“Calciopoli” ci ricorda che l’asset principale delle società sportive professionistiche non è allocato dal mercato, bensì dall’ordinamento sportivo, in base a regole e principi, sostanziali e procedurali, che poco hanno a che vedere con codice civile e codice di procedura civile. Non è dunque possibile sostenere la completa omologazione delle società sportive alle “altre” società. Ed è perciò tempo di metter mano alla normativa che le regola, ormai inadeguata, soprattutto perché frutto di riforme parziali e disorganiche.

Con i deferimenti decretati dal procuratore della Figc, i riflettori tornano a illuminare il “lato oscuro” del calcio professionistico italiano. Ciò offre l’occasione per fare il punto sulla disciplina di un settore che se da un lato vanta “numeri” di assoluto rilievo per l’economia nazionale, dall’altro è sottoposto – giustamente, in forza della peculiarità dell’attività svolta dai suoi protagonisti – a un regime giuridico molto particolare.

Uguali o diverse dalle normali spa?

Un regime giuridico che fa sì che la sorte di quelle che sono a tutti gli effetti società di capitali, con volumi d’affari dell’ordine di diverse centinaia di milioni di euro, talune delle quali quotate in Borsa, possa (e debba, per i meccanismi propri dei campionati sportivi) essere decisa in un procedimento certamente sommario se paragonato a quello della giustizia ordinaria, e dal carattere molto meno garantista.
Se osserviamo l’evoluzione legislativa degli ultimi anni, rileviamo che la “specialità” delle società calcistiche si è notevolmente attenuata. (1) In particolare, già all’indomani della sentenza Bosman, con l’eliminazione del divieto di perseguire finalità lucrative, e la possibilità di esercitare – oltre a quella sportiva – attività a quella “connesse o strumentali”, sotto il profilo strettamente formale, è sostanzialmente venuta meno la differenza con le spa di diritto comune.
Anche il controllo in capo alla Figc è stato notevolmente ridimensionato, e agli incisivi poteri di ingerenza nel merito della gestione delle singole società attribuitigli in precedenza si sono sostituiti sin dal 1996 controlli mirati alla sola verifica dell’”equilibrio finanziario”, peraltro circoscritti “al solo scopo di garantire il regolare svolgimento dei campionati sportivi”, configurando sotto questo profilo la Federazione quale vera e propria Authority di controllo settoriale su materie tecnico-economiche che fanno sotto taluni aspetti passare in secondo piano le competenze istituzionali di carattere sportivo, sebbene sull’efficacia del controllo le vicende degli anni passati consentano purtroppo più di un dubbio.
Dal punto di vista contabile-fiscale, infine, la soluzione tampone escogitata con il famigerato decreto legge 282/2002, noto alle cronache come decreto “salvacalcio”, che aveva suscitato la fiera reazione della Commissione europea, è stata abrogata nel giugno 2005. È venuta così meno la possibilità di “spalmare” le perdite in un arco di tempo notevolmente superiore al termine ordinario, consentendo al tempo stesso vantaggi fiscali (in termini di minori imposte future) e patrimoniali (evitando onerose ricapitalizzazioni).
Raccontata così, quella delle società calcistiche sembrerebbe la storia di un’anomalia che si affievolisce sino a scomparire, restituendo le sue protagoniste al destino di tutte le società capitali, che rivendicano dunque “parità di trattamento” con le loro omologhe che operano in settori per così dire più tradizionali, aspirando tra l’altro – in nome del richiamo alla forza salvifica del mercato, così in linea con lo spirito del tempo – al libero accesso ai risparmi dei piccoli investitori.
In realtà non è così, e le vicende di questi giorni lo testimoniano in maniera eloquente.

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Ma l’asset rilevante è il “titolo sportivo”

Non è così perché l’asset di gran lunga più rilevante che queste società sportive possiedono non è iscritto né è iscrivibile a bilancio: si tratta del “titolo sportivo“, ossia il diritto, acquisito secondo le norme dell’ordinamento sportivo, a disputare un determinato campionato. (2) Se considerato sotto il profilo patrimonial-contabile, presenta caratteristiche davvero peculiari. Da un lato, è certamente idoneo a produrre reddito, ed è dunque assimilabile a un bene immateriale, come una licenza o il diritto di sfruttamento di una proprietà intellettuale. Dall’altro, esso non è liberamente trasferibile, neppure in caso di fallimento della società titolare. (3) In caso contrario si negherebbero i fondamentali principi che disciplinano qualsiasi attività sportiva, perlomeno in un sistema giuridico e in una tradizione come la nostra, che mal tollera l’applicazione di logiche di mercato a settori come gli sport popolari, in cui considerazioni di carattere storico-sociale e culturale mantengono un peso così rilevante. Altrove, effettivamente, non è così, come ci mostrano i trasferimenti di “franchigie” delle leghe professionistiche americane da una città all’altra; ma questa è un’altra storia.
Al di là degli ostacoli giuridici, sarebbe difficile, per una amplissima serie di ragioni, ipotizzare che il patron di una provinciale approdata in serie A, desiderando sfruttare un mercato più redditizio, cambi sede sociale e denominazione alla propria società, per rivolgersi, ad esempio, alla vasta e appassionata tifoseria napoletana, temporaneamente priva di una squadra nel massimo campionato.
Allo stesso modo, è difficile ipotizzare una società di diritto comune che rischi di essere sanzionata, con un procedimento che si consuma nel giro di poche settimane, con la perdita del suo principale asset, come si verificherebbe qualora (non ce ne vogliano i rispettivi tifosi) Juventus, Lazio, Fiorentina e Milan fossero retrocesse in un campionato di serie inferiore.
Calciopoli ci ricorda quindi che l’asset principale delle società sportive professionistiche non è allocato dal mercato, bensì dall’ordinamento sportivo, in base a regole e principi, sostanziali e procedurali, che poco hanno a che vedere con codice civile e codice di procedura civile.
Così come qualsiasi analista finanziario guarderebbe con grave sospetto una Microsoft passibile di vedersi privare a tempo indeterminato del diritto di sfruttamento di Windows, peraltro all’esito di un processo inquisitorio e rapido ai limiti della sommarietà, così crediamo che il processo sul calcio sporco debba aprire gli occhi di coloro che sostenevano la completa omologazione delle società sportive alle “altre” società. Come in tutte le circostanze simili, ciò non significa invocare anacronistici e acritici ritorni al passato. Semplicemente, significa valutare soluzioni legislative che consentano di gestire il calcio del nostro secolo senza fingere che le peculiarità del settore non esistano. È tempo, insomma, di mettere nuovamente mano alla legge 91 nel 1981, che mostra sia i segni del tempo sia quelli di riforme parziali e disorganiche.

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(1)
“Specialità” intesa in senso tecnico, quale differenza tra disciplina cui sono sottoposte le società calcistiche e quella comune.

(2) Vedi in proposito l’art. 52, co. 1, delle Norme organizzative interne della Figc.

(3) L’ordinamento sportivo vigente, all’art. 16 Noif, qualifica come “violazione dei fondamentali principi sportivi” – che può comportare la revoca dell’affiliazione alla Figc, e dunque l’espulsione della società coinvolta dall’ordinamento sportivo – la cessione o comunque i comportamenti intesi a eludere il divieto di cessione del titolo sportivo, posto dall’art. 52, co. 2, Noif, il quale stabilisce che “in nessun caso il titolo sportivo può essere oggetto di valutazione economica o di cessione”. Ponendo fine all’incertezza causata dalla previgente normativa, solo nel maggio 2004 le Noif hanno recepito il cosiddetto “lodo Petrucci”, che prevede un’articolata procedura di riassegnazione del titolo sportivo a opera della Figc, peraltro solo in caso di fallimento di società “espressione della tradizione sportiva italiana e con un radicamento nel territorio di appartenenza comprovato da una continuativa partecipazione, anche in serie diverse, ai campionati professionistici di Serie A, B, C1 e C2” (negli altri casi il “titolo” non ha alcuna tutela), escludendo comunque la sua libera negoziabilità.

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