Scarsa la rappresentanza femminile in Parlamento e ancor più bassa nelle istituzioni locali. E’ un fenomeno che interessa tutti i paesi sviluppati. Ben vengano dunque gli interventi per aumentarne il numero. Ma la posta in gioco è un’altra: l’inclusione di caratteristiche, conoscenze, competenze e attitudini storicamente collegate alle donne e finora solo marginalmente integrate nella politica italiana. La socializzazione del genere nella sfera pubblica deve rappresentare un vero e proprio processo di apprendimento per la società politica.

Il Parlamento europeo in una risoluzione del 13 marzo 2007 sul tema della parità tra donne e uomini ha invitato “gli Stati membri a individuare e perseguire obiettivi e termini chiari per l’aumento della partecipazione delle donne a tutte le forme di presa di decisioni e il potenziamento della loro rappresentanza nella vita politica”.

Il rapporto Asdo

In Italia, a “riaprire il caso” ha pensato un recente rapporto di Asdo, Assemblea per lo sviluppo delle donne e la lotta all’esclusione sociale, su Donne in politica (www.donnepolitica.org): ha cercato di far luce sui motivi che mantengono troppo spesso le donne distanti dai luoghi della politica, per giungere a formulare ipotesi di soluzione, sia sul piano delle politiche pubbliche che su quello delle prassi quotidiane delle organizzazioni politiche e sindacali a diversi livelli. (1)

Fonte: IPU

I dati raccolti mostrano che i paesi più avanzati hanno performance uguali, o in alcuni casi peggiori degli altri, in termini di rappresentanza politica “al femminile”. Basti pensare che i paesi del G8, “sviluppati” per antonomasia, hanno una media di donne nelle camere basse o uniche dei propri parlamenti pari solo al 17,4 per cento. Una percentuale identica sostanzialmente a quella di un’area continentale che pure per tanti altri indicatori sembra appartenere a un altro pianeta, ovvero l’Africa sub-sahariana, con il suo 17 per cento, o anche l’Asia nel suo complesso, con il 16,4 per cento. I paesi europei appartenenti all’Osce non possono vantare una situazione più brillante, con un modesto 19,2 per cento. E se le Americhe arrivano al comunque deludente 20,6 per cento, non è certo per merito degli Stati Uniti, che fino ad oggi sono fermi al 15,2 per cento.
Italia, in questo quadro, ci mette del suo per figurare nel modo peggiore possibile, ma in realtà, con il suo 17,3 per cento non è affatto lontana dalle medie europee e mondiali. Ci sono, è vero, paesi come quelli nordici, o in misura inferiore la Spagna e la Germania, che hanno raggiunto livelli di rappresentanza femminile nazionale soddisfacenti. Altri, però, come la stessa Francia, sono fermi al 12,2 per cento . Inoltre, anche i paesi più avanzati mostrano risultati nettamente inferiori ai livelli della rappresentanza regionale e locale. E questo sorprende: ma come, non c’è almeno qualche paese in cui il problema sia stato risolto una volta per tutte? È come se le cose tornassero “naturalmente” sui livelli “normali”, non appena si lasciano ambiti in cui è stato possibile assumere provvedimenti chiari e forti, grazie alla decisa volontà politica delle donne o dei partiti, alla tradizione, alla cultura, a un primo ministro coraggioso. E così, in nessun paese europeo, ad esclusione della Lettonia, ci sono più del 20 per cento di donne sindaco. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, ce ne sono meno: in Svezia il 20 per cento, in Spagna il 12,5 per cento, in Germania addirittura il 5,1 per cento, mentre in Italia il 9,6 per cento. E il livello provinciale e regionale presenta scenari dello stesso tipo.

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Infine, sempre sulla linea dell’analisi critica del fenomeno, la politica non veste la maglia nera, come spesso si dice, rispetto a una società e a un mondo delle professioni più avanzati.
In altri settori i dati sono ben più sconfortanti. In Europa, nel 2006, nelle 1.300 più grandi aziende continentali sono solo il 3 per cento le donne tra i presidenti dei consigli di amministrazione o gli amministratori delegati (l’Italia ha in queste due cariche, rispettivamente, il 4 e l’1 per cento di donne). E si tratta di un dato tra i tanti che vengono esposti nel rapporto di ricerca per mostrare la sistematicità e la diffusione del fenomeno della segregazione verticale delle donne, che non risparmia nemmeno i settori occupazionali più femminilizzati.

Difetto di socializzazione del genere

Ma di che natura è allora questo blocco che impedisce l’ascesa delle donne alle posizioni apicali? Il rapporto di Asdo lo interpreta come un difetto di socializzazione del genere nei livelli più profondi del tessuto sociale. Il che vuol dire che la realtà politica e sindacale si presenta “vuota” di regole, significati, relazioni, istituzioni e anche consuetudini, conoscenze tacite, relative alla presenza di due generi, anziché di uno solo, al proprio interno.
L’aumento della presenza delle donne nella sfera pubblica tende a riempire il “vuoto di genere”, ma non necessariamente in misura proporzionale al numero di donne che entrano. I risultati della ricerca, anzi, dimostrano che ciò che conta di più è l’orientamento al cambiamento di volta in volta insito nella presenza delle donne. Orientamento che può comunque naturalmente risultare facilitato, nella sua espressione, da numeri più consistenti.
A nostro avviso, ogni politica che vada a colmare il “vuoto di genere” deve essere bene accetta. Tuttavia, le questioni di genere nelle politiche pubbliche vanno trattate senza cadere in due frequenti equivoci: quello per cui le donne rappresentano una specie di categoria da tutelare o promuovere, come se le differenze tra le donne non fossero nella realtà ampie come quelle tra i generi, e quello opposto, per cui si nega la stessa questione, e il problema del genere non esiste.
Il processo di socializzazione del genere nella sfera pubblica deve rappresentare un vero e proprio processo di apprendimento per la società politica, la cui posta in gioco non è l’inclusione delle donne tout court, quanto l’inclusione di caratteristiche, conoscenze, competenze e attitudini, storicamente collegate alle donne, finora solo marginalmente integrate, quando non del tutto assenti, nella politica italiana.

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(1)
Il progetto Donne in Politica è realizzato da un partenariato coordinato da Asdo, cui partecipano la Uil nazionale, Progetto Donna-Centro studi per la ricerca e lo sviluppo delle pari opportunità, l’Ires Cgil e per conto della Regione Lazio, lo Ial – assessorato al Lavoro, pari opportunità, politiche giovanili, con il finanziamento dell’iniziativa comunitaria Equal, promossa dall’Unione Europea/Fse e dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

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