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Trattato di Roma: il germoglio che è fiorito in Europa

Il Trattato di Roma fu firmato per evitare che i disastri della Seconda guerra mondiale si potessero ripetere; solo questo convinse le nazioni a cedere tanto potere anche in campo economico. Ma da allora l’Unione europea è stata tenuta insieme da forze impreviste. Soprattutto la globalizzazione ha insegnato che le politiche nazionali non bastano, e che la cooperazione tra nazioni è l’unico modo per rendere efficaci le politiche economiche.

L’Unione europea ha preso vita in mezzo a circostanze che oggi sarebbero inimmaginabili: è stato questo che ha portato alla creazione di istituzioni sovrannazionali e di regole – il Trattato di Roma del 1957 – che rappresentano il cuore sia delle difficoltà, sia della forza dell’Unione. Al Trattato di Roma si può anche attribuire il fatto che l’integrazione europea si sia raramente fermata o abbia fatto passi indietro. Ma il Trattato ha imposto agli Stati membri un livello di integrazione politica ed economica che oggi sarebbe inaccettabile per la maggior parte delle Nazioni. Se gli Stati membri potessero ridisegnare l’Unione da zero, credo che solo pochissimi accetterebbero ancora di trasferire tanto potere alla Comunità.
Cerchiamo allora di capire come gli Europei abbiano potuto accogliere un documento così radicale come il Trattato di Roma e quali siano le forze che li hanno spinti ad implementarne ed estenderne i rigorosi piani di integrazione.

In principio

Nel 1945 quasi ogni stato europeo era (o era stato recentemente) governato, da una brutale dittatura fascista, era stato occupato da un esercito straniero, o entrambe le cose. I cittadini del tempo non avrebbero potuto che dubitare dell’abilità della sua nazione a governare. Decine di milioni di europei morirono, centinaia di milioni si ritrovarono senza casa, affamati e senza lavoro. Peggio ancora, la Seconda guerra mondiale non era stata uno scherzo della storia: arrivò solo due decenni dopo la carneficina della Prima.
Nel 1945, era chiaro a tutti che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel governo della stessa Europa, e i cittadini dell’Europa erano aperti a cambiamenti radicali. Una linea di pensiero suggeriva che l’integrazione europea fosse la soluzione. In questo schema, la perdita di sovranità nazionale causata dall’integrazione europea era desiderabile – probabilmente era il principale obiettivo dell’esercizio.
Il Trattato di Roma non può essere compreso pienamente senza tenere in considerazione gli obiettivi che aveva in mente chi lo scrisse. I vari elementi di integrazione economica non erano soggetti a calcoli di costi-benefici dei singoli paesi: l’idea era di fondere le sei economie nazionali in un’area economica e così lanciare insieme un progetto di progressiva e sempre più stretta unificazione, con ‘la finalité politique’ come punto di arrivo finale.
Questo lo si vede anche da come si giunse al Trattato di Roma. Il primo evento scatenante ebbe luogo nel 1955. Per contrastare il timore del Soviet, la Germania si unì alla principale organizzazione di difesa dell’Europa occidentale (NATO) e riguadagnò la sua sovranità nazionale. Per assicurarsi che un’altra guerra franco-tedesca fosse impensabile, i Sei volsero i loro obiettivi in una integrazione più forte. La strada della integrazione economica non fu il primo pensiero, ma non essendo riusciti a compiere direttamente una integrazione politica e militare attraverso la Comunità di Difesa Europea e la Comunità Politica Europea, il percorso naturale da seguire fu una vasta integrazione economica. I ministri degli esteri dei Sei si incontrarono nel 1955 per iniziare questo processo.
Una buona parte del Trattato può essere vista come una “corsa al rialzo”. I Sei immediatamente decisero di eliminare tutte le tariffe e quote e di realizzare un mercato unico. Il timore, tuttavia, era che alcuni governi aggirassero le liberalizzazioni con accordi elusivi (quali quelli stipulati negli anni Venti e Trenta). Questo timore alimentò la convinzione che virtualmente ogni elemento di distorsione della libera concorrenza doveva essere eliminato – aiuti di stato, regolamentazioni dei prodotti, monopoli statali, sistema dei trasporti, tasso di cambio, ecc. Poiché sin dall’inizio i Fondatori erano a conoscenza del fatto che il Trattato non poteva prevedere tutte le possibili future distorsioni, crearono una Commissione europea indipendente con potere di sorveglianza e di implementazione del mercato interno. I membri raccomandarono poi di istituire un potere giudiziale indipendente per interpretare il Trattato e risolvere le dispute.
Quando però la CEE divenne operativa, gli obiettivi radicali dei membri fondatori sembravano già un po’ anacronistici. Il confronto Asse-Alleanza era stato completamente rimpiazzato da un confronto Est-Ovest – gli amici di prima erano nemici e viceversa. Inoltre, la situazione rosea dell’economia giocò un ruolo importante. Le Sei nazioni erano riuscite a rimettere in carreggiata le loro economie e stavano sperimentando una crescita che perfino molti Stati asiatici del ventunesimo secolo invidierebbero. Molti europei riguadagnarono fiducia nella capacità dei loro governi di gestire il sistema anche dato il modo spettacolare in cui l’Europa era uscita economicamente e politicamente dalla devastazione del dopoguerra. In breve, la perdita di sovranità nazionale iniziò a sembrare un aspetto negativo e non più positivo, un male necessario piuttosto che un obiettivo in sé. Tuttavia, come gli europei scoprirono nel successivo decennio e continuano a scoprire oggi, il livello di integrazione economica promesso dal Trattato di Roma non era possibile senza una profonda integrazione politica. In breve, l’idea dei Fondatori di utilizzare l’economia come il cavallo di Troia per l’integrazione politica funzionò alla perfezione.

La resistenza ed il nuovo motivo per l’integrazione sovranazionale

A partire dalla crisi della “sedia vuota” di De Gaulle (il boicottaggio francese contro la Comunità nel 1965), fino alle odierne dispute sul taglio delle tariffe nel Doha Round, il meccanismo sovranazionale istituito con il Trattato ha ripetutamente ricevuto resistenze dai leader nazionali. Ciò nonostante, l’integrazione economica e politica non si è arrestata. Le forze trainanti dietro a questo successo sono piuttosto differenti da quelle previste dai fondatori dell’Unione Europea. Gli estensori del Trattato di Roma cercarono di legare gli stati-nazioni europei in un’organizzazione sovranazionale come a significare il superamento delle rivalità nazionali che avevano afflitto l’Europa dalla Pace di Westphalia del 1648.  
Poiché al momento in cui il Trattato divenne operativo i cittadini avevano ormai riconquistato una sostanziale fiducia nei loro governi, le forze favorevoli all’integrazione finirono per essere differenti. Per anni, proprio il timore dell’Unione Sovietica fu la forza promotrice dell’integrazione.
E’ probabile che le vittime del Nazismo non si sarebbero unite alla Germania se non fosse stato per il timore esterno che derivava dalla minaccia sovietica (aiutò anche il fatto che le truppe inglesi e francesi occuparono parte della Germania per 10 anni). Ma, ancora più importante, una forza forse meno visibile che ha guidato l’integrazione europea è ed è sempre stata la globalizzazione – la necessità dei governi nazionali di aumentare il livello di governo di fronte alla loro decrescente abilità di controllare ciò che avviene all’interno dei loro confini con politiche puramente nazionali. In un’area dopo l’altra – iniziando dal commercio internazionale, ma ora raggiungendo la moneta unica, la coooperazione giudiziaria, le politiche per la sicurezza e le imposte – gli statisti europei hanno scoperto che politiche disegnate a livello continentale sono spesso la strada migliore (e a volte l’unica percorribile) per governare le loro nazioni.
Che cosa significa questo? Primo, l’integrazione europea è un fatto e quasi certamente continuerà a rafforzarsi. Anche se la maggior parte dei cittadini europei, specialmente quelli dei nuovi stati membri, ha poca fiducia nei sogni dei Fondatori (“la finalité politique“), la globalizzazione li indurrà a sostenere una integrazione più profonda.
In secondo luogo, i governi dei paesi dell’Unione continueranno a credere che la reazione dell’Europa alla globalizzazione è l’unica sostenibile. È improbabile che altri Trattati di Roma siano firmati altrove, ma le nazioni si stanno sempre più rendendo conto che possono controllare il proprio destino soltanto attraverso la cooperazione internazionale
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Traduzione di Davide Baldi. Una versione dell’articolo è disponibile anche sul sito www-telos-eu-com

English version

The EU started life in circumstances that are almost unimaginable in today’s world. These irreproducible circumstances led to the creation of supranational institutions and rules – the 1957 Treaty of Rome – that are central to almost all of the EU’s difficulties as well as much of its strength. It also accounts for the fact that European integration has rarely stalled or been reversed. The Treaty committed members to a level of economic and political integration that would be unacceptable to most nations in today’s world. Indeed, if EU members could redesign the Union from scratch, I suspect that all but a handful the current EU members would choose a shallower level of supranationality. In this sense, there was nothing inevitable about the European Union; it might never have happened without the Treaty. In my view, the Treaty of Rome is best thought of as the bud whose leaves unfolded over 50 years into today’s European Union. This essay reflects on the process that led Europeans to embrace a document as radical as the Treaty of Rome as well as on the forces that lead them to implement and even extend its sweeping integration plans.

The beginnings

In 1945, a man standing almost anywhere in Europe found himself in a nation which was, or had recently been ruled by a brutal fascist dictator, occupied by a foreign army, or both. Such a man could not help but doubt his nation’s ability to govern. Tens of millions of Europeans were dead. Hundreds of millions of the survivors were homeless, hungry or jobless. Europe’s economy lay in ruins. Worse still, WWII was not freak of history. It came just two decades after the carnage of WWI.

In 1945, it was plain to all that something was desperately wrong with the way Europe governed itself. European citizens were open to radical changes. One line of thinking – the one that eventually led to the EU – suggested that supranational European integration was the solution. In this scheme, the loss of national sovereignty involved in European integration was a plus – indeed it was the main purpose of the exercise. The Treaty of Rome cannot be fully understood without reference to the radical goals that the post-war architects of the Europe had in mind when they wrote it. Its various elements of economics integration were not subject to individual cost-benefit calculations. The idea was to fuse the six national economies into a unified economic area and thus launch a gradual drawing together of the Six into an ever closer union with ‘la finalité politique’ as the end point.

This can be seen in the way the Treaty of Rome came about. The event that triggered the critical first step came in 1955. To counter the Soviet’s perceived threat, Germany joined Western Europe’s main defence organization (NATO) and regained its national sovereignty. To ensure that another Franco-German war remained unthinkable, the Six turned their minds to deeper integration. The economic road was not their first thought, but having failed to move directly to political or military integration via the ill-fated European Defence Community and European Political Community, the natural way forward was broad economic integration. Foreign ministers of the Six met in 1955 to start a process.

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Much of the Treaty’s contents can be viewed as a ‘race to the top.’ The Six immediately agreed that all tariffs and quotas would have to be eliminated and a customs union implemented. The fear, however, was that various governments would offset the trade liberalisation with subtle schemes (many of which had been employed in the 1920s and 30s). This fear resulted in an insistence that virtually every avenue of distorting free competition be ruled out – state aids, competition, product regulation, government monopolies, the transport system, exchange rates, etc. Since the Founders knew that the Treaty could not possibly foresee all future distortions, they created the independent European Commission and gave it powers to ensure ongoing surveillance and enforcement of the internal market. They also recommended that an independent judiciary be set up to interpret the Treaty and settle disputes.

However by the time the EEC was up and running, the founders’ radical goals seemed slightly anachronistic. The Axis-Allied confrontation had been completely replaced by an East-West confrontation – the old friends were enemies and the old enemies were friends. The rosy economic situation also played an important role. The Six had managed to get their economies back on track, and were experiencing growth that would attract the envy of many 21st century East Asians. Most importantly, many European had regained confidence in their government’s ability to govern given the spectacular way Europe had risen economically and politically from its end-of-war devastation. In short, the loss of national sovereignty implied by European integration began to look more like a minus than a plus, more like a necessary evil than a goal in itself. Yet, as Europeans found out of in the subsequent decades and continue to find out today, the level of economic integration promised in the Treaty of Rome is not possible without deep political integration. In short, the founders’ idea of using economics as a Trojan horse for political integration worked like a charm.

Resistance and the new motive for supranational integration

From the time of Charles de Gaulle’s Empty Chair crisis right up to today’s disputes over tariff cuts in the Doha Round, the supranational mechanisms established in the Treaty have been repeatedly resisted by national leaders. Yet despite this, deeper economic and political integration has preceded. The driving force behind this success is quite different than the one envisaged by the EU’s founders. The writers of the Treaty of Rome sought to embed European nation-states in a supranational organisation as a means of putting an end to the nation-state rival that had plagued Europe since 1648 Peace of Westphalia. Since Europeans had largely re-gained confidence in their governments by the time the Treaty swung into action, very different integration forces were engaged. For years, fear of the Soviet Union promoted integration. It is unlikely that people as bitter as the victims of Nazism could ever have joined with Germany had it not been for the external threat of Soviet territorial expansion (it also helped that French and British troops occupied parts of Germany for 10 years). But, the deeper, lower-frequency force driving European integration is and always has been globalisation – the need of national governments to raise the level of governance in the face of their eroding ability to control events inside their borders via national policies alone. In area after area – starting from international trade but now reaching into the common currency, judicial cooperation, police matters and the VAT – Europe’s national politicians have found that crafting policies at the Continental level is often the best way (and sometimes the only way) to govern their nations.

What does all this mean? First, European integration is here to stay and it almost surely will continue to deepen. Even if most EU citizens, especially those in the new member states, have little faith in the founders’ dreams of ‘la finalité politique,’ globalisation will induce them to support deeper integration. Second, governments around that world will continue to find that Europe’s reaction to globalisation is the only sustainable one. It is unlikely that other Treaties of Rome will be signed elsewhere, but nations are increasingly realising that they can only control their own destiny by binding themselves to international cooperation.

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L’Europa e la governance economica globale

  1. Dorigo Giacomo

    Non sono d’accordo con quanto scritto in questo articolo. Per conto mio l’UE ha raggiunto un punto di ristagno, forse proprio un equilibrio di Nash, dovuto al fatto che la tensione cooperativa è notevolmente scemata e la reazione alla globalizzazione da parte sia dei cittadini che dei governi è quella di chiusura e non di apertura.

    Non penso sarà possibile uscire da questo stallo (che a mio avviso potrebbe portare anche ad una trasformazione dell’UE in un sorta di Commonwealth) se non con la nascita di un nucleo federale tramite una cooperazione rafforzata all’interno dell’UE stessa. E’ possibile proprio grazie alla libera circolazione garantita dall’UE creare uno Stato Federale non necessariamente per contiguità territoriale (anche se la presenza dei 6 fondatori più la Spagna garantirebbe anche quella). Questo Stato Federale dovrebbe essere tale a tutti gli effetti compresa politica economica, esteri e difesa. L’Ue diventerbbe l’involucro di questo nuovo Stato senza smantellarla, ma modificando i rapporti interni: dovrebbe essere infatti questo Stato con le sue rappresentanze a partecipare alle istituzioni europee. Faccio un esempio, poniamo che vi partecipino i 6 più la Spagna, bene all’Ecofin non parteciperebbero più i ministri dell’economia dei 6 più quello Spagnolo, ma il ministro dell’conomia dle nuovo Stato federale. Il peso maggiore che avrebbe all’interno dell’Ue questo Stato (essendo molto più grande di tutti gli altri), spingerebbe anch’essi ad entrarvi per non perdere potere all’interno dell’UE sbloccando così l’intero meccanismo.

  2. riccardo boero

    Il grosso problema della proposta del sig. Dorigo mi pare la difficolta` di formare un esecutivo europeo. Ricordo che in vari paesi europei come la Francia il leader e` eletto dal popolo, e perlopiu’ le regole dei 27 sistemi politici europei (ma anche dei 6 piu’ Spagna) sono assai eterogeneee. Se la nomina di un Commissario puo’ essere gestita dalle logiche di contrattazione imperanti a Bruxelles, altra cosa e` l’elezione di un esecutivo con poteri forti ed estesi al continente.
    Esecutivo la cui attivita` e visibilita` pubblica sarebbero fra l’altro fortemente limitate dalla babele linguistica europea. Oppure sarebbero espressione di una o due nazioni dominanti che farebbero assomigliare l’Europa piu’ ad una occupazione pacifica che ad un accordo tra Stati sovrani.
    Insomma, qualcuno vuole che il continente parli con una voce sola. Ma il continente prevede tante voci, tante nazioni. Prima di lanciarci in pericolosi esperimenti stile Yugoslavia, perche’ non costruiamo una nazione europea, ad esempio imponendo una lingua comune, che produrra` una o piu’ generazioni di europei?

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