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Fondazioni e banche, quel legame che non si spezza

La vicenda dei rapporti fra fondazioni e banche nell’ultimo quindicennio si può leggere a un tempo come la “cronaca di una sconfitta”, di un “ritorno al passato” e di un “ripensamento”. Le fondazioni hanno diminuito l’entità delle partecipazioni, ma esercitano ancora una notevole influenza sulle banche. Tanto che tutti riconoscono il loro ruolo nel processo di aggregazione e di concentrazione del sistema. E’ un quadro con forti ambiguità. Mentre il disegno che emerge dalle proposte dell’Autorità di vigilanza è meno liberale di quello attuale.

Una cronaca dei rapporti fra fondazioni e banche nell’ultimo quindicennio potrebbe definirsi “cronaca di una sconfitta” o di un “ritorno” o, magari, di un “ripensamento”.
Dopo l’approvazione della legge Ciampi nel 1999 una parte cospicua dei commentatori sposava uno slogan: “liberare le fondazioni dalle banche” e “liberare le banche dalle fondazioni”.
Oggi le fondazioni bancarie, pur avendo per lo più dismesso il controllo delle banche conferitarie, sono, nell’insieme, i soci di riferimento dei maggiori gruppi bancari italiani e continuano a esercitare un’influenza dominante nel disegnare le loro strategie e nel dare concreto contenuto alle scelte gestionali. Le fondazioni continuano a svolgere due mestieri, quello di ente non profit e quello di influente gestore delle banche.
Dunque, quello slogan è stato smentito dalla realtà: le fondazioni non si sono liberate delle banche e le banche non si sono liberate dalle fondazioni.
Stiamo quindi narrando la cronaca della sconfitta di una ben precisa linea di politica legislativa. Se si volesse poi descrivere queste vicende in termini un po’ enfatici si potrebbe dire che la situazione attuale riproduce nella sostanza la realtà precedente la legge Ciampi e allora la cronaca potrebbe intitolarsi “ritorno al passato”.
Ma, a dire il vero, sarebbe possibile anche una terza lettura della vicenda: si potrebbe rilevare che quello slogan e quella linea politica legislativa erano errati, che fortunatamente la realtà è andata in senso contrario e che, pertanto, la relativa narrazione è, in definitiva, la cronaca di un giusto “ripensamento”.

La cronaca di una sconfitta

Dal punto di vista formale, la situazione attuale non è una sconfessione della linea di politica legislativa adottata nel 1999. Quelle norme si accontentavano di escludere che le fondazioni controllassero le banche e avevano adottato un concetto di controllo solitario. Con le vicende successive le fondazioni hanno perduto sia il controllo solitario sia quello congiunto. Non altrettanto si può dire sul piano sostanziale: se la legge Ciampi voleva eliminare una forte influenza delle fondazioni sulle banche, le vicende successive hanno finito per smentire quella linea, dal momento che le fondazioni contano ancora molto nel governo delle banche. E continuano a svolgere due mestieri.

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La cronaca del ritorno al passato

Le vicende narrate costituiscono un ritorno alla realtà precedente la legge Ciampi? Probabilmente no; la presa delle fondazioni sul sistema bancario è meno diretta e l’entità della loro partecipazione è certamente diminuita, anche nei tempi più recenti. La diluizione delle partecipazioni, per altro, non è tanto il frutto di scelte dirette a questo fine, quanto la conseguenza dei processi aggregativi che il nostro sistema ha vissuto negli ultimi anni. Il legame tra fondazione e banca si è allentato. E, d’altra parte, non si è tornati a una situazione nella quale la funzione di opera pia della fondazione era abbastanza marginale.
Le fondazioni hanno acquisito un loro statuto articolato, hanno visto riconosciuta la loro natura privata e hanno certamente potenziato la loro capacità di operare per il conseguimento dei fini sociali che ne giustificano l’esistenza. Dunque, la cronaca che ho tratteggiato non è cronaca di un mero ritorno al passato.

La cronaca del ripensamento

Resta da chiedersi se si debba ritenere di essere in presenza di un ripensamento, ossia di una valutazione critica nei confronti dello slogan del 1999 e di una valutazione positiva della situazione presente, che vede le fondazioni in una posizione eminente, ma non di controllo, nei maggiori gruppi bancari italiani. Oggi, c’è un sostanziale consenso nel sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno avuto nel processo di aggregazione e di concentrazione del sistema bancario italiano.
Ma forse è necessario chiedersi se la struttura proprietaria che ne è uscita, e che vede appunto in posizione eminente le fondazioni, sia ottimale per il sistema bancario.
Qui riemergono i dubbi di sempre: a) le fondazioni non sono soggetti che hanno come primo obiettivo l’efficienza delle gestioni; b) le fondazioni sono autoreferenziali e i loro gestori non rispondono del proprio operato come banchieri sulla base dei risultati delle gestioni bancarie, ma sulla base di fedeltà politiche o di altra natura; c) le fondazioni non sono in grado di assicurare, anche in futuro, un adeguato flusso di capitale proprio alle banche partecipate. E non sono dubbi infondati.
Certo, si aggiunge, vista l’assenza di investitori istituzionali veri, che possano acquisire partecipazioni di rilievo nelle banche, ci si deve accontentare che quelle partecipazioni vengano assunte dalle fondazioni, ritenute una specie di investitore istituzionale, capace di porsi obiettivi che vanno oltre il breve periodo, anche se ciò a mio avviso non è corretto.
E questi dubbi trovano qualche conferma nel fatto che l’efficienza del nostro sistema bancario non sia, nonostante i progressi conseguiti, pari a quella riscontrabile in altri paesi e che la trasparenza sia spesso appannata da scelte che sembrano mosse da disegni non compiutamente riconducibili a logiche di mercato.

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Le ambiguità

Il carattere ibrido della proprietà del nostro sistema bancario e soprattutto dei grandi gruppi sembra anche favorire tesi, come quella recentemente prospettata da un importante banchiere italiano, secondo le quali le banche debbono perseguire interessi di carattere generale e non soltanto, come credo, l’interesse degli azionisti, nel rispetto delle norme che regolano il mercato. Ho letto la proposta delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari: attribuisce al ministro l’alta vigilanza sulle banche e forse anche poteri di indirizzo sulle stesse. Dunque, un disegno meno liberale di quello che emerge oggi dall’ordinamento. La proprietà delle banche è in qualche misura ibrida perché vede accanto ad azionisti che cercano il profitto, altri importanti azionisti che non hanno tale scopo istituzionale.
Cominciano a far capolino concezioni dell’impresa bancaria che richiamano idee che si credevano superate, nonostante l’enfasi posta sulla responsabilità sociale. Un quadro, dunque, con forti ambiguità che consente, anche, di finire il gioco dicendo che la cronaca della vicenda è a un tempo la cronaca di una sconfitta, di un ritorno al passato e, in minima parte, di un ripensamento.

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  1. Federico Parmeggiani

    Ragionando dei difetti fisiologici del nostro settore bancario, la considerazione che sta alla base del sistema delineato (e che il legislatore dovrebbe fare sua) riguarda proprio gli interessi che il segmento bancario persegue e quelli che dovrebbe perseguire. La concezione europea continentale (portata agli estremi in Italia) secondo la quale una banca è un’impresa che deve perseguire fini ulteriori alla massimizzazione del profitto ha portato a disfunzioni evidenti, in quanto, come è stato spesso ben evidenziato , rende la banca responsabile quasi esclusivamente verso la classe politica e non verso gli stakeholders primari (in ogni caso non porta ad una responsabilità diffusa verso la collettività come i teorici di tale impostazione tendono a far credere). In questo senso, se da un lato è assodato che l’attività bancaria per la sua peculiarità meriti una disciplina speciale, dall’altro gli interessi e la sua politica d’impresa dovrebbero rispondere a dinamiche ordinarie e tese al profitto. Così facendo le banche forse inizierebbero a responsabilizzare i propri manager (e ad assumerli non sulla base di calcoli politici), ad accordare linee di credito ad imprese effettivamente meritorie e a rispondere del loro operato alla stregua di ogni altro soggetto imprenditoriale. E forse chissà che, in uno scenario ove si intraprenda il lungo cammino del dominio dell’efficienza, si creino spazi meno angusti anche per i mercati finanziari e gli intermediari non bancari.

  2. Michele Giardino

    Sintesi densa e stimolante. Inevitabilmente, non esaustiva.
    Ritorno al passato? Se non comandano più, perché discriminare le Fondazioni anche come semplici azioniste (magari di varie banche, secondo le opportunità di mercato)? Per esorcizzare le (nere) ombre del passato, perchè non pensare ad una pressione sui vertici di forti correnti di opinione sostenute da una stampa più professionale e aggressiva, e soprattutto meglio attrezzata da una stretta severa sugli obblighi di informazione pubblica e diffusa.
    Ripensamento? In parte, valga quanto già detto. Ma davvero poi, un azionista importante, Fondazioni incluse, può disinteressarsi all’efficienza delle partecipate? Certamente però anche qui funzionerebbero obblighi più stringenti (e pesantemente sanzionati) di informazione diffusa. E siamo davvero certi che la scarsa trasparenza delle gestioni bancarie sia colpa delle Fondazioni?
    Ambiguità. Ahimé, come dimenticare che il nostro si conferma ogni giorno come un capitalismo senza capitali? E c’è poco da aggiungere. Ma le risorse, che non mancano, continuano, ad oltre 60 anni dalla famosa nota di Menichella al Cap. Kamark ,magari in minore misura e in modi più vari, a confluire nelle banche, anche se i banchieri veri sono pochi e non hanno vita facile. Che sia in questo sfondo, che non cambierà certo a parole, la spiegazione di queste e di altre ambiguità?
    Sono accettabili come dubbi aggiuntivi?

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