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Rimedi contro la psicosi da aviaria

L’influenza aviaria ha già contagiato tre continenti. La forte riduzione dei consumi di pollo ha certamente dato luogo a redistribuzioni nei flussi di spesa a vantaggio di altri. Gli aiuti al settore potrebbero perciò prendere la forma di mirati prelievi solidaristici. La strategia di produrre antivirale sulla base della sola domanda di mercato è del tutto inadeguata. L’Unione Europea deve farsi promotrice di azioni per attivarne immediatamente la produzione su vasta scala. Mettendo in pratica quel principio di precauzione enunciato nella Costituzione europea.

Gli aggiornamenti sulla diffusione del virus A(H5N1) occupano stabilmente le pagine dei quotidiani e dei magazine nazionali. Apprendiamo così che il virus dell’influenza aviaria si è diffuso in tutta l’Europa continentale, contagiando specie selvatiche di volatili, contaminando allevamenti avicoli (in Francia, Romania, Ucraina e Turchia) e infettando anche i mammiferi (il gatto dell’isola di Ruegen in Germania). In Turchia si sono avuti dodici casi umani di infezione, di cui quattro letali. Minore risalto viene dato alla propagazione del contagio nei paesi africani e asiatici anche se il virus ha ormai toccato allevamenti avicoli in Egitto, Niger, Nigeria, nel sub-continente indiano e ha provocato due decessi umani in Iraq.

Settore avicolo in crisi

In concomitanza con questi eventi si è registra una significativa riduzione dei consumi e dei prezzi delle carni avicole, con conseguenze disastrose per interi settori dell’agro-alimentare.
Secondo la Fao, il consumo di carne avicola è sceso di oltre tre milioni di tonnellate nel solo 2006 (da 84,6 a 81,8 milioni), mentre i prezzi hanno subito una flessione del 30 per cento rispetto al 2004. La crisi del comparto, confermata dal -8 per cento nella quota del commercio internazionale, è essenzialmente dovuta alla riduzione della domanda di carni: in Europa la caduta dei consumi va dal 70 per cento registrato in Italia in febbraio, al 20 per cento della Francia. In India la riduzione è stimata intorno al 25 per cento e anche nei paesi africani affetti dal contagio, come il Niger e l’Egitto, si sono registrati cali significativi.
Alla crisi degli allevatori vanno aggiunte le difficoltà dei produttori di mangimi che hanno subito, soltanto in Europa, perdite per 42 miliardi di dollari.

La risposta farmaceutica

Sul fronte degli antivirali considerati efficaci nel contrastare gli effetti del virus sugli uomini, è dei giorni scorsi la notizia che Margaret Chan, assistant director general dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha avviato negoziati per indurre la multinazionale farmaceutica svizzera Roche, titolare del brevetto dell’antivirale a base di oseltamivir, ad accrescerne la produzione. Secondo i piani della casa farmaceutica, dovrebbe essere infatti di 115 milioni di scatole da dieci pillole per il 2006 e di 300 milioni di scatole per il 2007. Si tratta di quantità assolutamente inadeguate a fronteggiare un’eventuale pandemia. Da qui le preoccupazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Alle quali, però, i dirigenti della Roche hanno risposto che la produzione prevista per il 2007 supera abbondantemente l’ammontare di ordini ricevuti, incluso quello, recente, di 14,5 milioni di scatole da parte del dipartimento della Sanità americano. Ed escludono, pertanto, una ulteriore crescita della produzione.

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Le cose da fare

Tutti questi fatti sollecitano alcune considerazioni. L’influenza aviaria ha ormai raggiunto tre continenti ed è presumibile che, con la ripresa dei flussi migratori degli uccelli selvatici, si assista a una nuova ondata di contagi. Sarebbe bene prepararsi a questa nuova emergenza, magari intensificando gli sforzi per produrre quantità sufficienti di vaccini specifici per gli allevamenti avicoli e avviare campagne di vaccinazione in grado di circoscrivere o eradicare i focolai di contagio, come già avviene in Italia contro altri ceppi di influenza aviaria.
La riduzione dei consumi di prodotti avicoli, di per sé ingiustificata, è la conseguenza di molti fattori. Ma tra questi ha un peso rilevante l’incertezza generata dal maldestro tentativo di fornire rassicurazioni eccessive, poi smentite dai fatti, di fronte al materializzarsi di un pericolo che è stato a lungo ignorato. Non si tratta, dunque, soltanto di fragilità psichica. Si tratta, soprattutto, degli effetti di una cattiva gestione e comunicazione dei possibili rischi a cui sono esposti gli esseri umani. Non sembra avere molto successo la strategia volta a minimizzare la rilevanza degli accadimenti, senza distinguere tra i rischi connessi al consumo dei polli, nulli se le carni sono cucinate a temperature superiori ai 60 gradi, e quelli, fondati, relativi al possibile salto della barriera di specie. Non va dimenticato che, nel corso della sua mutazione, il virus A(H5N1) ha già infettato numerose specie di mammiferi: tigri, gatti, leopardi, maiali, per esempio, e soprattutto gli uomini, con 174 casi di cui 94 letali.
Le perdite economiche del settore avicolo dovrebbero, poi, essere considerate conseguenza della diffusione del virus e andrebbero studiati rapidamente provvedimenti di aiuto. Potrebbe forse essere utile considerare che la domanda alimentare è piuttosto rigida, quindi, la riduzione dei consumi di pollo ha certamente dato luogo a effetti di sostituzione, con conseguenti redistribuzioni nei flussi di spesa a vantaggio di altri settori. Come sempre, non tutti perdono dagli eventi catastrofici. Si potrebbero perciò immaginare anche mirati prelievi solidaristici.
Infine è ormai evidente che, nonostante le modeste donazioni, l’obiettivo della Roche è produrre antivirale sulla base della sola domanda di mercato.
Questa strategia appare del tutto inadeguata, soprattutto per il progredire dell’epidemia nei paesi poveri del terzo e quarto mondo. Gli annunciati accordi di sub-licenza con alcune aziende asiatiche (tre) sono assolutamente insufficienti a soddisfare le ingenti richieste che già giungono, e presumibilmente sempre più giungeranno, dai paesi maggiormente esposti al rischio di epidemia. Allo stesso modo, i quantitativi oggi disponibili o programmati sono assolutamente insufficienti anche per il solo fabbisogno dei paesi industrializzati: è del mese scorso la notizia della sospensione delle vendite nelle farmacie canadesi per conservarne stock adeguati in vista di un’eventuale pandemia umana. E va ricordato che, anche nell’eventualità in cui venisse realizzato un vaccino efficace contro la variante umana dell’influenza aviaria, esiste un periodo-finestra tra l’identificazione del modello virale e la disponibilità del relativo vaccino, durante il quale l’unica forma di controllo dell’eventuale epidemia (sia nella cura, che nella prevenzione) sarebbe rappresentata dalla somministrazione degli antivirali oseltamivir e zanamivir.
Occorre dunque che i governi si attivino per elaborare delle soluzioni condivise ai problemi molteplici prodotti dal progredire del contagio. In questa prospettiva, sarebbe opportuno che l’Unione Europea si convincesse della necessità di sospendere la protezione assicurata alla Roche dal brevetto sulla produzione dell’antivirale Tamiflu, al fine di attivare immediatamente la produzione su vasta scala di oseltamivir. L’India ha annunciato che inizierà la produzione di un farmaco generico con le stesse caratteristiche del Tamiflu e lo stesso hanno dichiarato di essere pronti a fare il Vietnam e la Thailandia. Il Nhri di Taiwan ha prodotto in soli diciotto giorni una piccola quantità di Tamiflu semplicemente basandosi sui dati liberamente disponibili. Questo sembra provare che i limiti-vincoli alla sua produzione sono solo di tipo politico-legale e non tecnologico, come invece da anni ripete la Roche.
Appare sempre più urgente che il principio di precauzione cessi di essere un astratto enunciato nella Costituzione europea e diventi una guida effettiva per l’azione responsabile dei governi europei.

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  1. Matteo Olivieri

    Gentili autori,
    di fronte al peso travolgente delle psicosi da aviaria un’adozione di serie politiche integrate è una proposta realistica e necessaria.
    Tuttavia mi sorgono alcuni dubbi sulle considerazioni biologiche da voi avanzate che porterebbero da una psicosi strictu senso (per definizione ingiustificata) a un rischio per la salute umana concreta.
    Innanzi tutto il salto di specie è dimostrato, ma non la pandemia nelle nuove specie ospiti. Muore un gatto, ma non vediamo distese di gatti sui marciapiedi, solo mozziconi di sigarette. I cigni continuano a deliziare i nostri parchi. I poveracci che sono morti in Asia non hanno contagiato nè la loro madre nè il fratello.
    Inoltre è davvero curiosa la tendenza a controlli così precisi su un singolo virus e così tempestivi, quando il prione della mucca pazza ha scorazzato libero per anni. Potrebbe trattarsi di un virus a bassissima infettività che scorrazza anch’esso tra specie e paesi differenti.
    La posizione di favore della Roche desta qualche sospetto, non trova?

    • La redazione

      Rispondendo brevemente alle osservazioni solo per ricordare che:
      • la trasmissione da gatto a gatto del virus A(H5N1) è stata documentata dall’Erasmus Medical Center di Rotterdam nel 2004;
      • il virus A(H5N1) ha causato due epidemie nelle popolazioni di tigri degli zoo Tailandesi (147 abbattimenti) e, in alcuni casi, è stata documentata una trasmissione orizzontale da tigre a tigre;
      • il virus A(H5N1) è ormai diffuso in molti Paesi di tre continenti, per ultimi: Afghanistan, Myanmar e Camerun;
      • il virus A(H5N1) si è trasmesso ai maiali e tra i maiali in Vietnam (1997), in Olanda (2003) e in Cina (2004);
      • il virus A(H5N1) è molto più contagioso e virulento di altri, come il corona virus della SARS, ha un periodo di incubazione limitato e le misure di quarantena potrebbero essere molto meno efficaci;
      • il virus A(H5N1) è altamente patogeno e presenta nell’uomo un tasso di mortalità estremamente elevato, oltre il 50% di decessi, inoltre colpisce prevalentemente bambini e anziani;
      • sono riportati almeno tre casi familiari, due in Vietnam e uno in Tailandia, di trasmissione da uomo a uomo del virus A(H5N1);
      In queste condizioni l’OMS ha invitato a costituire riserve di antivirali efficaci allo stato nella profilassi e trattamento dell’influenza aviaria (oseltamivir-Tamiflu e zanamivir-Relenza) suggerendo la copertura del 25% della popolazione.
      Per l’anno 2006 la Roche, titolare del brevetto del Tamiflu, prevede di produrre 115 milioni di scatole da 10 compresse di oseltamivir, mentre nel 2007 la produzione dovrebbe ammontare a circa 300 milioni di scatole. Le scelte produttive della Roche, che rispondono a logiche di mercato, sono assolutamente inadeguate a sostenere l’impatto di un’eventuale pandemia. In queste condizioni, sarebbe opportuno che gli organismi internazionali operassero per eliminare questa strozzatura nell’offerta di antivirali, promuovendone direttamente la produzione.

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