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Pensioni: per i giovani il futuro è adesso

Quando i giovani d’oggi si avvicineranno alla pensione scopriranno di essere più poveri in termini di ricchezza previdenziale dei loro padri. Carriere contributive molto più discontinue e un sistema contributivo meno generoso li porteranno a lavorare fino a quasi 70 anni. Aumentare l’età di pensionamento, rivedere i coefficienti di trasformazione e investire nella previdenza complementare già oggi sarebbe un esercizio di equità intergenerazionale. Ma i giovani non sembrano né invitati né interessati al dibattito dove si decide soprattutto del loro futuro.

Le recenti discussioni sulla necessità di ritoccare alcuni elementi del sistema previdenziale – in particolare i coefficienti di trasformazione e lo “scalone” introdotto dalla riforma Maroni – hanno nuovamente evidenziato l’importanza dei vincoli politici ed elettorali nelle decisioni sulle pensioni, in Italia come altrove.
In realtà il dibattito attuale rivela nuovi motivi di preoccupazione. Oggi è sul tappeto l’attuazione di due misure di riforma già approvate in Parlamento negli anni scorsi. La riforma Maroni del 2004 prevede l’aumento dell’età di pensionamento a 60 anni per tutti i lavoratori che andranno in pensione a partire dal gennaio 2008. La riforma Dini del 1995 stabilisce la revisione decennale dei coefficienti di trasformazione, che determinano la generosità dei benefici per chi andrà in pensione con il nuovo sistema contributivo, in linea con l’allungamento della speranza di vita. Queste riforme hanno privilegiato l’introduzione graduale di alcune misure. La loro mancata attuazione ne ridurrebbe largamente la portata e renderebbe necessaria una rivisitazione dei loro (decantati) effetti sul contenimento della spesa previdenziale nel lungo periodo. Naturalmente il Parlamento è sovrano e può decidere di modificare quanto approvato in legislature precedenti. Ma quale sono i costi?

Credibilità politica e scelte economiche

In primo luogo, la credibilità delle riforme che prevedono lunghi periodi di transizione – e dunque dell’intera struttura del sistema previdenziale dopo le riforme Amato e Dini – si riduce. Se i governi in carica non recepiscono gli impegni stabiliti (e votati) dai precedenti governi perché credere che futuri governi lo faranno? Ciò aumenta l’incertezza tra i lavoratori e può condurre a scelte che, pur essendo razionali dal punto di vista individuale, si rivelano poco “virtuose” per il sistema previdenziale nel suo insieme, come ad esempio il maggior ricorso al pensionamento anticipato. Cambi frequenti delle norme in vigore riducono anche il livello di informazione e di comprensione del sistema da parte dei lavoratori, con il rischio di indurre scelte sbagliate.

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Coraggio politico

Ma è soprattutto la mancanza di coraggio politico nell’affrontare questi due nodi cruciali del sistema previdenziale – età di pensionamento e generosità delle pensioni – a preoccupare. Negli anni Novanta, per poter fronteggiare una crisi finanziaria del sistema previdenziale, due governi – in parte “tecnici” – sono riusciti ad attuare due importanti riforme delle pensioni, anche grazie all’introduzione di un lungo periodo di transizione, che consentiva a diverse generazioni di lavoratori anziani di essere (di fatto) schermati dagli effetti di tali riforme. La mancata revisione dei coefficienti di trasformazione a partire dal 2005 mostra i limiti di questo gradualismo: per i governi successivi può non essere politicamente vantaggioso far fronte agli impegni. Ma se l’inattività dei governi attuali è da attribuire alla paura di pagare le riforme in termini elettorali, cosa accadrà in futuro, quando l’invecchiamento della popolazione aumenterà il peso politico degli anziani?

Scelte previdenziali in gerontocrazia

Il quadro è preoccupante. Il libro “The Political Future of Social Security in Aging Societies,” the Mit Press, 2006 ( prova a dare una risposta a questa domanda analizzando la sostenibilità politica – anziché finanziaria – dei sistemi previdenziali in sei paesi Ocse (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti) nel 2050.
Un elettorato molto anziano (nel 2050 l’età mediana tra gli elettori italiani sarà di 56 anni, contro i 46 attuali) domanderà pensioni ancora più generose, anche se il rendimento interno del sistema previdenziale (che è pari alla somma del tasso di crescita della popolazione e dei salari) si ridurrà. Le simulazioni riportate nel libro tengono conto anche dell’effetto politico dell’invecchiamento della popolazione – e quindi dell’elettorato – e suggeriscono che la dimensione dei sistemi previdenziali è destinata ad aumentare ulteriormente.
Cosa fare per evitare che l’aliquota di equilibrio del sistema previdenziale raggiunga il 50 per cento? Aumentare l’età di pensionamento è un ottimo deterrente politico, poiché allontana il momento della fruizione delle pensioni e contribuisce a “ringiovanire” – almeno ai fini previdenziali – l’elettorato. Ma come convincere gli elettori a posticipare l’età di pensionamento? Le simulazioni politico-economiche in “The Political Future of Social Security in Aging Societies” mostrano che nel 2050 i lavoratori anziani – ovvero i giovani di oggi – saranno disposti ad aumentare l’età di pensionamento fino a 67 anni, e addirittura a ridurre l’aliquota contributiva di equilibrio al di sotto del 35 per cento (dunque meno del 38 per cento attuale).
La cattiva notizia sta nel motivo che indurrà le generazioni future ad accettare tale riforma. Quando i giovani d’oggi si avvicineranno alle scelte di pensionamento scopriranno di essere più poveri – almeno in termini di ricchezza previdenziale – della generazione dei loro padri. A causa di carriere contributive molto più discontinue e di un sistema previdenziale contributivo meno generoso non potranno permettersi il lusso di andare in pensione a 58 o 60 anni, ma dovranno continuare a lavorare fino a quasi 70 anni.

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E i giovani d’oggi?

Aumentare l’età di pensionamento, rivedere i coefficienti di trasformazione e investire nella previdenza complementare già oggi rappresenterebbe un esercizio di equità intergenerazionale perché consentirebbe di non spostare tutto il peso dell’invecchiamento sulle generazioni giovani e future. Eppure, in Italia, neanche i giovani sembrano accorgersi dei loro interessi. In parte a causa della mancanza di informazione , in parte per la scarsa sensibilità alla materia previdenziale (come possono pensare a “cose da nonni” dei giovani che diventeranno padri solo a 40 anni?), in parte per via della scarsa rappresentanza nella vita politica e sociale, i giovani non sembrano né invitati né interessati al dibattito dove si decide soprattutto del loro futuro.

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10 commenti

  1. carlotta mismetti capua

    E’ vero, noi, i giovani, non partecipiamo. Mq dove? Siamo forse rappresentati? Ci siamo forse organizzati? Non vedo niente intorno a me, si parla poco di polita, ci si arrabbia poco, per come vanno male le cose, invece. Devo dire che la pensione (io sono una libera professionista precaria) è un tale miraggio, mi accontenterei di un po’ di certezza ora. E poi tutte le mie (e forse le nostre) energie sono destinate a cercare di restare a galla

    • La redazione

      l’Italia non è l’unico paese dove i giovani si impegnano poco politicamente. ma è uno dei paesi dove più forti sono i trasferimenti intergenerazionali pubblici a favore delle persone anziane (che poi tendono a trasmettere ai propri figli/nipoti). è qui dunque dove i giovani avrebbero maggior interesse a farsi sentire.

  2. riccardo boero

    Egr. Professore,

    non credo affatto si possa parlare di equita` additando misure come l’innalzamento dell’eta` pensionabile o la riduzione delle pensioni.
    Si tratterebbe al contrario di un vergognoso tradimento dalla parte dello Stato, che gli farebbe perdere ogni credibilita`.
    Non si puo’ dire ad una persona che ha organizzato la propria vita decidendo in funzione di calcoli precisi sulla propria pensione il tipo di lavoro, gli acquisti immobiliari, gli investimenti, il numero di figli, il numero di impieghi familiari, il tenore di vita, non si puo’ dire a questa persona: Sorpresa!, ti diamo la meta`, oppure adesso lavori fino a 70 anni.
    Se mancano i soldi non e` certo colpa del contribuente, e` colpa degli organismi statali che li hanno mal gestiti. A loro spetta provvedere, al loro proprietario e responsabile che e` lo Stato, che deve riempire i buchi previdenziali riducendo le sue spese, i salari di funzionari e professori, procedendo a cartolarizzazioni etc
    Questa sarebbe equita`.
    La ringrazio in anticipo di una cortese risposta

    • La redazione

      Gentile sig. Boero,
      quando le condizioni demografiche ed economiche cambiano, tutti siamo costretti ad adattarci, anche se non lo avevamo previsto, e se ci sfavorisce.
      Ma quando si parla di pensioni è proprio il caso di diro: lo Stato siamo noi, nessuno si senta escluso. Se non è (e non sarà) possibile pagare lo stesso ammontare di pensioni che sono state elargite fino ad oggi non è colpa dello “Stato”. E’ colpa dell’invecchiamento della popolazione: si fanno meno figli e si vive più a lungo. E’ colpa del fatto che l’economia non cresce come negli anni 60. Sono queste colpe da attribuire allo Stato? E’ forse colpa dei giovani di oggi o delle generazioni future? No, a meno che non vogliamo che le colpe dei padri cadano sui loro figli.

  3. D.C.

    e se si puntasse ad aumentare la base contributiva?
    se si puntasse a creare lavoro per quei tanti giovani che sono disoccupati e che così verserebbero maggori contributi per tutti o se si aumentassero i contributi da versare per chi oggi ha un rapporto di lavoro precario?
    basterebbe o almeno servirebbe ad arginare il problema?

  4. poeta de borgata

    cari mamma e papà,nonni e nonne,
    ma alli vostri figli ce pensate mai?

    col lavoro (spesso precario) ve ripaghiamo er debbito (vostro);
    col lavoro (spesso saltuario) ve paghiamo er pensionistico;
    col lavoro se non manca ve paghiamo anche la tessera der pubblico trasporto vitalizio;
    col lavoro quando manca ve sembriamo nullafacenti,
    ma che ve importa a voi ticket-esenti?

    semmai dite: figlio mio!
    aoh,dai, lascia: che la casa te la compro io!
    grazie pà che ce vieni incontro,
    ma sai che nun ce torna er conto?

    tu della borsa c’hai i cordoni,
    ma siamo noi che ce buttiamo i sordoni.

  5. pietro gori

    Egregio Professore,
    naturalmente quello della solidarieta’ intergenerazionale e’ un cavallo di battaglia del fondamentalismo liberista, ma non regge un secondo ad una disamina razionale. It’s a dead horse, direbbero alla UC dove Lei ha studiato.
    Non e’ vero che la spesa previdenziale e’ insostenibile. Non e’ vero che lo diventera nel 2030 e dintorni. Non e’ vero che l’allungamento delle aspettative di vita e la denatalita’ mettono in crisi il sistema pensionistico. Non e’ vero che la riforma pensionistica mettera’ i giovani in migliori condizioni nel futuro. Ecc. ecc.

    Non e’ possibile qui un’ argomentazione estesa di quanto sopra ne’ una critica puntuale delle posizioni della corrente di pensiero “liberista”, peraltro ve ne sono di reperibili facilmente anche online se si ha una mente scevra da pregiudizi.

    Tenga a mente il lettore del suo articolo che la sostenibilita’ finanziaria e’ un vincolo importante, ma interventi sul welfare non possono astrarre dalla salvaguardia della coesione sociale. Sulla quale si fonda sia lo sviluppo civile che la crescita economica. La storia economica (per chi la conosce) dimostra che i bisogni sociali ed economici rilevanti sono piu’ convenientemente soddisfatti al di fuori del mercato e della logica del profitto.

    • La redazione

      caro lettore,
      non vedo come la solidarieta’ intergenerazionale possa essere in contrasto con la coesione sociale, soprattutto in un paese che invecchia dove sono tante le generazioni che dovranno convivere. Purtroppo non sono stato in grado di
      comprendere le sue argomentazioni.
      cordialmente

      VG

  6. riccardo boero

    Egr. prof. Galasso

    la ringrazio anzitutto per la cortese risposta: non pochi sono i suoi colleghi che concepiscono lo spazio de “la Voce” piu’ come una cattedra universitaria da cui insegnare che come un confronto con idee differenti, per un arricchimento reciproco.
    Per l’appunto dissento per 2 motivi con la sua diagnosi sul buco previdenziale, che sarebbe dovuto all’invecchiamento demografico e alla maturazione dell’economia italiana, non piu’ nel boom degli anni 60.
    1) Innanzitutto la variazione nei tassi di riproduzione e` nota da decenni, e i suoi effetti sul bilancio previdenziale non sono immediati: c’era tutto il tempo di innalzare opportunamente e gradualmente i contributi, riducendo in modo lento e impercettibile le prestazioni. Perche’ nulla e` stato fatto?
    2) Inoltre, invecchiamento e rallentamento economico non sono limitati all’Italia, ma interessano tanti altri paesi europei come Austria, Svizzera, Scandinavia, che pero’ non hanno dilapidato i contributi previdenziali dei loro lavoratori, come invece hanno fatto le finanze latine di Italia e ad es. Francia.
    Cio’ dimostra secondo me che e` allo Stato (inteso come instituzioni governative e non come insieme dei cittadini) che si deve attribuire la responsabilita` del dissesto, come pure di conseguenza l’onere di ripararlo vivendo finalmente al di sotto dei suoi mezzi, e cedendo se necessario i suoi numersi asset.
    Nel moderno mondo della finanza l’elusione fiscale e` sempre piu’ facile e alla portata ormai dei ceti medi, e rappresenta un ottimo metodo di reazione in caso di “furto” di parte della sacrosanta pensione.

  7. nicola

    Sono giorni che navigo tra i forum cercando argomentazioni sensate e veritiere:
    L’inps per 50 anni ha assorbito i debiti dello stato, ha erogato baby-pensioni, ha esborsato soldi a disoccupati e cassa-integrati e nullafacenti, pagato pensioni sociali…. insomma ha preso i soldi dei lavoratori ed anzichè investirli per garantire un sistema previdenziale efficiente li ha utilizzati a fini politico-elettorali e sperperandoli! Se le casse dell’inps sono vuote è colpa di questi pseudo-politici e non delle risorse scarse; di questo passo non basteranno 100 riforme. Adesso si sono presi il tfr, la prossima volta?

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