Gran parte dei flussi economici che caratterizzano le concessioni autostradali, sia come spese che come ricavi da tariffa, sono commisurati agli investimenti (nuove tratte, ampliamenti e così via). Proprio la regolazione degli investimenti, però, presenta anomalie significative. Il price cap infatti dovrebbe agire anche su questi, in modo da indurre il gestore a effettuare tutti e soli quelli remunerativi, riuscendo così a lucrare extraprofitti, anche se temporanei.

Verso il piè di lista

In realtà, gli investimenti autostradali formalmente sono al di fuori di tale tipo di regolazione, e sono “richiesti” dal concedente (Anas) al concessionario, e poi remunerati in tariffa a un prezzo concordato ex-ante. Al concessionario, di fatto, rimane il solo rischio industriale, come per qualsiasi appalto pubblico: se spunterà costi minori di quelli concordati lucrerà extraprofitti, altrimenti incorrerà in perdite. Il sistema di remunerazione sta però evolvendo verso un “piè di lista”, con conseguente eliminazione anche del rischio industriale: in tariffa sono riconosciute al concessionario solo le spese realmente sostenute e documentate, anche per evitare gli inconvenienti di ricavi elevati in assenza di investimenti corrispondenti, fenomeno accaduto in modo clamoroso negli anni passati.
Anas formalmente esegue analisi del tipo costi-benefici per le singole opere, ne determina priorità, tempistica, e coerenza con la pianificazione generale. Sembrerebbe il “dominus” del processo, e il concessionario solo un docile esecutore di volontà politiche. Sarebbe dunque una struttura di “command and control” molto tradizionale, in antitesi rispetto a meccanismi di regolazione incentivante. E una struttura che non prevede nemmeno meccanismi di estrazione di “rendite informative”, che richiederebbero la combinazione strategica di remunerazioni “fixed price” e “cost plus“.

Qualche interrogativo

Il contesto nel quale vengono effettuati gli investimenti autostradali non è affatto quello di normali appalti in gara di opere pubbliche: siamo all’interno di un assetto con due soli attori, predefiniti e reciprocamente vincolati, senza alcuna autorità “terza” di regolazione, e quindi estremamente proclive a fenomeni di “cattura”. Come sono decisi i prezzi unitari o gli standard? Come sono raccordate le scelte di investimento autostradali con quelle, per esempio, ferroviarie? Quale è la possibilità di soggetti terzi di analizzare e contestare costi e analisi di fattibilità?
Un caso interessante, sotto questo profilo, è quello dell’autostrada tirrenica Livorno-Civitavecchia. Per rendere fattibile un investimento altrimenti ingiustificabile, il voluminosissimo studio di fattibilità effettuato, assumeva vincoli futuri di velocità sulla strada esistente di 30-40 km all’ora. Questa assurda quanto cruciale assunzione – la strada statale Aurelia consente oggi velocità autostradali per gran parte del tracciato – era descritta in non più di tre righe di testo. (1)
L’attuale piano di investimenti di Autostrade per l’Italia spa per 4,5 miliardi di euro, di fatto, è stato presentato dal concessionario: si fa un po’ fatica a credere che le decisioni siano state interamente prese da Anas, e che il concessionario ne sia un semplice esecutore. Certo, potrebbe trattarsi di un fortunato caso di “fruttuosa collaborazione” tra regolatore/concedente e regolato/concessionario. Ma se si parte dalla consolidata ipotesi della teoria economica per cui i soggetti (pubblici o privati che siano) sono mossi da obiettivi “egoisti”, le “fruttuose collaborazioni” sembrano più facilmente interpretabili come “cattura” (senza alcuno stigma morale). Anche altri piani di investimento sembrano formulati direttamente dai concessionari per ottenere il prolungamento senza gara della concessione, come ad esempio nel caso recente della Brescia-Padova. Sembra davvero impossibile non vedere qui in atto fenomeni difficilmente riconducibili all’interesse pubblico.
Ma anche in termini teorici, remunerare gli investimenti per via tariffaria apre rilevanti problemi di efficienza: vi sono aspetti legati alle perdite di benessere collettivo connesse al fatto che le autostrade sono un monopolio naturale. (2)
E anche l’eventuale quota di intervento pubblico a fondo perduto dovrebbe rispondere a criteri di efficienza, collegati alle politiche di trasporto complessive, al costo-opportunità marginale dei fondi pubblici, e così via [link Boitani]. Infine, se fossero considerazioni ambientali a indurre una politica di finanziamento degli investimenti autostradali basata sulle tariffe più di quanto accada, per esempio, nel settore ferroviario, ciò dovrebbe avvenire esplicitando i costi ambientali relativi caso per caso, tenendo conto dell’elasticità della domanda e di altri fattori.

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Altre anomalie regolatorie

Ma vi è un’altra anomalia rilevante, dovuta all’arbitrarietà delle dimensioni dei concessionari. Un investimento effettuato da un concessionario che ha una rete estesa viene recuperato in tariffa “distribuendo” l’aumento tariffario sull’intera sua rete. Un investimento di pari entità effettuato da un concessionario piccolo, invece, deve essere recuperato con incrementi unitari di tariffa molto maggiori, o addirittura essere pagato in parte dall’erario, per evitare shock tariffari o cali drastici di domanda per effetti di elasticità. Si possono immaginare le implicazioni distributive e di efficienza allocativa di questo aspetto delle tariffe, legato solo a un fattore “storico” quale le dimensioni delle concessioni.
Si pongono quindi, come riflessione “storica”, ma forse non inutile, significativi problemi di “dimensione minima efficiente”. Passando da una struttura concessoria pubblica a una privata, quali analisi sono state fatte per definire le dimensioni efficienti delle concessioni? Perché mai scegliere quelle “storiche”, e non dimensioni più elevate, o inferiori? (3) Non sarebbe stata best practice frazionare molto le reti – fare uno “spezzatino”, secondo un termine corrente -, lasciando poi al mercato determinare aggregazioni, cioè eventuali economie di scala? O di nuovo ha prevalso il discutibile obiettivo del “campione nazionale”, che è emerso anche nelle recenti vicende del sistema bancario italiano, e che sembra essere l’”ultima spiaggia” prediletta dai difensori del monopolio? (4)
In conclusione, sembra difficile trovare argomentazioni sia di efficienza economica (assenza di incentivi regolatori), che di efficienza allocativa (assenza di strategie di massimizzazione del surplus sociale) nell’attuale struttura del finanziamento degli investimenti autostradali. La sensazione è che si tratti sostanzialmente di un dispositivo di prelievo di risorse più “indolore” di altri, nella misura in cui fino ad oggi gli utenti e i contribuenti non hanno manifestato resistenze particolari, se non forse in relazione ad alcuni recenti disservizi. Ma sarà sempre così?

(1) In realtà, fenomeni di “gold plating”, o “effetti Averch-Johnson” sono del tutto verosimili in un meccanismo così “chiuso”.
(2) “Deadweight losses”, che postulerebbero almeno una riflessione su di un meccanismo di tariffazione del tipo Ramsey-Boiteaux.
(3) Si veda anche la ricaduta di questo problema sulla remunerazione degli investimenti.
(4) Per rimanere nel settore dei trasporti, si pensi anche al caso di Alitalia o di Fs.

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