindacati minoritari in funzione di una loro maggiore visibilità. Questo non sarebbe consentito in paesi come la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania, o la Grecia, dove la proclamazione dello sciopero è condizionata al consenso della maggioranza dei lavoratori interessati.
Un altro dato istituzionale che sicuramente concorre con la vecchia disciplina delle rappresentanze aziendali al funzionamento anomalo delle relazioni sindacali nei trasporti pubblici è costituito dall’orientamento della dottrina e della giurisprudenza giuslavoristiche nel senso di ritenere che la clausola di tregua contenuta nei contratti collettivi vincoli soltanto i sindacati che la stipulano, ma non anche i singoli lavoratori. Così accade che il sindacato confederale stipuli un contratto collettivo impegnandosi a non proclamare scioperi per la sua durata; che i lavoratori interessati godano dei benefici previsti da quel contratto; ma che gli stessi lavoratori possano aderire allo sciopero proclamato da un qualsiasi sindacato autonomo dissenziente. Anche quando le adesioni si rivelano, alla prova dei fatti, poco numerose, basta la sola incertezza circa la loro quantità per ingigantire gli effetti dello sciopero proclamato dal sindacato minoritario.
Questa svalutazione degli effetti della clausola di tregua non ha alcun fondamento giuridico positivo: sarebbe perfettamente compatibile con la nostra legge anche la tesi – ragionevolissima e corrispondente a quanto accade nella maggior parte dei paesi europei – secondo la quale la clausola di tregua vincola tutti i lavoratori a cui si applica il contratto collettivo che la contiene. Questo gioverebbe anche al sindacato che fa bene il suo mestiere, poiché aumenterebbe il valore della “moneta di scambio” a sua disposizione. Ma nella cultura giuslavoristica italiana questa tesi è oggi del tutto minoritaria.
Sono, del resto, gli stessi sindacati confederali maggiori a svalutare la clausola di tregua, come moneta di scambio da spendere nelle trattative con la controparte, acconciandosi a stipularla soltanto se proprio vi sono costretti. E sono essi medesimi i maggiori difensori dell’orientamento giurisprudenziale oggi dominante in proposito. Cgil Cisl e Uil si sono mostrate per lo più capaci di praticare la moderazione nel ricorso allo sciopero nei servizi pubblici, ma non di liberarsi di vecchi tabù ideologici che proteggono chi non la pratica. Hanno garantito così ai loro concorrenti autonomi un vantaggio competitivo di cui si vedono quotidianamente gli effetti. E sovente, come nel comparto dei trasporti municipali, si sono ridotti a fare da mediatori tra gli autonomi e la controparte.

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(1) Per un quadro più ampio rinvio al mio libro, che uscirà tra due settimane per i tipi di Mondadori, A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa per uscirne.

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