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La partita più lunga

Il sistema degli stadi è largamente superato nei modi di gestione e nella ripartizione dei relativi oneri tra club e amministrazioni pubbliche, proprietarie degli impianti. Il tavolo di concertazione previsto dal “decreto Amato” potrebbe essere l’occasione perché l’intervento pubblico abbandoni la logica assistenzialistico-clientelare e imbocchi la strada di una vera e propria politica industriale volta a consolidare un settore che ha raggiunto volumi di affari di grande rilievo nell’economia nazionale, ma presenta ancora evidenti fragilità di fondo.

Dopo le violenze di ieri e i gravissimi scontri del 2 febbraio 2007 in occasione della partita Catania-Palermo e l’inaccettabile morte dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti hanno riportato al centro del dibattito la questione della sicurezza negli stadi calcistici e nelle grandi manifestazioni di massa in generale. La conversione in legge del cosiddetto “decreto Amato“, contenente le misure adottate dal governo all’indomani degli incidenti, consente di svolgere alcune valutazioni sulle azioni intraprese a ridosso dei fatti per scongiurarne il ripetersi. (1)
In proposito, si deve rilevare come il provvedimento concentri la sua attenzione, oltre che sulla repressione di quelli che sarebbe finalmente giusto considerare comportamenti criminali tout court (e che solo una distorta ma diffusa percezione ha consentito sinora di trattare come manifestazioni di esuberanza o altro, deprecabili sì ma sostanzialmente non punibili), sull’adeguamento degli impianti sportivi che ogni fine settimana ospitano eventi di grande richiamo.

Pressioni di segno opposto

In effetti, quella degli stadi, nella tempestosa evoluzione che il calcio professionistico sta attraversando da oltre un decennio, è una “partita” chiave sotto molti aspetti, che i club affrontano stretti tra pressioni di segno opposto. Da un lato, infatti, c’è l’esigenza di lusingare le tifoserie organizzate, gli stakeholder più attivi sotto il profilo di una voice che spesso arriva a esprimersi in proteste di piazza, talvolta, come purtroppo insegna il recente passato, passibili di degenerare in manifestazioni che mettono a rischio l’ordine pubblico. Dall’altro, la necessità di considerare l’impianto nel quale si svolgono le competizioni “casalinghe” come ciò che esso realmente rappresenta, nell’economia di società a scopo di lucro: un cespite strumentale che consenta la massimizzazione dei ricavi.
Appare quindi sacrosanto, anche se tardivo, il divieto, contenuto nel “decreto Amato”, di continuare a utilizzare stadi non a norma grazie a permessi “in deroga” a disposizioni già in vigore da qualche anno, ma esso non risolve certo problemi di più ampia portata, legati alla inarrestabile modifica nella fruizione dello spettacolo calcistico e dunque nella conseguente rivoluzione del modello di business prevalente nel settore professionistico. Che l’evoluzione del concetto stesso di stadio sia una componente di questa rivoluzione è evidente nell’esperienza dei paesi che ci hanno preceduto su questa strada, prima su tutti in quella inglese, oggi best practice di riferimento internazionale.

La best practice inglese

In Gran Bretagna, è bene ricordarlo, la riforma prese avvio non tanto, o comunque non solo per il dilagare delle violenze degli hooligans (protagonisti tra l’altro della tragedia dell’Heysel del 1985), ma perché divennero evidenti a tutti gli inaccettabili costi, anche in vite umane, che impianti obsoleti imponevano alla collettività, prima ancora che alle società calcistiche. L’incidente di Bradford del 1985 (56 vittime a seguito dell’incendio di una tribuna in legno vecchia di 80 anni), quello di Hillsborough del 15 aprile 1989 (96 tifosi del Liverpool persero la vita schiacciati dalla folla che pressava per entrare nello stadio) furono solo gli episodi più scioccanti della lunga catena di eventi luttuosi che determinarono il governo dell’epoca ad avviare un’approfondita indagine, poi sfociata nel Taylor Report del gennaio 1990. Preceduto da un interim report rilasciato pochi mesi dopo i fatti di Hillsborough, il documento finale conteneva 76 raccomandazioni che, pur focalizzandosi sulla sicurezza degli stadi, in realtà abbracciavano ogni aspetto dell’organizzazione del calcio professionistico.
E dunque le iniziative scaturite da quella tempestiva indagine hanno consentito di collegare l’ammodernamento degli stadi alla complessiva riforma del movimento calcistico, in cui alla forte responsabilizzazione delle società professionistiche nell’area della sicurezza si è accompagnato un massiccio trasferimento di risorse, perché quelle che lo desiderassero potessero ammodernare quelli già posseduti o dotarsi di stadi privati, che diventassero perno dell’attività tipica ben oltre la partita domenicale. Entro il 1997 furono spesi a questo scopo in Inghilterra e Scozia 500 milioni di sterline, il 30 per cento dei quali provenienti da finanziamenti del Football Trust, l’apposito organismo che gestiva i ricavi da concorsi pronostici. (2)
Quello delle spese per la sicurezza si sta rivelando anche nell’iter del “decreto Amato” il pomo della discordia. Nella situazione attuale, in cui come è noto la grande maggioranza degli stadi italiani è di proprietà pubblica, imporre a dei privati quali sono le società calcistiche di farsi carico di ingenti spese di adeguamento appare, se non illegittimo, certamente problematico. Ciò, a sua volta, non può consentire la pretesa, pure avanzata nelle scorse settimane da taluni presidenti, di poter eludere una normativa giustamente (e finalmente) più severa.

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La sorte del tavolo di concertazione

Perché non si ripetano i fatti di Catania pare allora utile rifarsi all’esperienza inglese, andando però oltre i suoi aspetti più esteriori. Come si inizia a riconoscere anche nel nostro paese, oltre che per i problemi di sicurezza, il sistema degli stadi italiani è largamente superato nei modi di gestione, ma anche nella ripartizione dei relativi oneri tra le società di calcio e le amministrazioni pubbliche, proprietarie degli impianti. E dunque al di là delle risposte dettate dall’emergenza, sarà importante dare effettività alla parte programmatica del “decreto Amato”. L’articolo 11 del pacchetto prevede un tavolo di concertazione che coinvolga governo, Coni, Anci, Regioni e federazioni sportive per la definizione di un “Programma straordinario per l’impiantistica sportiva professionistica”, “al fine di renderla maggiormente rispondente alle mutate esigenze di sicurezza, fruibilità, apertura, redditività della gestione economico-finanziaria, anche ricorrendo a forme convenzionali”. Questo tavolo potrebbe essere l’ennesimo, improduttivo apparato burocratico.
Ma potrebbe anche essere qualcosa di profondamente diverso, ovvero l’occasione perché il nostro calcio professionistico porti finalmente a compimento la transizione verso un assetto più adeguato a un contesto che negli ultimi 15 anni è mutato molto rapidamente, e in cui la crescita esponenziale delle risorse in palio (principalmente derivanti dalla cessione dei diritti tv) ha paradossalmente provocato gli squilibri alla base dei tanti scandali degli ultimi anni. Potrebbe essere l’occasione perché l’intervento pubblico abbandoni la logica assistenzialistico-clientelare, testimoniata dai vari decreti “salva-calcio” che si sono succeduti negli ultimi anni, per imboccare la strada di una vera e propria politica industriale volta a consolidare un settore che ha raggiunto volumi di affari di grande rilievo nell’economia nazionale e tuttavia presenta ancora evidenti fragilità di fondo. Se fulcro di questo intervento fosse una nuova politica degli impianti sportivi, che incentivi le società ad assumerne più direttamente il controllo (non importa se attraverso la privatizzazione di quelli esistenti, la costruzione di nuovi stadi, o la diffusione di nuovi strumenti contrattuali di gestione), si potrebbero conseguire molteplici obiettivi: aumentare la solidità patrimoniale, diversificare i ricavi e favorire la crescita manageriale dei club, al tempo stesso dotando le nostre città di impianti multifunzionali che amplino l’offerta ai cittadini di attività per lo svago e il tempo libero. A fronte di un piano strategico di portata generale, sarebbe giustificato l’impiego di risorse pubbliche, attraverso le forme di finanziamento previste nel settore e gestite da un organismo ad hoc, il Credito sportivo. Perché tutto ciò si realizzi, evidentemente, è necessario guardare oltre le pur indifferibili esigenze della sicurezza.

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(1)
Il decreto legge 8 febbraio 2007, recante “Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche”, è stato pubblicato sulla Gu n. 32 dell’8 febbraio 2007.
(2) Dati tratti da “Football stadia after Taylor”, Fact Sheet n. 2, Sir Norman Chester Centre for Football Research, University of Leicester, marzo 2002.

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  1. Giuseppe Cadel

    Gentile Diego Corrado,

    Nell’ultima parte del suo articolo Lei suggerisce l’impiego su larga scala di risorse pubbliche per la costruzione di strutture sportive/ricreative.

    Mi permetterei di segnalarLe quanto accaduto negli USA tra la seconda metà degli anni Novanta e i giorni nostri: nella prima parte del periodo considerato, si è verificato un massiccio ricorso a risorse pubbliche locali (approvato tramite appositi referendum) per la costruzione (o l’ammodernamento) di impianti sportivi, per importi unitari per intervento da svariate centinaia di milioni di Dollari; di recente, tuttavia, la tendenza si è diametralmente invertita, con le comunità locali che – sulla base di un’analisi costi/benefici estesa anche ai vantaggi sociali – non sono più disposte a finanziare con i soldi dei contribuenti tali progetti (e difatti non vengono nemmeno più indetti gli appositi referendum, nella certezza che saranno respinti) e i privati che si sobbarcano interamente le ingenti spese (talora superiori al miliardo di Dollari) per la costruzione di nuovi impianti.

    Rimango a Sua disposizione per gli approfondimenti.

    Cordiali saluti,
    Giuseppe Cadel – Milano

  2. daniel

    Condivido pienamente le proposte degli autori, credendo che possano configurarsi come un salto di qualità per il nostro calcio, ma purtroppo l’intraprendenza dei presidenti si scontra con interessi politici locali: bisogna infatti ricordare come zamparini a venezia fosse disposto a costruire a sue spese lo stadio ma il comune non glielo consentì (tant’è che poi ha venduto il venezia ed è andato a palermo!); e anche lotito, presidente della lazio, sarebbe disposto a costruire uno stadio per la lazio ma a quanto pare è ancora tutto fermo!!!

    • La redazione

      Rispondo volentieri a commento qui sopra e qui sotto, precisando la mia opinione che forse un eccesso di sintesi ha reso non sufficientemente chiara. Quando auspico un intervento di politica industriale a favore del calcio professionistico,
      intendo riferirmi ad un approccio del “pubblico” a questo settore dello sport nazionale radicalmente diverso da quello assistenzialistico-clientelare che sinora ha imperato. Dunque non penso a massicci investimenti di denaro pubblico
      in stadi “privati”, bensì – tra l’altro – ad una serie di misure che metta in condizione le società che lo desiderino e che offrano adeguate garanzie patrimoniali-manageriali di dotarsi di impianti propri. Non sono sceso nel dettaglio di tali misure per ragioni di spazio, limitandomi a tracciare un quadro di ampia massima, ma credo che ciascuna di esse debba – così come in altri settori in cui lo Stato ritiene di intervenire in nome di un interesse generale – porsi come obiettivo quello di accompagnare i soggetti privati sul sentiero della crescita, senza pretendere di sostituirsi ad essi. Senza dimenticare, come ho provato più volte a mettere in luce anche su questo sito, e come oggi fa con ancora più efficace sintesi N. Giocoli (articolo lavoce del 5/4/2007), che è giusto chiedere che il calcio professionistico sia “comunque soggetto, nei suoi aspetti economici, alle norme sulla concorrenza”, e più in
      generale a quelle che disciplinano l’impresa privata, ma che ciò non deve far trascurare le notevoli peculiarità (di tipo organizzativo e industriale, prima ancora che etico e sociale) che lo caratterizzano.

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