I vettori full service sembrano aggiustare le proprie strategie sul modello low cost. Le compagnie puntano a ridurre i costi per il personale, la manutenzione dei velivoli, i servizi accessori e le forniture. E semplificano il servizio, eliminando la business class, o ricorrendo alla disintermediazione e alle politiche di incentivazione della domanda low fare. L’esempio di Aerlingus dovrebbe essere istruttivo per Alitalia. Dimostra che non è necessario aspettare inerti i tempi lunghi della privatizzazione per varare efficaci piani di rilancio.

Oggi, nel mondo, un volo su otto è gestito da vettori low cost, in Europa uno su cinque.

Low cost, una rivoluzione

Il tradizionale modello low cost, che si afferma negli anni Settanta negli Stati Uniti e negli anni Novanta in Europa, deve il suo successo alla drastica riduzione dei costi (circa il 60 per cento di quelli dei vettori tradizionali full service) ottenuta sfrondando il servizio di tutti gli elementi accessori (no frills), eliminando l’intermediazione nella distribuzione, riducendo gli oneri del personale. Quest’ultimo risultato è ottenuto non solo attraverso il contenimento della dinamica retributiva, ma soprattutto tramite una diversa organizzazione del lavoro (tutto il personale, ad esempio, rientra alla base ogni giorno a fine turno). Dal lato della domanda il servizio low cost ha rivoluzionato il modo di intendere il trasporto aereo. Sono cambiati radicalmente e rapidamente i comportamenti dei consumatori, che considerano oramai il trasporto aereo come un servizio largamente accessibile e competitivo rispetto ad altre modalità. Secondo l’Economist, i vettori low cost hanno modificato la geografia europea rendendo accessibili, in termini di tempo e di costo, aree del continente che prima erano assolutamente periferiche. L’affermazione dei primi vettori low cost ha prodotto anche una maggiore spinta competitiva, sotto la quale sono cadute importanti compagnie full service (tra gli esempi più eclatanti, in Europa, Sabena e Swissair).

La risposta del low fare

Nel segmento low cost, Ryanair e Easyjet fanno la parte del leone, con il 60 per cento del mercato europeo. I due vettori realizzano anche elevati margini operativi (Ryanair il 20 per cento e Easyjet il 7 per cento), mentre il settore, contrariamente a quanto generalmente si crede, è caratterizzato da una redditività modesta e in media di segno negativo (-5 per cento).
Oggi, al modello originario si sono affiancate nuove tipologie: più che low cost, però, andrebbero considerate low fare perché il livello e la struttura dei costi non differiscono sostanzialmente da quelli degli operatori tradizionali. Alcune delle nuove compagnie sono state generate da vettori tradizionali o compagnie charter – si parla di fighting brands – in risposta alla sfida dei primi low cost: Germanwings, Go, Buzz, BmiBaby, Snowflake dalle compagnie tradizionali, Airberlin, Volareweb, e altri dagli operatori charter. In altri casi, invece, si è trattato non di filiazioni, ma di trasformazioni di società preesistenti (re-branding), specie per le compagni regionali o comunque di dimensione più limitata rispetto ai network carriers globali (tra gli altri, Airone, Meridiana).
In entrambi i casi, la struttura dei costi soffre dell’impronta della casa madre.
Queste due tipologie di operatori hanno dato un nuovo assetto al mercato. Offrono un servizio più vicino a quello tradizionale che all’originario low cost, e influenzo così le aspettative del pubblico sul tipo di servizio che si può acquistare a basso costo. L’effetto è dunque quello di aumentare il costo dei rivali. D’altro canto, riescono a offrire servizi di livello elevato a tariffe basse grazie ai sussidi incrociati delle case madri che utilizzano le rendite percepite sui servizi nei quali godono di posizioni dominanti, se non monopolistiche (servizi di lungo raggio, obblighi di servizio pubblico ecc.). Oppure perché dalla compagnia originaria ereditano asset, privilegi e posizioni di rendita (come quelle derivanti dall’assegnazione degli slot sulla base dei grandfather’s rights).
Diverso è il caso dei nuovi operatori sorti indipendentemente da compagnie preesistenti. Non hanno potuto sfruttare, come i loro predecessori di prima generazione, i vantaggi fiscali e di costo del lavoro che sono stati, per esempio, un elemento determinante del successo di Ryanair. D’altra parte, si sono trovati di fronte a un mercato già abbondantemente scremato dai preesistenti low cost e a una ben diversa reazione degli operatori tradizionali. Non stupisce che i fallimenti siano stati numerosi: solo nel primo semestre del 2005, a fronte dell’ingresso di dodici nuovi operatori, si sono registrati, ben otto fallimenti. (1)
La reazione dei tradizionali operatori full service all’ingresso dei low cost non si esaurisce nelle strategie di acquisizione o di difesa del mercato attraverso la creazione di sussidiarie o ai processi di trasformazione. Si accompagna anche a modifiche nella politica dei prezzi e nella composizione dell’offerta che privilegiano le classi di servizio più al riparo dalla concorrenza. Ma anche a strategie per migliorare l’efficienza. Si punta, in primo luogo, alla riduzione dei costi per il personale, per la manutenzione dei velivoli, per i “frills” e alla revisione dei contratti di fornitura. Senza dimenticare altre azioni specifiche: dalle misure di semplificazione del servizio, che, di recente, ha portato, in alcuni casi, alla eliminazione della classe business, alla crescente disintermediazione, che sta ormai coinvolgendo tutti i principali vettori full service, alle politiche di stimolo e di incentivazione della domanda low fare attraverso azioni di marketing aggressivo.

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Il caso Airlingus

I full service sembrano dunque aggiustare le proprie strategie sul modello low cost. Sotto questo profilo, l’esempio di maggior successo in Europa è AirLingus.
Si tratta, di una società che ha abbracciato in pieno la strategia operativa low cost, stravolgendo l’intera organizzazione aziendale. Attraverso interventi drastici è riuscita a portare il margine operativo da un – 4,3 per cento del 2001 a circa il 10 per cento nel 2004, grazie a una ristrutturazione complessiva sia dei costi sia dell’offerta. La compagnia ha ridotto la forza lavoro del 33 per cento (del 60 per cento nel management), passando da 6mila a 4mila dipendenti in due anni, destinati a diventare 2.650 nel 2007. Ha eliminato la business class sulle rotte a breve e medio raggio, ha introdotto una serie di innovazioni nella struttura tariffaria (tariffe di sola andata, maggiore flessibilità, e così via), ha avviato una politica di standardizzazione della flotta (solo Airbus) che dovrebbe essere completata alla fine di quest’anno. Infine, attraverso una intensa promozione del sito web, è riuscita a convogliare oltre il 60 per cento delle prenotazioni su Internet. AirLingus, secondo l’Association of European Airlines, è diventato il terzo operatore low cost in Europa. Il tutto nonostante la compagnia sia posseduta per oltre il 95 per cento dallo Stato.
Non si è dunque in questo caso rimasti inerti attendendo i tempi lunghi della privatizzazione per varare efficaci strategie di rilancio. È materiale di riflessione per il caso italiano: si è parlato della possibilità di una “nuova Alitalia“, con costi di gestione vicini a quelli dei low cost, ma con la possibilità di praticare tariffe più alte in virtù degli ottimi slot. (2)

(1) Eurocontrol, 2005, The evolution of low-cost carriers’ market share, Statfor – Doc119v2, Brussels.

(2) Andrea Boitani, “Una cura leggera”, Il Sole 24Ore, 15 maggio 2004

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