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Quanto è difficile l’e-government

Leggi e regolamenti hanno rimodellato i più minuti aspetti organizzativi e tecnologici del back office. Lo sforzo compiuto dal legislatore per conservare un aspetto familiare alle rappresentazioni informatiche degli atti amministrativi è ammirevole, ma rischia di essere vano. Ha ancora senso cercare di adattare il diritto amministrativo all’informatica? Forse, prima di parlare di politiche di settore bisogna concordare su una visione: a quale trasformazione della pubblica amministrazione deve servire l’e-government?

L’e-government non consiste nella informatizzazione dello Stato che in Italia si può considerare praticamente conclusa. (1) Ma è piuttosto, secondo una definizione dell’Ocse (2), un processo che “migliora l’efficienza, contribuisce alle riforme, aiuta a rafforzare la fiducia tra governi e cittadini e mette alla prova i modi di pensare tradizionali”.
La speranza che le nuove tecnologie scatenino un processo spontaneo e duraturo di riorganizzazione della pubblica amministrazione, risolvendo di passaggio anche tutti i suoi problemi storici, non pare purtroppo fondata. L’esperienza internazionale mostra che il successo dell’e-government richiede strategie innovative che, oltre a digitalizzare i dati e mettere online i servizi, puntino a modificare la pubblica amministrazione. Forse è per questo che nel mondo, secondo uno studio delle Nazioni Unite, tra il 60 e l’80per cento dei progetti di e-government fallisce. (3)
Anche se la realtà è certamente molto più complessa, è utile esaminare concisamente due casi estremi e un caso, per così dire, “normale” di e-government.

E-government superfluo e di successo

L’esempio delle radio Vhf per la nautica mostra che automatizzare processi lunghi e involuti può essere superfluo. Per tenere a bordo di un gommone l’indispensabile radio Vhf è necessario il rilascio di un “certificato limitato di radiotelefonista” e di una “licenza di esercizio” da parte del ministero delle Comunicazioni. Dai siti web degli Ispettorati territoriali delle comunicazioni è possibile scaricare i moduli delle domande, ma è una piccola comodità che non migliora l’economia del processo. Il cittadino deve fornire due volte le stesse informazioni anagrafiche, autocertificare il possesso di “conoscenze e attitudini” relative alla radiotelefonia (un tempo accertate da un esame che però è stato soppresso), effettuare un pagamento di 0,52 euro per la cui riscossione lo Stato spende senz’altro di più, autenticare una foto e allegare una copia del certificato di omologazione della radio, emesso dallo stesso ministero delle Comunicazioni.
Questo processo potrebbe essere automatizzato, ma ne varrebbe realmente la pena? Se il cittadino trovasse nelle confezioni delle radio Vhf una sorta di patente da compilare e rispedire all’Ispettorato rinunceremmo con questo a qualche garanzia fondamentale?
All’estremo opposto, ci sono casi come il fisco telematico, introdotto con la riforma del sistema fiscale italiano del 1997, con i quali l’e-government ha semplificato i processi producendo grandi risparmi. (4) I costi di trasformazione sono stati assorbiti nei costi operativi dell’Agenzia delle Entrate, che ha dichiarato risparmi di 90 milioni l’anno di euro stimando inoltre in 200 milioni il risparmio dei contribuenti che inoltrano le dichiarazioni via Internet anziché tramite un consulente fiscale.
È stato necessario intervenire sul fronte normativo (unificazione delle dichiarazioni e dei pagamenti, riduzione del numero delle tasse), organizzativo (accorpamento degli uffici fiscali e riorganizzazione del ministero delle Finanze, creazione dell’Agenzia delle Entrate) e tecnologico (riorganizzazione dei sistemi, servizi online), ma questi interventi impegnativi sono stati realizzati in buona parte all’interno di una singola amministrazione.
In molti altri casi, come quello del protocollo informatico, l’e-government mostra insieme le sue potenzialità e la grande complessità di attuazione. Dieci anni fa, secondo uno studio dell’Aipa, Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, le attività di protocollazione delle amministrazioni centrali richiedevano 15mila uffici e assorbivano 50mila anni-uomo. (5) Complessivamente si stimava una spesa di 20mila miliardi di lire l’anno, cioè 14 miliardi di euro attuali, per svolgere processi che, secondo gli autori dello studio, potevano “essere utilmente collocati tra quelli in cui l’intervento dell’informatica procura i più ampi margini di utilità e, quindi, di miglioramento dei servizi che ci si attende dall’azione amministrativa”.

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L’attività di Aipa e Cnipa

Buona parte degli interventi normativi, tecnologici e anche organizzativi succedutisi negli anni sono dovuti all’Aipa e, dal 2003, al Cnipa, Centro nazionale per l’informatica nella Pubblica amministrazione. (6) Oggi, sulla base dei dati disponibili, gli uffici di protocollo sono diminuiti del 20 per cento e i documenti protocollati in modalità informatica arrivano al 40 per cento del totale. (7) Allo stesso tempo, il personale addetto al protocollo sarebbe diminuito solo del 3 per cento mentre le amministrazioni interessate stimano in circa un euro per documento (circa 50-60 di euro milioni l’anno) i costi di realizzazione e gestione del protocollo informatico.
Le ricadute positive della digitalizzazione dei flussi documentali sono innegabili, ma ulteriori interventi di tipo organizzativo, particolarmente da parte delle singole amministrazioni, porterebbero a maggiori benefici. Se il protocollo informatico potesse operare soprattutto su comunicazioni elettroniche le sue potenzialità si realizzerebbero pienamente. Invece, solo il 5-10 per cento dei documenti viaggia via posta elettronica e di questi ben il 64 per cento riguarda scambi informativi interni alla pubblica amministrazione.
Per complicare ulteriormente le cose, nella società dell’informazione si lavora sempre meno con i documenti e sempre più con dati informatici grezzi contenuti nei sistemi informatici di back office. (8) In altre parole, i fatti amministrativi non sono necessariamente contenuti in fascicoli di carta o in file firmati elettronicamente ma sempre più spesso sono prodotti da elaborazioni su archivi informatici che, per ragioni storiche, ricadono sotto responsabilità eterogenee. Sostituire a un concetto di protocollo incentrato sul documento un altro più adatto a questo contesto richiede approcci e strumenti diversi.

Una visione per la pubblica amministrazione

L’e-government contrasta l’arretratezza amministrativa, oggetto in Italia di studi autorevoli oltre che di un precedente intervento su questa rivista. (9) Un maggiore coordinamento tra e-government e riforma amministrativa sembra tra gli obiettivi del nuovo esecutivo.
Il “buon andamento” dell’azione amministrativa previsto dall’articolo 97 della Costituzione si dovrebbe tradurre nella capacità di governare i processi amministrativi anche attraverso i sistemi informatici nei quali essi sono ormai materializzati, con lo scopo di creare maggiore valore pubblico. (10) Dopo il Testo unico sulla documentazione amministrativa e il Codice dell’amministrazione digitale si tratta probabilmente di intervenire ancora sulla semplificazione dei rapporti giuridici tra Stato e cittadini, come pure sull’adeguatezza delle architetture informatiche e sul controllo della qualità dei dati. (11)
Lo sforzo compiuto dal legislatore per conservare un aspetto familiare alle rappresentazioni informatiche degli atti amministrativi è considerevole, ma ci si può forse chiedere se abbia ancora un senso adattare il diritto amministrativo all’informatica. Anche per l’e-government, prima di elaborare una politica di settore bisognerebbe rispondere ad una domanda: verso quale modello di pubblica amministrazione deve tendere l’e-government?

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(1)
Cnipa, Rapporto 2004 sulle attività, pag. 12 (
www.cnipa.gov.it).
(2) Cfr. l’e-Government Project sul sito Ocse (
webdomino1.oecd.org/COMNET/PUM/egovproweb.nsf).
(3) UN Department for Economic and Social Affairs, E-Government Readiness Assessment Survey, 2003.
(4) S. Barbuti, The Costs and Benefits of “Fisco Telematico”, eGEP 2nd Workshop “Toward a European eGovernment Measurement Framework and Economic Model”, Bruxelles, 2005 (
www.rso.it/eGEP).
(5) Aipa, Studio di prefattibilità sul Sistema di gestione dei flussi di documenti (Sistema GEDOC), 1997.
(6) Cfr. il sito del protocollo informatico (
protocollo.gov.it) per i dati più recenti e per una rassegna della normativa.
(7) “Protocollo informatico e gestione dei flussi documentali nella Pubblica amministrazione centrale – Stato di attuazione”, in I Quaderni Cnipa n° 22, marzo 2006, pag. 51 ss.
(8) Con front office e back office si indicano le strutture e i processi di un’organizzazione che si occupano rispettivamente di interagire con gli utenti all’esterno e di gestire le attività all’interno.
(9) Cfr. ad esempio L’Italia da semplificare, a cura di S. Cassese e G. Galli, Il Mulino, 1998.
(10) G. Kelly, S. Muers, Creating Public Value, Strategy Unit, UK Cabinet Office, 2002.
(11) Cfr. il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (Dpr 445/2000) e il Codice dell’amministrazione digitale (decreto legislativo 82/2005).

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  1. alessia

    Buongiorno,

    ho letto con molto interesse l’articolo e mi trovo pienamente daccordo con quanto indicato.

    L’avvento dell’informatica nella pubblica amministrazione è paragonabile alla rivoluzione industriale. Ahimè però siamo ancora agli albori. L’ostacolo maggiore ritengo però sia da annoverare nel cambio di mentalità che tale rivoluzione implica. Senza dimenticare che l’utilizzo delle nuove tecnologie porta, inevitabilmente, ad una riduzione della forza lavoro. Quindi è facile immaginare chi siano i più accaniti difensori dello status quo attuale.

    Cordiali saluti
    Alessia

    • La redazione

      Grazie per il suo commento. Francamente non so da che parte provengano le maggiori resistenze all’e-government. Se comunque derivassero dalla paura di perdere il lavoro sarebbero resistenze di tutto rispetto, anche se forse non paragonabili ai traumi sociali della rivoluzione industriale. A mio parere, finché gli obiettivi dell’e-government non verranno fissati con riferimento alle vere potenzialità di una moderna pubblica amministrazione, non è neanche appropriato parlare di resistenze ma piuttosto di carenza di visione. Un problema politico, quindi, oltre che culturale.

  2. Manzi

    Che occorra una rivoluzione elettronica della P.a è vero.uno dei presupposti è la carta di identità elettronica che permette di dialogare fra cittadino e stato.ma c’è un ma la carta nonostante tutte le garanzie della privacy contiene dati biometrici impronte e immagini del volto che possono essere usate anche in modo poco democratico.Una costituzione democratica deve pensare che uno strumento possa essere usato una volat introdotto anche senza la vigenza della costituzione.Immaginatevi un colpo di stato e la polizia che cerca ad esempio solo i marocchini( borghezio docet) per metterli al rogo.In un paese dove non si sa chi a messo le bombe alal stazione di bologna e a piazza fontana e ministri sono accusati di aver violato anagrafi ( vedi la vicenda di roma) non credo che ci potra mai essere fiducia fra cittadino e stato.Io non cedero mai le mie caratteristiche biometriche
    Vi saluto

    • La redazione

      E’ difficile non condividere le sue preoccupazioni. Subito dopo la loro adozione le nuove tecnologie vengono spesso gestite male, magari quel tanto che basta per motivare i peggiori timori. Si potrebbe rispondere che in passato in regimi più oppressivi se la sono cavata egregiamente anche senza carta d’identità elettronica. Credo però che siano proprio le nuove tecnologie ad offrire le migliori garanzie contro un loro cattivo uso, a patto di comprenderle e di usarle saggiamente. Grazie alla diffusione, nei secoli scorsi, delle registrazioni anagrafiche oggi ha senso parlare di diritti del cittadino. Certo, inizialmente le tecnologie erano elementari (registri, timbri, firme) ma hanno prodotto comunque effetti negativi. Ad esempio, chi sfoglia un registro anagrafico non lascia alcuna traccia. Con la creazione di archivi anagrafici informatici diventa invece possibile perseguire violazioni come quella da lei citata. E comunque se il custode della casa apre intenzionalmente la porta ai ladri non è più un problema né di tecnologie né di organizzazione.

  3. andrea

    Va bene guardare avanti, proiettarsi nel futuro, parlare di II e III fase e-government, e-democracy ect., però le “domande” (non è più correct parlare di “istanza”) che si possono inoltrare in via telematica sono ben poche, figurarsi la conclusione di negozi o atti giuridici; il processo telematico è lontano da venire. A me pare che il mondo, un certo mondo (quello dell’informatin society) vada una velocità e la p.a. ad un altro. Quanti sono i siti pubblici accessibili? Quanti procedimenti amministrativi possono essere iniziati, trattati e conclusi digitalmente? Quando sarà possibile superare l’obsoleta pratica della notifica di un pezzo di carta?

    • La redazione

      Informatizzare significa introdurre i sistemi informatici in una certa attività. Le banche si sono informatizzate molti decenni fa, ma la maggior parte dei loro clienti sono ancora costretti a rivolgersi agli sportelli per compilare moduli del tutto analoghi a quelli della pubblica amministrazione. Poche banche italiane hanno messo i clienti in condizione di svolgere tutte le proprie pratiche online, e quasi nessuna si astiene dal fare pagare un sovrapprezzo per questi servizi (che alle banche procurano rilevanti economie). In altri settori l’informatizzazione è anche meno avanzata e di servizi online non se ne parla neanche. Un grande produttore europeo di automobili sollecita sul proprio sito italiano a richiedere informazioni sulle promozioni in corso via e-mail, ma se uno prova a farlo gli rispondono di passare in filiale. Sono d’accordo con lei: l’information society va ad un’altra velocità ma a mio parere lo Stato, almeno in Italia, non è particolarmente lento.

  4. David Harris

    Ho apprezzato l’articolo e, condivido i contenuti ma temo che non affronta due degli aspetti più spinosi nel processo di ammodernamento.
    Visto che l’utilità (anzi la necessità) di accompagnare un processo di informatizzazione con un contemporaneo processo di riorganizzazione sia arcinoto (con almeno 25 anni di ricerca accademica e industriale sull’argomento), mi chiedo perché si continua a procedere senza?
    Credo inoltre che in Italia la tendenza di spingere per una rapida diffusione dell’informatizzazione (per godere dei benefici di servizi più efficienti) si contrasta con il fatto che non sia sempre possibile realizzare – almeno nel breve periodo – uno dei vantaggi ottenibili con l’informatizzazione di un ente (che sia banca o pubblica amministrazione): la riduzione dei costi operativi (ad esempio la riduzione del personale) a fronte degli investimenti in tecnologia, innovazione dei processi e formazione.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      I temi da lei sollevati sono spinosi per molti motivi. Le pubbliche amministrazioni presentano caratteristiche simili a quelle di qualsiasi operatore in un mercato non liberalizzato, comprese la maggiore rigidità organizzativa e una certa indifferenza ai costi operativi. Ma se l’obiettivo resta la produzione di maggiore valore (pubblico) con minori risorse, mentre un mercato può evolvere attraverso le politiche di liberalizzazione e la concorrenza, le amministrazioni dello Stato possono fare affidamento in ultima analisi solo su leggi e direttive. Può essere consolante notare che in Italia l’evoluzione organizzativa spesso è lenta anche dove le forze sembrerebbero più libere di agire, come nelle piccole e medie imprese o nelle banche, realtà nelle quali l’informatizzazione o non attecchisce facilmente o non va sempre incontro alle attese dei clienti. Ho comunque dei dubbi che dall’e-government sia giusto attendersi vantaggi soprattutto come strumento di riduzione dei dipendenti pubblici che in Italia, secondo dati OECD-PUMA del 2002, non sembrano particolarmente numerosi. Forse i maggiori ritorni, anche a breve termine, si avrebbero da un suo uso per modernizzare la società, ad esempio nella direzione “scandinava” indicata da Anthony Giddens su “la Repubblica” del 7 giugno.

  5. Elio Gullo

    Mi permetto di sollevare un “piccolo” problema: la stabilità normativa delle norme e regole che trattano dell’informatica nelle PA. Il famigerato Codice dell’amministrazione digitale è stato già modificato due volte dalla sua emanazione e non ha ancora definitivamente risolto i problemi dell’uso della firma elettronica (quale delle 2 o 4 previste?) da associare ad un documento elettronico (le amministrazioni trattano documenti così come definiti nella L.241/90. La definizione di “documento elettronico” è più povera e sostanzialmente diversa da quella di documento amministrativo) per garantirne una conservazione e validità almeno all’interno del tempo di prescrizione (5 o 10 anni).
    Finchè non si rimuoverà questo “piccolo” ostacolo, baloccarci con il fatto che il fisco telematico è un successo sarà utile per qualche convegno, ma agli italiani – latu sensu – non ne verrà granchè in termini di risparmi e/o qualità dell’amministrazione.
    La stabilità delle norme, dei codici e dei comportamenti è un banale incentivo ad osare, ma se queste cambiano costantemente e, quando non lo fanno, è già chiaro che non risolvono i problemi per i quali sono state create, perchè mai le amministrazioni (e i loro funzionari e utenti) dovrebbero adottarle? Non possiamo permetterci di “sperimentare” il cambiamento. Dobbiamo solo farlo e con decisione.

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