Sono due i punti di forza del sistema americano di finanziamento alla ricerca: la molteplicità delle fonti che erogano le risorse e l’autonomia garantita alle università dall’assenza di un controllo centrale. Anche in Italia esistono vari enti finanziatori e ricercatori in concorrenza per ottenere i fondi. Il problema principale è che sappiamo molto poco dei meccanismi economici e organizzativi che guidano le strategie degli uni e degli altri. Come gli americani nel 1967, dovremmo avviare uno studio indipendente, rigoroso e completo del nostro sistema accademico.

È efficiente il sistema dei finanziamenti pubblici alla ricerca universitaria in Italia? Guido Tabellini, in un articolo sul Sole 24 Ore del 10 maggio 2006, ne richiamava gli “sprechi e inefficienze” e proponeva un confronto con il sistema americano. Mentre in Italia la maggior parte dei fondi pubblici per la ricerca proverrebbero dal ministero per l’Università, negli Stati Uniti, secondo Tabellini, un ruolo dominante sarebbe invece svolto dalla National Science Foundation (Nsf), l’agenzia indipendente fondata nel 1950 per guidare l’intervento federale nella ricerca di base, diretta da Vannevar Bush, già responsabile politico del progetto Manhattan. (1)

Chi finanzia la ricerca

Laddove il ministero italiano sarebbe dominato da logiche politiche e burocrazia, la Nsf sarebbe più flessibile e vicina tanto agli scienziati quanto all’evolversi delle discipline scientifiche. Tabellini propone quindi di “sottrarre il compito di finanziare la ricerca a qualunque ministero e affidarlo invece a una nuova agenzia indipendente” disegnata, appunto, secondo gli schemi della Nsf.
Tanto l’analisi quanto la proposta politica che ho qui brevemente riassunto meritano di essere sviluppati. A questo scopo, però, occorre fare qualche precisazione.
Innanzitutto, va sottolineato che la Nsf divide la responsabilità del finanziamento con molti altri soggetti pubblici, alcuni dei quali sono dei ministeri tanto quanto il nostro e non delle agenzie indipendenti. Come recita la tavola 3 del “National Patterns of Research Development Resources: 2003″ (2), il 46 per cento del totale dei finanziamenti pubblici alla ricerca Usa proviene dal ministero per la Difesa, che è il primo ente finanziatore. La Nsf non è nemmeno seconda, perché questa posizione è occupata dal ministero della Sanità, con il 28 per cento.
Anche alla voce “ricerca di base” la Nsf non risulta affatto dominante, pesando per il solo 12 per cento, mentre il Ministero della Sanità vanta il 56 per cento.
Persino per quanto attiene ai fondi destinati in esclusiva alle università, la Nsf è superata dal ministero della Sanità (67 contro 12 per cento). Di fatto, la Nsf è il primo ente finanziatore solo in economia e scienze sociali, matematica e computer science.

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Una molteplicità di fonti

Queste cifre non devono sorprendere. Fin dal 1977, con la pubblicazione di un classico della storia della scienza come “Centres of Learning: Britain, France, Germany, United States” di Joseph Ben-David, sappiamo che uno dei maggiori punti di forza del sistema di ricerca americano consiste proprio nella molteplicità delle fonti di finanziamento pubblico. Così come le “research universities” americane (pubbliche e private) competono tra loro per accedere ai fondi, le varie agenzie pubbliche competono per accedere ai migliori scienziati. Accade infatti che ci siano sovrapposizioni tra gli obiettivi scientifici delle varie agenzie: Nsf e ministero della Sanità, per esempio, finanziano entrambe la ricerca biotecnologica, così come la stessa Nsf si sovrappone alla ministero della Difesa in alcuni campi della fisica.
La Nsf non è efficiente perché più vicina alla comunità scientifica del ministero dell’Università italiano, o almeno non solo per quello. È efficiente perché deve continuamente legittimarsi, rispetto alle agenzie concorrenti, in forza della qualità dei progetti che finanzia. E per farlo non può accontentarsi di controllare ex ante il rispetto delle regole amministrative imposte ai ricercatori, ma ha bisogno di controllare ex post la qualità del lavoro finanziato.
Va anche osservato che le università americane non hanno un ministero di riferimento forte e visibile come quello italiano per il semplice fatto che nessuna di loro è un’università “federale” direttamente dipendente dall’amministrazione di Washington: alcune sono private, altre sono pubbliche, ma “statali”, cioè dipendenti dalle amministrazioni dei singoli Stati (che non lesinano loro finanziamenti diretti).
Proprio quest’ultimo è l’altro grande punto di forza da sempre riconosciuto alle università americane: l’autonomia loro garantita dall’assenza di un controllo centrale. Ed è per difendere questa autonomia che alla Nsf, nonostante le richieste dello stesso Vannevar Bush, non venne mai affidato in via esclusiva o prevalente il finanziamento della ricerca accademica.

Poca trasparenza

Quello della ricerca accademica americana è un sistema complesso, così come lo è nel nostro paese. Anche in Italia esistono altre fonti di finanziamento alla ricerca oltre al ministero dell’Università, come il ministero della Salute, di cui però conosciamo poco in termini di peso e rilevanza (il rapporto annuale dell’Istat non disaggrega i dati sui fondi pubblici per la R&S per ministero). E anche in Italia esistono università e ricercatori che si muovono in concorrenza fra loro per accedere alle fonti di finanziamento, da qualunque parte provengano.
Il problema principale è che sappiamo molto poco dei meccanismi economici e organizzativi che guidano le strategie tanto degli enti finanziatori quanto dei ricercatori italiani. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti, non esistono studi ripetuti, sistematici e quantitativi in questo senso, né raccolte di dati pubblici di qualità, ad esempio come il rapporto Nsf. Né esiste un vero e proprio “studio fondativo” da cui analisti e amministratori possano partire, ad esempio per raccordare e interpretare i pur interessanti dati bibliometrici raccolti di recente da Comitato di i ndirizzo per la valutazione della ricerca (Civr) e Conferenza dei rettori (Crui).
Nel 1967, in un periodo di grande turbolenza all’interno delle università americane, la Carnegie Corporation fondò l’omonima “Commission on Higher Education”, una istituzione no-profit incaricata di redigere un monumentale rapporto di ricerca sullo stato dell’università americana. La presidenza della commissione fu affidata a Clark Kerr, uomo ed economista davvero indipendente, da poco rimosso dalla carica di presidente dell’università della California sotto le pressioni opposte della contestazione studentesca e del nuovo governatore dello Stato, Ronald Reagan. Pubblicato nel 1973, il rapporto influenzò moltissimo la politica universitaria e scientifica di lì a venire. Ancora oggi la classificazione delle università americane proposta dal rapporto è usata, riveduta e corretta, in molti studi di economia della scienza. Alcuni suoi termini, come “research university”, sono entrati a far parte del lessico corrente. (3)
Prima di imitare questo o quel pezzo del sistema di ricerca statunitense, forse è proprio questa l’esperienza americana che dovremmo affrettarci a ripetere: avviare uno studio indipendente, rigoroso e completo del nostro sistema accademico. C’è una Carnegie Corporation italiana disposta a finanziarlo?

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(1)
La Nsf viene per la prima volta menzionata da Bush nel 1945 all’interno del famoso rapporto del presidente Truman intitolato “Science – The Endless Frontier, tuttora scaricabile dal sito dell’agenzia.
(2) È il rapporto Nsf più recente, disponibile online sul sito dell’organizzazione (www.nsf.gov/statistics/nsf05308).
(3) L’esperienza della Carnegie Commission è ricordata in un recente working paper del center for Studies in Higher Education (Cshe) dell’università di Berkeley
(cshe.berkeley.edu/publications/docs/ROP.Douglass.Carnegie.14.05.pdf).

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