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Come ridurre il cuneo

La decontribuzione si avrà al prezzo dello scardinamento dell’equivalenza attuariale fra contributi e prestazioni. I maggiori beneficiari saranno le carriere a crescita salariale elevata e i pensionamenti precoci. Ripristinando le iniquità che la capitalizzazione virtuale vuole eliminare. Oltretutto, è un provvedimento inutile per la competitività delle imprese. Alla restituzione di una parte dei contributi si potrebbe invece arrivare attraverso la cancellazione della reversibilità. A beneficio anche del tasso di partecipazione femminile al lavoro.

Nella sua prima versione, la riforma pensionistica del Governo Berlusconi prevedeva una riduzione dell’aliquota contributiva (decontribuzione) “da zero a cinque punti“. Incalzato dai sindacati e dalla sinistra, che gridarono alla bancarotta delle gestioni previdenziali, il Governo fu gradualmente indotto a desistere. In verità, il ministro Maroni potrà sempre dire di aver optato per l’estremo inferiore del curioso intervallo di scelta che si era dato.

Il fascino perverso della decontribuzione

Superando con disinvoltura ogni contraddizione, in piena campagna elettorale il leader del centrosinistra ci ripensa e punta in direzione dell’estremo superiore dell’intervallo Maroni, proponendo uno sgravio secco di cinque punti. Il leader della Margherita gli fa eco. Ecco perché la decontribuzione sembra avere molte chance in più nella prossima legislatura, non potendo più l’opposizione (qualunque essa sia) credibilmente contrastare il Governo che la proponesse. Poiché la competitività è l’obiettivo di entrambe le proposte, la vecchia del centrodestra e la nuova del centrosinistra, la decontribuzione andrà a vantaggio delle imprese piuttosto che dei lavoratori.
Il buco nelle gestioni previdenziali è soltanto uno dei prezzi che la decontribuzione farà pagare. L’altro, più rilevante, è lo scardinamento dell’equivalenza attuariale fra contributi e prestazioni: il principio fondamentale sul quale è costruito lo schema a capitalizzazione virtuale, riduttivamente chiamato “contributivo”, varato nel 1995 con la più importante e innovativa, benché migliorabile, riforma pensionistica di questo paese. Fin dall’origine incrinato dalla furbesca invenzione della “aliquota di computo“, che per i lavoratori dipendenti supera di 0,3 punti quella “di finanziamento“, l’equivalenza attuariale verrà travolta dall’ampliamento della forbice fino a 5,3 punti.
Chi non sa far di conto stenta a credere che l’equivalenza attuariale, e perciò la parità di trattamento, possa essere pregiudicata da una forbice uguale per tutti i lavoratori. Eppure, chi scrive ha più volte avvertito che il calcolo finanziario “la pensa” diversamente e che la forbice si risolve in maggiorazioni regressivamente differenziate del rendimento ufficiale (scelto uguale alla crescita economica proprio per garantire l’autonomia del sistema pensionistico, ora negletta). In particolare, si dimostra che i maggiori beneficiari sono le carriere a crescita salariale elevata e i pensionamenti precoci, cosicché la forbice fa rientrare dalla porta di servizio le iniquità che la capitalizzazione virtuale vuole cacciare dall’ingresso principale.
La decontribuzione sarà oltretutto inutile. Fin dagli anni Trenta, quando l’America discuteva su chi dovesse versare i contributi alla Social Security, la teoria economica e l’indagine econometrica hanno in tutte le salse dimostrato che sono i lavoratori (con rinunce salariali) a pagare per intero i contributi previdenziali, compresa la parte formalmente posta a carico delle imprese. Del resto, la traslazione dei contributi datoriali dal profitto al salario è un presupposto ideologico senza il quale la stessa capitalizzazione virtuale perde significato. Ai fini della competitività, la decontribuzione si profila pertanto come un fuoco di paglia destinato a spegnersi nel giro di una breve stagione contrattuale. Quando il fuoco sarà spento, non resteranno che lo squilibrio finanziario e la disparità di trattamento.

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La reversibilità non è un tabù

La decontribuzione (di destra e di sinistra) è la risposta sbagliata a un problema reale, rappresentato dalla compressione che il salario disponibile subisce per effetto del cuneo contributivo più alto del mondo. La restituzione di una parte dei contributi concorrerebbe a rimuovere questa anomalia e a rilanciare la domanda interna in una fase di perdurante stagnazione. Ma un punto dev’essere tenuto fermo: la restituzione non può restare senza effetti sulla prestazione pensionistica.
Se l’importo annuo della pensione dev’essere salvaguardato, allora non resta che ridurre la durata sacrificando la reversibilità. Alla preoccupazione che questa resti indispensabile perché in Italia il tasso di partecipazione femminile è il più basso d’Europa, si risponde che quel tasso è la media di comportamenti differenziati per generazioni e che le donne giovani mostrano propensioni al lavoro simili a quelle degli uomini. Si risponde anche che la irreversibilità della pensione potrebbe consolidare e migliorare questo risultato già spontaneamente raggiunto da un paese che subirà, nei prossimi decenni, il calo demografico più elevato nell’Ocse. La Svezia abolì la reversibilità nel 1970, ed è un fatto che oggi vanta, in Europa, la minor differenza per sesso fra i tassi di partecipazione.
Per rimuovere correttamente la reversibilità in ambito contributivo, occorre ragionare come segue. Poiché nel caso di rendita irreversibile i coefficienti di trasformazione sono di circa il 9-10 per cento più alti, la stessa pensione annua può essere garantita da un’aliquota contributiva del 9-10 per cento più bassa, e cioè pari a 29-30 punti anziché agli attuali 32,7.
La “impropria” nozione di aliquota di computo dovrebbe essere, con l’occasione, smantellata e la nuova aliquota dovrebbe perciò essere sia di computo che di finanziamento. A regime, il minor gettito, generato dalla minore aliquota, sarebbe compensato dalla minore spesa, dovuta alla scomparsa delle pensioni al superstite. In tal senso, la proposta è neutra e non altera la tendenza della capitalizzazione virtuale all’equilibrio finanziario nel lungo periodo.

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Gli squilibri nel medio periodo

Ma nella fase transitoria, destinata a protrarsi per alcuni decenni, la neutralità non è affatto assicurata; anzi è certa la generazione di squilibri. Le ragioni sono ascrivibili alla asincronia fra la riduzione della spesa e quella del gettito contributivo. La seconda, per quanto graduale, comincerebbe da subito perché la minore aliquota sarebbe applicata ai nuovi assunti e, auspicabilmente, ai lavoratori in essere purché, in parte o del tutto, “contributivi” (con meno di 18 anni alla fine del 1995 oppure assunti dopo tale data). Solo interessando una parte cospicua dell’occupazione, la minore aliquota potrebbe effettivamente sollecitare l’aumento immediato dei consumi. Il “buon fine” dei contributi già versati in regime contributivo può essere garantito lasciando che il montante da essi soli formato continui a generare (moltiplicato per il ‘vecchio’ coefficiente di conversione) una componente reversibile della rendita contributiva, oppure concorra (moltiplicato per il ‘nuovo’ coefficiente) alla formazione di un montante unico, destinato a generare una rendita contributiva interamente irreversibile.
La riduzione della spesa, anch’essa graduale, comincerebbe invece con ampio ritardo: la rendita reversibile dovrebbe restare garantita ai già pensionati, ai lavoratori retributivi e a quelli misti per la parte maturata alla fine del 1995.
Il disavanzo, generato dall’asincronia, verrebbe interamente riassorbito nella seconda metà del secolo e raggiungerebbe il massimo nel decennio 2030-40.
Alle obiezioni di carattere finanziario si può rispondere che gli squilibri non sarebbero inizialmente diversi da quelli generati dalla pura e semplice decontribuzione, con la differenza che l’Europa potrebbe giudicare compatibile col nuovo Patto di stabilità un intervento pubblico a carattere temporaneo, teso a consentire una riduzione strutturale della pressione contributiva che si autofinanzia nel lungo periodo. Ma si può anche rispondere proponendo di aumentare l’aliquota contributiva dei lavoratori autonomi, un provvedimento di per sé auspicabile al fine di garantire tassi di sostituzione allineati con quelli di cui beneficia il lavoro dipendente. La concomitanza dei due interventi consentirebbe di tenere in equilibrio i flussi fino al 2020.

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No, il dibattito no!

  1. stefano facchini

    Se è vero che la proposta di Prodi di ridurre il cuneo fiscale di 5 punti netti appare più come un regalo a Confindustria che il risultato di un ragionamento economico (priva quindi di effetti positivi per il sistema pensionistico ma anzi pericolosa per la tenuta a lungo termine dell’ equilibrio tra erogazioni e conferimenti in un sistema contributivo come quello attuale), è a parer mio altrettanto vero che la proposta dell’autore di una graduale abolizione della reversibilità appare quantomeno azzardata.
    Il paragone con il modello svedese non regge ed appare di difficile applicazione nel nostro bel paese, per ovvi motivi di ordine culturale, sociale ed economico. Non dimentichiamo che la Svezia gode del lavoro part-time più diffuso del mondo, di servizi alle madri lavoratrici di prim’ordine, e di assenza o quasi di barriere all’ingresso delle donne alla partecipazione della vita economica, sociale e politica del loro paese.
    Qui in Italia dobbiamo ricorrere alle “quote rosa” per permettere ad una fascia nettamente più debole di cittadini di partecipare alle scelte ed alla crescita della nazione, figuriamoci se possiamo soltanto immaginare un mercato del lavoro che garantisca pari opportunità di accesso, di carriera e di retribuzione a tutte le donne, ed un sistema di servizi che garantisca loro quanto sopra pur essendo madri, per giunta! (sola ed unica condizione che giustificherebbe l’abolizione dell’assegno di reversibilità, altrimenti concepibile come ideologicamente strumentale ed inaccettabile).

    • La redazione

      La Svezia nella quale fu abolita la reversibilità è quella del 1970, l’Italia per la quale propongo di fare la stessa cosa è quella del 2036 e dintorni (quando la riforma contributiva andrà a regime). Con tutta la peggiore volontà, non è pensabile che, a quella data, il tasso di partecipazione delle donne italiane riesca ad essere inferiore a quello delle donne svedesi di 66 anni prima. E quand’anche la reversibilità fosse abolita (pro quota) anche per i lavoratori parzialmente contributivi (che avevano anzianità inferiori a 18 anni alla fine del 1995) il confronto andrebbe pur sempre fatto fra contesti che distano fra loro quasi mezzo secolo.
      Svezia a parte, l’invecchiamento demografico dei prossimi decenni (il più acuto in Europa) non consentirà all’Italia di fare a meno del lavoro femminile, del quale l’abolizione della reversibilità potrebbe essere, al contempo, causa ed effetto.
      Il vero problema è che una riforma concepita per consentire risparmi strutturali fra molti anni sarebbe, in realtà, costosa nel frattempo. Il costo sarebbe lo stesso della decontribuzione ma nel lungo periodo esso avrebbe la possibilità di ripagarsi, e il principio contributivo non verrebbe infranto né ora né mai.

  2. Pietro Rizza

    Mi chiedo quale sia il vantaggio reale di azzerare la reversibilita’. Di fatto non e’ altro che un taglio mascherato ai benefici pensionistici. Se il lavoratore non soffre di “illusione monetaria” e ragiona secondo la teoria del ciclo vitale, tagliare i benefici o azzerare la reversibilita’ hanno lo stesso impatto in valore atteso. Tuttavia azzerare la reversibilita’ significa aumentare l’incertezza del lavoratore: ricade su di lui il rischio di una vita straordinariamente lunga del coniuge. Vogliamo questo in un mercato che soffre dell’assenza di annuities?
    L’unico effetto puo’ essere quello di incentivare l’offerta di lavoro femminile. Ma l’autore giustamente sottolinea che le giovani donne di oggi lavorano quasi quanto gli uomini.
    Discorso a parte: quando un lavoratore capisce che la riduzione del cuneo e’ un gioco a somma zero per lui, dovrebbe semplicemente risparmiare l’intero ammontare extra e metterlo in un fondo pensione (che rende piu’ del tasso di crescita del PIL). Cosa che potrebbe alleviare il problema delle pensioni troppo basse che la Dini consegnera’ ai pensionati di domani.
    Come dice l’autore, la riduzione del cuneo fiscale tramite decontribuzione e taglio dei benefici rischia di essere un fuoco di paglia. Avrebbe piu’ senso usare quelle risorse per finanziare la ricerca delle imprese.

  3. Leonardo Rosselli

    La decontribuzione, come spiegato dall’articolo è interessante a patto che si spieghi che l’obiettivo è di incentivare il lavoro a tempo determinato annullando il differenziale dei costi tra atipici e tipici per le fasce basse di reddito. Per il resto è bene tenere presenti che la decontribuzuione è un modo per chiamare la riduzione dei salari. Perchè invece non finanziarla con un aumento dell’età pensionabile modificando la riforma Berlusconi aumentandola a 65 anni? Così la decontribuzione si autofinanziarebbe e un lavoratore saprebbe di versare un po di meno, ricevendo quindi un netto più alto, compensato dal fatto che verserà per più anni i contributi. Ho fatto un piccolo conto e credo sia sotenibile una riduzione di 1.5 punti ogni anno di aumento dell’età pensionabile. Oltretutto è irrealistico pensare che sia sostenibile un sistema slegato dalla aspettativa media di vita. Inoltre potremmo recuperare ulteriori risorse abolendo o riducendo sensibilmente le pensioni di reversibilità questo servirebbe per una progressiva riduzione della fiscalità generale a partire dall’Irap che grava impropriamente e perniciosamente sul costo del lavoro.
    La soluzione ideale, secondo me, sarebbe quella di cambiare il paradigma stesso del nostro sistema pensionistico, privatizzandolo completamente sul modello cileno.

  4. Rossi Mario

    Non sono un matematico ne uno statistico ne un economista ma vi sottopongo il mio pensiero.
    Per risolvere il problema, o meglio tanti problemi, occorre usare un calcolo attuariale calcolando quanti anni di pensione si debba riconoscere rispetto alla durata media della vita e non il raggiungimento di un’età prestabilita. Mi pare che in origine si conteggiasse una durata media della pensioni di vecchiaia di otto anni, poi sono venute le baby pensioni, le pensioni di anzianità e, per fortuna, la vita media si è allungata. Non so quanto sia la vita media di una pensione, ma penso che ormai sia molto lunga: 20, 25 anni?
    Il secondo problema è che, a mio avviso, il pensionamento non crea nuovi posti di lavoro, ma aumenti la spesa corrente, brucia risorse, riduce gli investimenti e al contrario crea disoccupazione
    A questo punto un allungamento della vita lavorativa mi pare giustificabile anche oltre i sessantacinque anni tanto per gli uomini che per le donne.
    La quota di contributo IVS destinata alla riduzione potrebbe avere tre destinazioni: riduzione del costo del lavoro, riduzione del contributo a carico del dipendente, intensificazione dell’attivitò di riqualificazione degli ultra quarant’enni estromessi dal lavoro a causa delle nuove tecnologie.
    Poichè anch’io sono un elettore e come tutti mi auguro che ogni riforma riduttiva sia applicata agli altri, a sessant’anni con quarantanni di contribuzione spero di godermi 30 anni e più di pensione in considerazione che mio padre la percepisce da quasi quaranta, voglio vedere chi ha il coraggio di fare una simile sensata riforma.

  5. lucia

    sono d’accordo con l’abolizione della reversibilità, ma una donna che rimane vedova a 33 anni con un bambino di 7 anni come fa a vivere? allora l’alternativa alla reversibilità sarebbe quella di garantire un lavoro a chi rimane da sola.
    E poi mi domando perchè non abolire invece le pensioni d’oro? si può vivere dignitosamente anche con una pensione di 1300 euro al mese.
    E poi sono anche convinta che la reversibilità è un diritto, perchè non è altro che la maturazione degli anni di servizio, in caso di dipendenti pubblici o altro.

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