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Un taglio alle squadre. E il campionato torna bello

Per risolvere la crisi del calcio non serve una superlega europea. Meglio tornare a una superlega italiana, ovvero a una serie A a sedici squadre. Con meno gare, crescerebbe la qualità del campionato e la perequazione nella distribuzione delle risorse derivanti dai diritti televisivi lo renderebbe più serrato. Minore anche il rischio di combine. Soprattutto, i club potrebbero ridurre le “rose”, uno strumento più efficace dei salary cap per l’abbattimento dei monti-salari. Con i play off, poi, potrebbero esserci vantaggi anche nella cessione dei diritti tv.

Mentre proseguono le inchieste sul sistema di corruzione nel nostro calcio professionistico, si moltiplicano le ricette degli analisti per uscire dalla crisi. Una crisi che sostanzialmente affonda le sue radici nella metà degli anni Novanta, quando nel settore si verificarono due importanti shock esogeni.

Le “colpe” di Bosman e della pay-tv

Nello scorso decennio, la liberalizzazione del regime di circolazione degli sportivi professionisti, seguito alla famosa “sentenza Bosman” di fine 1995, e l’introduzione della tv a pagamento, che in Italia inizia a trasmettere nel 1993, hanno profondamente modificato gli economics del calcio professionistico, creando le premesse per l’esplosione del divario di potenziale economico-finanziario tra squadre. E che oggi appare aver favorito i reati su cui indagano i magistrati.
Ma tutto ciò non basta ancora a spiegare la china degli ultimi anni, con lo scudetto assegnato con monotonia così stucchevole da mandare in soffitta la definizione di “campionato più bello del mondo”.
La ragione di questa evoluzione sta nella errata valutazione delle conseguenze di quegli shock da parte di Lega e Figc. L’euforia che accompagnava la sostenuta crescita degli indicatori economici, e soprattutto di quelli borsistici, applicata al calcio, ha illuso i suoi dirigenti che anche il pallone dovesse essere regolato esclusivamente in nome del mercato.
Se errare è umano, tuttavia perseverare è diabolico. Di fronte al declino di interesse del campionato, la generalità degli osservatori avrebbe dovuto prendere atto che la logica puramente economica mal si attaglia alle competizioni sportive.
Non si tratta di demonizzare il diffondersi di logiche di mercato nel mondo dello sport in base ad anacronistiche petizioni di principio. Ma di riconoscere che il calcio è un’”industria” con importanti peculiarità: l’offerta del “prodotto” dipende dalla predisposizione di una serie di accordi preventivi in cui più operatori concorrenti si coordinano per collaborare nella produzione dell’output, di norma in apposite associazioni di categoria e in Italia nella Lega nazionale professionisti. Questo aspetto apre una serie di questioni sconosciute ad altre industrie, ove si pensi che un fattore chiave del successo complessivo di una competizione, e quindi delle società che vi partecipano, oltreché di quella che vi primeggia, è l’equilibrio che nella stessa si crea. Infatti, mentre nella maggior parte delle industrie i concorrenti sono di norma beneficiati dalla scomparsa di un competitore, nel calcio la partecipazione di un numero minimo di concorrenti è addirittura condizione necessaria per l’esistenza dell’industria stessa. In condizioni limite, il fallimento di una società calcistica può dunque danneggiare direttamente le altre. Più in generale, l’eccessivo squilibrio nelle competizioni sportive può innescare un circolo vizioso che arriva a minare il funzionamento della Lega: partite più squilibrate attireranno meno spettatori; il conseguente calo di ricavi inciderà in seguito sulle società meno dotate finanziariamente, che si indeboliranno ulteriormente; ciò comporterà instabilità e tendenze centrifughe, dal momento che le squadre di vertice troveranno conveniente coalizzarsi tra loro al fine, tra l’altro, di valutare l’opportunità di “secessioni” volte a costituire super-leghe.
Tutti questi fenomeni sono in atto da tempo nel nostro calcio professionistico, che conosce un crescente divario tra il gruppo di società di vertice e le altre, sia sotto l’aspetto sportivo, sia sotto quello gestionale ed economico.

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L’esperienza Usa non fa per noi

Proporre una super-lega europea sul modello statunitense significa consacrare questa deriva e affidarsi a una soluzione che appare lontana dalla tradizione sportiva europea e destinata a emarginare definitivamente la “provincia”, che costituisce la base della piramide sociale degli sport professionistici più popolari in Europa. Dobbiamo invece riflettere sulle altre riforme possibili. La più immediata è “tornare” alla super-lega italiana, riducendo il numero delle squadre partecipanti alla serie A alle antiche 16.
Con meno gare, crescerebbe la qualità del campionato, che invece colerebbe a picco, unitamente al seguito del pubblico e alle risorse da “botteghino”, tv e sponsor, se le grandi giocassero solo in Europa. La perequazione nella distribuzione delle risorse derivanti dai diritti televisivi, doverosa e, pare, di prossima reintroduzione, consentirà campionati più serrati. E con la noia diminuirà anche il rischio di combine, direttamente proporzionale al numero delle squadre che a un certo punto del campionato sono “salve”, ma non possono più ambire a un posto in Europa. Un campionato più corto, caldeggiato dalla Fifa, consentirebbe inoltre di dare maggiore spazio alle selezioni nazionali, rafforzando i valori dello sport. Soprattutto, permetterebbe; e di ridurre le “rose”, contribuendo più efficacemente dei salary cap all’abbattimento degli elevatissimi monti-salari, che costituiscono un’insostenibile zavorra per i bilanci delle squadre, a sua volta generatrice di ulteriori divari tra squadre ricche e povere.
Se, poi, alla riduzione del numero delle squadre si accompagna la graduale introduzione di play-off e play-out, avremmo addirittura un aumento del numero delle partite interessanti e avvincenti, con vantaggi anche per la cessione dei diritti tv, compresa una ipotizzabile crescita del loro monte complessivo.

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La grande sete

  1. Marco

    Non condivido l’idea che “la logica puramente economica” sia il male del calcio italiano. Imprenditori lungimiranti valutano gli obiettivi aziendali in termine di accrescimento nel lungo periodo, ed elementi quali la trasparenza e la solidità dei bilanci, il riconoscimento dell’importanza di regole rispettate da tutti, la garanzia di competizione leale ed aperta anche a chi dispone di minori risorse economiche, sono indubbiamente elementi che un buon manager saprebbe riconoscere come necessari alla creazione di valore nel lungo periodo. Credo non sia un caso che le società più in crisi siano Roma, Lazio, Parma, i falliti Napoli, Torino e Perugia, l’ex Como di Preziosi, sparito dal calcio professionistico. L’esperienza inglese credo dimostri molto bene come il calcio sia compatibile con il mercato, purchè sia un vero mercato: regole chiare, trasparenti, dove chi sbaglia paga. Il caso di Ashley Cole, giocatore dell’Arsenal che rischiò la squalifica per contatti irregolari coi manager del Chelsea, cosa che costò sanzioni al Chelsea medesimo, è esemplificativo.
    Il problema secondo me sta nel fatto che nel calcio, come in ogni altro settore, si parla di apertura al mercato ma in realtà questa apertura non c’è, se non nei limiti necessari a beneficiare i leader di oggi: esattamente come con le banche, la telefonia o l’energia. L’ottica degli imprenditori è troppo impegnata a curarsi del beneficio immediato per apprezzare il vantaggio nel lungo termine di una vera apertura.

    • La redazione

      L’articolo in realtà non dice che “la logica puramente economica” sia il male del calcio italiano, ma una cosa leggermente diversa, e cioè – volendo semplificare in maniera brutale – che il successo di una società calcistica
      professionistica dipende anche dal fatto che le concorrenti continuino perlomeno a esistere. Per esemplificare, si può citare uno scambio di battute a una infuocata assemblea di Lega di qualche anno fa: “Voi siete il Cagliari perché giocate con la Juve”, disse Moggi al presidente cagliaritano
      Cellino, il quale piccato rispose “Voi siete la Juve perchè giocate col Cagliari” (per inciso, era in discussione la ripartizione dei diritti tv). Chi aveva ragione? Tutti e due, e questa è la peculiarità che abbiamo cercato di evidenziare e che differenzia il calcio da altre industrie. Non si potrebbe certo dire – per fare un esempio riferito ad un altro settore –
      che la Fiat è la Fiat perchè si confronta, chessò, con la Peugeot …

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