Lavoce.info

Un reddito minimo contro l’esclusione sociale

Il reddito minimo di inserimento dovrebbe far parte di una rete di protezione sociale che comprenda anche interventi centrati sul sostegno ai cittadini nel mercato del lavoro. Va condizionato alla partecipazione obbligatoria a percorsi di integrazione e all’accettazione della chiamata al lavoro. Essenziale delimitare rigorosamente la platea dei potenziali beneficiari. Solo così si può sperare di attivare programmi di reinserimento credibili e realizzare una efficace prova dei mezzi. Con un onere a regime per la finanza pubblica tra i tre e i quattro miliardi di euro.

La legislatura si chiude senza che il Governo abbia posto mano al miglioramento della rete degli ammortizzatori sociali che la maggiore flessibilità introdotta con la legge 30 ha reso ancora più urgente. E senza che abbia fornito neppure le coordinate per la realizzazione di quel “reddito di ultima istanza” che avrebbe dovuto sostituire il soppresso “reddito minimo di inserimento”.

Una rete di sicurezza sociale

Come più volte sostenuto su lavoce.info, si tratta di due interventi da considerare prioritari dal punto di vista non solo dell’equità sociale, ma anche dell’efficienza economica: una adeguata rete di sicurezza sociale è condizione decisiva per migliorare il funzionamento del mercato del lavoro e del mercato dei prodotti.
Rinviando ad altri interventi per quanto riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali, propongo qui qualche riflessione su un “reddito minimo di inserimento” che abbia natura universale (non sia rivolto a specifiche categorie) e al tempo stesso selettiva (sia sottoposto a “prova dei mezzi”).
Credo che il reddito minimo di inserimento vada concepito come istituto specificamente rivolto a contrastare il rischio di esclusione e quindi debba costituire l’anello che chiude in basso la rete di protezione sociale. Quest’ultima deve articolarsi su altri due pilastri, centrati sul sostegno ai cittadini nel mercato del lavoro: il sistema degli ammortizzatori sociali e un sistema di sostegno in forme incentivanti il lavoro e l’emersione per quanti, pur inseriti nel mercato del lavoro, hanno redditi bassi e discontinui. Il reddito minimo deve costituire il terzo pilastro, rivolto a chi incontra forti difficoltà di inserimento. Va condizionato all’attivazione di percorsi di integrazione sociale e alla partecipazione obbligatoria a essi da parte dei beneficiari, mentre la “prova dei mezzi” va effettuata in modo stringente. Le misure di integrazione sociale devono favorire, nel caso di persone in età da lavoro, l’occupabilità e, nel caso di minori, la scolarità. È essenziale delimitare rigorosamente la platea dei potenziali beneficiari: solo in questo modo si può sperare di attivare programmi di reinserimento credibili e realizzare una efficace prova dei mezzi.
Le sue caratteristiche principali dovrebbero allora essere le seguenti. Condizioni economiche per l’accesso: Isee non superiore a una determinata soglia; patrimonio immobiliare limitato alla prima casa; patrimonio mobiliare molto basso. Integrazione del reddito mensile pro-capite equivalente: pari alla differenza tra il reddito mensile disponibile e una soglia predeterminata; a fini di incentivo al lavoro, nel calcolo del reddito disponibile i redditi da lavoro vanno computati in misura parziale; i trasferimenti oggi goduti a qualsiasi titolo vanno invece riassorbiti fino a concorrenza della soglia. Obblighi per i beneficiari: partecipazione ai programmi di reinserimento e accettazione della chiamata al lavoro, anche temporaneo.
Per un istituto così configurato, il termine “reddito minimo di inserimento” appare coerente ed evita qualsiasi confusione con proposte di “salario sociale” generalizzato, dalle implicazioni imprevedibili sul funzionamento del mercato del lavoro e sulla tenuta dei conti pubblici.

Leggi anche:  Una questione di opportunità: così la povertà nega il futuro ai bambini

Gli oneri per lo Stato

Per avere una prima idea di quello che sarebbe l’onere netto a regime per la finanza pubblica, si può fare riferimento alla specifica configurazione con cui il Rmi è stato proposto nel disegno di legge – A.C. n. 3619 – presentato in questa legislatura dall’opposizione: la soglia rispetto a cui effettuare l’integrazione è pari a 390 euro mensili per un single e crescente in relazione al nucleo familiare secondo la scala di equivalenza Isee; i redditi da lavoro sono computati al 75 per cento nel calcolo del reddito disponibile. Sulla base dei dati Banca d’Italia sui bilanci familiari, le famiglie che usufruirebbero dell’integrazione di reddito sono circa 980mila. Nell’ipotesi che tutte facciano domanda per il Rmi, e quindi siano disponibili ad aderire ai programmi di inserimento, l’onere netto complessivo derivante dall’integrazione di reddito alla soglia indicata sarebbe a regime pari a circa 5 miliardi di euro su base annua.
La stima va intesa come massimo onere possibile. L’onere effettivo dovrebbe risultare inferiore giacché è possibile che non tutti coloro che rientrano nei criteri di selezione facciano domanda, perché non è detto siano disponibili a soddisfare le condizioni richieste. Ma, soprattutto, l’attivazione degli altri due pilastri – gli ammortizzatori sociali riformati e l’introduzione di un sostegno per quanti hanno redditi bassi e discontinui – consentirebbe di ridurre in misura significativa la platea dei richiedenti il reddito minimo di inserimento.
Un effetto di questo tipo deriverebbe per esempio dall’introduzione di un “assegno per il sostegno delle responsabilità familiari” sostitutivo delle attuali detrazioni per carichi familiari che, proprio in quanto assegno, verrebbe goduto anche dagli incapienti (imposta negativa). L’introduzione di questo istituto, in una forma incentivante il lavoro e l’emersione (un po’ stile “earned income tax credit”), era per esempio prevista dall’emendamento alla Finanziaria per il 2005 presentato dall’opposizione in contrasto con lo sgravio fiscale del Governo e a parità di onere . Naturalmente, andranno costruite adeguate coerenze tra importo dell’assegno e livello del Rmi (le due prestazioni non devono essere sommabili), in modo che per un lavoratore sufficientemente inserito nel mercato, per quanto con redditi bassi o discontinui, sia conveniente optare per il normale regime di imposta e assegno, invece che richiedere il reddito minimo di inserimento. In questo modo l’onere scenderebbe collocandosi, a seconda delle ipotesi circa la convenienza relativa di Rmi e normale regime di imposta e assegno, tra i 3 e i 4 miliardi di euro.
In una prospettiva più lunga, poi, i tre pilastri della rete di protezione sociale consentirebbero di riassorbire completamente le attuali opache e disorganiche, forme di trasferimento assistenziale: in tal caso, a parità di onere, si potrebbero via via innalzare i trattamenti e ottenere un sistema di sicurezza sociale più semplice, equo e razionale.

Leggi anche:  Se la povertà diventa una "questione settentrionale"

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Vale la pena rimpiangere il Reddito di cittadinanza?

Precedente

Sommario 12 gennaio 2006

Successivo

Due pareri sulla TAV

  1. giovanni

    Il reddito minimo , in teoria, è un’ottima idea per i tanti privi di fonti di sostentamento. Sono socio di un’associazione nazionale di volontariato che assiste i poveri. Dal mio piccolo osservatorio constato che a fronte di alcuni casi di povertà vera e nera ,ce ne sono tanti d’indigenza camuffata :
    1) Chi non vuole fare emergere il proprio lavoro in nero per convenienza :sono piccoli artigiani, prestatori di servizi vari ,operai saltuari che che rifiutano l’assunzione e in cambio chiedono il 50% dei soldi che sarebbero dovuti andare all’INPS,INAIL ecc.. 2) operai agricoli a cui 50 giornate di lavoro dichiarate bastano per garantirsi pensione minima e tutela infortunistica, 3) piccola delinquenza organizzata (e qui in Sicilia è vasta) che vive di furti ,imbrogli,paghette dei capi ecc… 4)l’elenco sarebbe infinito. Mi fermo. Il reddito garantito sarebbe una pacchia per tanti. Constato che i veri indigenti sono quasi sempre gli anziani,ammalati,persone manualmente o intellettivamente davvero incapaci. Prima di garantire occorrerà quindi discernere molto ,ma molto, perchè l’imbroglio è dietro l’angolo.
    Qui c’è un esercito di LSU che rifiuta il lavoro, stante che una Regione prodiga garantisce loro 450 Euro e a fronte di 20 ore lavorative (lavori non solo inutili ma molto riposanti e nullafacenti).Dopo magari lavorano in studi professionali o altro dove ne guadagnano altri 500 Euro. Con tanta soddisfazioni dei politici corrotti e delle loro clientele
    A questo punto facciamo tutti gli LSU , rovineremo così le future generazioni. Come nell’ex URSS pochi soldi a tutti per far quasi niente, o come nell’Argentina di Peron del “magnana fiesta”. A forze di fieste i nodi poi vengono sempre al pettine.

    • La redazione

      I problemi messi in luce nell’intervento del lettore sono reali e con essi occorre fare i conti. Sicuramente, la questione di una stringente “prova dei mezzi” e di una corretta implementazione delle politiche di reinserimento che non ripercorra gli errori dei LSU è decisiva. Al riguardo, l’esperienza fatta con la sperimentazione del RMI prima che venisse soppresso dall’attuale governo è variegata, con situazioni locali in cui prova dei mezzi e percorsi di reinserimento sono stati realizzati in modo serio e con risultati apprezzabili, e situazioni in cui ciò non è accaduto. E’ proprio per questo che nel mio articolo ho cercato di chiarire come il reddito minimo vada concepito come parte di una politica di scurezza sociale più articolata e non imperniata solo né prevalentemente su di esso. Nel mio articolo parlo del reddito minimo come del terzo pilastro che segue altri due, che ai miei occhi hanno importanza decisiva: a) un sistema di
      ammortizzatori sociali più esteso, equo ed efficiente; b) misure di sostegno dei redditi per quanti sul mercato del lavoro ci stanno già ma con redditi bassi e discontinui, misure che possono essere strutturate in modo da incentivare il lavoro e la sua emersione. In questo quadro è possibile
      circoscrivere la platea di quanti chiederanno il reddito minimo a coloro che sono oggi esclusi dal mondo del lavoro, in quanto gli inclusi ma con redditi bassi e precari saranno sostenuti dagli altri due pilastri del sistema di sicurezza sociale. Una platea correttamente ciroscritta aiuterà a gestire in modo credibile sia la verifica effettiva delle condizioni economiche tramite “prova dei mezzi” sia la predisposizione di percorsi di reinserimento (inclusione) rigorosi ed efficaci. In assenza degli altri due pilastri, credo sarebbe elevato il rischio di un allargamento della platea dei richiedenti il reddito minimo che, rendendo più difficile sia la prova dei mezzi sia la costruzione di percorsi seri di reinserimento, darebbe spazio
      ai rischi evidenziati dal lettore.
      Cordiali saluti,

      Claudio De Vincenti

  2. Giampaolo

    Il RMI è una misura assistenzialistica e di impronta lavorista. Personalmente resto convinto che sia meglio un basic income se non universale inizialmente esteso alle fasce più deboli (per es. lavoratori atipici, anche nei periodi di lavoro e non solo in quelli di inoccupazione) e slegato dalla prestazione. Comunque è già bene che se inizi a parlare, in Italia, da buoni ultimi in Europa.

  3. lsu

    Dopo dodici lunghissimi anni trascorsi dall’ingresso nei progetti dei L.S.U., non esiste ancora nessuna sicurezza sulle prospettive occupazionali in via definitiva.
    Chi vi scrive fa parte di un gruppo di 121 Lavoratori Socialmente Utili ( L.S.U. coinvolti in progetti del Comune .
    Da dodici anni, a colpi di proroghe, non ci viene riconosciuto un contratto nonostante il nostro impegno quotidiano ha garantito e garantisce l’espletamento di servizi essenziali ed indispensabili. Come se non bastasse il grave disagio psicologico ed esistenziale causato da questa interminabile precarietà lavorativa, va aggiunto il trattamento economico che ci viene riservato. Infatti, oltre ad essere palesemente sotto stimati per la “qualità” dei compiti assegnateci in funzione delle nostre competenze specifiche, non ci viene riconosciuto il diritto alla malattia e alle ferie. Una situazione che ci relega socialmente in un segmento di estrema povertà (la retribuzione, compresa quella inerente l’integrazione oraria, se non vengono decurtati gli eventuali giorni di malattia o di ferie, è di circa seicento euro mensili) che rende la sopravvivenza, com’è facilmente immaginabile, più che difficile, praticamente impossibile. Lo diciamo senza retorica, da persone mature con famiglia a carico cui questo tipo di reddito rappresenta, per la stragrande maggioranza di noi, l’unico e solo.
    Pertanto, attualmente siamo impiegati, sia in termini di orario che di produttività, come “veri” dipendente comunale ( ma restando pur sempre dei L.S.U. ), con gli stessi DOVERI ma senza alcun DIRITTO. Tanto è vero che a noi non viene riconosciuto, oltre a quanto già accennato, nessuna posizione contributiva né alcuna indennità di sorta.
    Vogliamo ricordare, inoltre, che il comune che ci utilizza, si trova con uno organico del personale ridotto a più del 50%.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén