Gli indici dei prezzi al consumo servono a svariati usi. Per esempio, a stabilire programmi statali di tasse e spesa. O a offrire una guida per l’aggiustamento di stipendi e salari. Per questo è importante capire come sono composti. E in particolare come sono considerati gli immobili abitati dai proprietari. Perché diversi sistemi danno ben diversi risultati in termini di inflazione. Tutto sommato, il metodo migliore è quello Usa, con la categoria dei proprietari affitto-equivalenti. Migliore anche rispetto alle scelte della Bce.

È importante come si misurano le cose. Quando la costruzione dei dati economici era agli albori, Simon Kuznets, il padre del National Income Accounting, non era affatto contento della decisione di includere la spesa pubblica nel prodotto interno lordo. Kuznets pensava che la produzione pubblica fosse un prodotto intermedio per i consumi e gli investimenti, che rappresentano il prodotto finale di un’economia. Considerazioni politiche del periodo della grande depressione degli anni Trenta determinarono l’esito del dibattito, cosicché la spesa pubblica è oggi inclusa nel Pil.
Ma provate a immaginare come sarebbe diversa la politica economica se ogni volta che l’entità della spesa pubblica aumenta, le nostre stime della produzione reale scendessero.

A cosa serve l’indice dei prezzi al consumo

Qualcosa di simile accade con le statistiche sull’inflazione. L’adozione di forme diverse di obiettivi di inflazione esplicita e implicita da parte di decine di banche centrali nel mondo, ha reso la sua misura qualcosa di più di un tema arcano riservato a economisti e statistici pubblici. E oggi, le decisioni su come si calcolano le statistiche sull’inflazione possono avere un impatto sulle decisioni di politica monetaria.
La domanda importante nella misura dell’inflazione – importante quanto la questione di come trattare la spesa pubblica nel calcolo del Pil – è se includere o no le case abitate dai proprietari nelle statistiche dei prezzi aggregati al consumo. E se la risposta è sì, come io credo, come lo si dovrebbe fare?
Prima di entrare nel dettaglio della questione, facciamo un passo indietro e ricordiamo che cosa si suppone debba misurare l’indice dei prezzi al consumo e perché i banchieri centrali del XXI secolo vi prestano così grande attenzione. I libri di testo (compreso il mio) definiscono l’inflazione come un rialzo prolungato nel livello generale dei prezzi. È una situazione nella quale i prezzi continuano a salire.
Ci sono molti modi di calcolare la misura dell’inflazione. Il più comune è l’indice dei prezzi al consumo. È pensato per rispondere a una domanda: “Quanto costa di più acquistare oggi lo stesso paniere di beni e servizi acquistato in un preciso momento del passato”? Per ridurre le sistematiche distorsioni verso l’alto causate dall’uso di pesi fissi, il “momento del passato” è cambiato relativamente di frequente, ogni due anni negli Stati Uniti.
Gli indici dei prezzi al consumo servono a svariati usi. Per esempio, i programmi statali su tasse e spesa sono generalmente indicizzati a questi. In più, l’indice dei prezzi al consumo offre una guida per l’aggiustamento di stipendi e salari. L’idea è che se si basa l’aggiustamento sull’indice dei prezzi al consumo, si mantiene in qualche modo stabile il potere d’acquisto. Ma il potere d’acquisto di che cosa? Questo dipende da quali prezzi sono inseriti nell’indice. Ma su questo torneremo.
Quel che è importante per le politiche pubbliche, è che gli obiettivi di inflazione fissati dai responsabili di politica monetaria sono generalmente indicati sulla base dell’indice dei prezzi al consumo. (Le dichiarazioni pubbliche della Federal Reserve tendono a riferirsi a un più oscuro indice basato sulla spesa personale per consumi, ma sono ottimista, cambieranno anche loro). C’è un ampio accordo sul fatto che anche una modesta inflazione ha costi alti perché riduce l’efficienza dell’economia nel suo insieme e rende più difficile per gli individui la programmazione a lungo termine.

L’affitto presunto

Se torniamo al problema delle misure, non stupisce che “come” si misurano i prezzi dipenda dal “perché” lo si fa. E per ritornare là da dove eravamo partiti, per le abitazioni occupate dai proprietari ciò vale ancora di più che per altri beni e servizi. Se, per esempio, l’obiettivo di misurare il prezzo delle abitazioni è convertire la spesa da nominale a reale, allora il prezzo adeguato è quello di vendita delle nuove abitazioni. Ma se si sta cercando di calcolare il prezzo associato al mantenimento di una famiglia rispetto a un qualche livello di benchmark, allora quello non è il dato giusto. Ma quale lo è dipende in parte dal modo in cui si pensa l’abitazione. (1)
Gli esperti di statistiche pubbliche che calcolano il consumo – la C nell’identità Y=C+I+G+(M-X) – hanno la necessità di includere (nei loro calcoli) l’abitazione e hanno un metodo per trattare nello stesso modo gli affittuari e i proprietari. L’idea è che se tutti i proprietari diventassero affittuari, o se tutti gli affittuari diventassero proprietari, il Pil non dovrebbe subire modifiche. Per far sì che l’evoluzione della percentuale di coloro che posseggono a propria abitazione non influenzi le misure di consumo, gli statistici ufficiali pretendono che i proprietari di casa affittino a sé stessi la propria casa. Di conseguenza, nei bilanci statali i proprietari di immobili ricevono un reddito supplementare pari all’affitto fittizio e sul lato della spesa del proprio bilancio, gli viene assegnato un pari ammontare di consumo addizionale. Il flusso di servizi abitativi al proprietario è conosciuto come affitto presunto e il suo prezzo è basato sui prezzi degli affitti di un campione di case più o meno simile a quella posseduta.
La costruzione dell’indice dei prezzi al consumo degli Stati Uniti riflette il sistema con cui il bilancio statale tratta l’immobile abitato dal proprietario. Si assume che i proprietari affittino a sé stessi le abitazioni, creando così una categoria chiamata “proprietario affitto-equivalente”. E poiché più dei due terzi delle famiglie americane sono proprietarie della casa in cui vivono, il peso dei proprietari affitto-equivalenti nell’indice dei prezzi al consumo è notevole: copre il 23,8 per cento dell’indice headline e il 30,8 del tradizionale indice core che non comprende alimentari ed energia.
Negli ultimi anni, il prezzo di vendita delle abitazioni è cresciuto notevolmente, mentre gli affitti hanno avuto un andamento fiacco. Proprio questo ha indotto a considerare con maggiore attenzione la decisione, che risale al 1981, di usare i proprietari affitto-equivalenti nell’indice dei prezzi al consumo. Nel breve periodo, la relazione inversa tra prezzi di vendita e affitti ha un senso. Gli individui, che non vogliono lasciarsi sfuggire l’occasione del boom immobiliare, lasciano la tranquillità degli affitti per precipitarsi a comprar casa. (2) Tuttavia, nel lungo periodo, il costo per chi la usa di possedere un immobile deve uguagliare il prezzo dell’affitto, ma le deviazioni dall’equilibrio possono essere ampie e durature. Se guardiamo agli Stati Uniti a partire dal 2000, vediamo che la categoria dei proprietari affitto-equivalenti è cresciuta di circa il 26 per cento (in totale), mentre l’indice dei prezzi degli immobili esistenti è salito dell’80 per cento. Se consideriamo questi numeri per i loro tassi annuali, la differenza è del 3,17 per cento contro l’8,48 per cento in media per sette anni e un trimestre. Per essere chiari, dall’inizio del millennio i prezzi di vendita degli immobili nuovi o esistenti sono cresciuti del 5 per cento in più degli affitti ogni anno.

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Una sottostima dell’inflazione?

Ciò significa che la categoria dei proprietari affitto-equivalenti sottostima l’inflazione? C’è chi sostiene che nell’indice dei prezzi al consumo dovrebbero entrare non tanto gli affitti osservati quanto i prezzi delle case esistenti. Il ragionamento è questo: il reddito a cui rinuncia il proprietario si basa sul prezzo di vendita corrente della casa. Significa che l’affitto implicito – essenzialmente una misura del costo opportunità di possedere invece che affittare una abitazione – dovrebbe basarsi non sugli affitti di mercato, ma sul prezzo della casa.
Il cambiamento comporterebbe un’enorme differenza nell’indice dei prezzi al consumo. Dal 2000 l’indice headline degli Stati Uniti è cresciuto a un tasso annuale medio del 2,75 per cento, mentre l’indice core tradizionale è salito in media del 2,20 per cento l’anno. Se gli statistici ufficiali utilizzassero i prezzi delle case vendute invece degli affitti, l’inflazione dei prezzi al consumo avrebbe registrato un aumento di qualcosa come il 4 per cento l’anno, all’incirca 1,25 punti percentuali in più ogni anno. E l’inflazione core sarebbe stata vicina al 3,8 per cento, che è di oltre un punto e mezzo percentuale sopra i dati ufficiali. Se questi fossero stati i numeri ufficiali, è difficile credere che la Fed avrebbe mantenuto per tre anni il suo obiettivo sui tassi di interesse federali al di sotto del 2 per cento.
Ci sono altri metodi per dar conto delle abitazioni occupate dal proprietario nelle misure di prezzo. Per esempio, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo, che sta alla base della definizione di stabilità dei prezzi utilizzata dal board della Bce, ignora del tutto gli immobili abitati dai proprietari. E funziona. È anche interessante notare che quando l’obiettivo di inflazione della Banca d’Inghilterra è passato dall’indice retail dei prezzi (simile a quello statunitense) all’indice armonizzato, ha abbassato l’obiettivo dal 2,5 al 2 per cento: è importante come si misura l’inflazione.
Alcuni paesi basano la loro misurazione dei prezzi degli immobili abitati dai proprietari sui prezzi di acquisizione senza considerare la terra. L’Australia ne è un esempio. (3) Questo metodo tratta le case allo stesso modo di beni durevoli come televisioni e automobili. Il procedimento consiste nel rilevare i prezzi delle nuove abitazioni e ponderarli in proporzione alla spesa corrente destinata all’acquisto. Anche se il prezzo di vendita tende a essere più volatile degli affitti, il suo peso è all’incirca della metà. (4)

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L’indice corretto è quello Usa

Forse, sto difendendo la “squadra di casa”, ma dopo molti ragionamenti e riflessioni, mi sembra che gli Stati Uniti siano nel giusto e che la misura dell’affitto-equivalenza sia un giusto bilanciamento di tutti questi aspetti. La categoria dei proprietari affitto-equivalenti è davvero il costo opportunità corrente della casa: misura il reddito che otterrei se lasciassi i locali dove vivo attualmente e li affittassi a qualcun altro.
Penso che tutti gli argomenti contrari all’utilizzo dell’affitto presunto non siano convincenti. La casa può essere un investimento, ma il dividendo che ricevo è il servizio abitativo che utilizzo. Il capital gain di lungo periodo è minuscolo: in media circa 20 punti base l’anno negli Stati Uniti durante i cento anni del XX secolo. Se investimento è, non è redditizio.
Il secondo importante argomento contro l’inclusione delle case abitate dai proprietari nell’indice dei prezzi è che i proprietari sono protetti da questi aumenti di prezzo. È senz’altro vero, ma perché estrapolare le abitazioni come l’unico caso in cui si dovrebbe tener conto di questa protezione. Non togliamo gli asparagi perché i coltivatori di asparagi sono protetti dai cambiamenti di prezzo degli asparagi. Più seriamente, non teniamo conto dell’utilizzo di attività finanziarie per proteggersi da rischi di consumo, allora perché farlo per le abitazioni? Per esempio, potrei proteggermi dal rischio di cambiamenti nel mio consumo di energia o di servizi medici comprando azioni di chi li fornisce. Significa che l’indice aggregato dei prezzi dovrebbe escluderli? Non credo.
La stabilità dei prezzi deve aiutare le persone a fare piani a lungo termine. Tenere bassa l’inflazione significa che gli individui possono impostare i loro piani di risparmio per la pensione senza doversi preoccupare della differenza tra tassi di interesse reali e nominali, qualcosa che la larga maggioranza delle persone non comprende. E ciò significa includere le abitazioni nei termini in cui lo si fa oggi.

(1) Per una discussione generale del tema della casa nell’indice dei prezzi al consumo vedi Erwin Diewert “The Treatment of Owner Occupied Housing and Other Durables in a Consumer Price Index” Department of Economics, University of British Columbia, Discussion Paper No. 03-08, novembre 2003.
(2) Per una discussione di queste dinamiche vedi Richard Peach e Jonathan McCarthy “Recent Housing Trends: Their Effects on Rent Inflation and Its Measurement of the CPI,” Federal Reserve Bank of New York, di prossima pubblicazione.
(3) Per una rassegna sulle misure utilizzate nel mondo vedi
Proceedings of the Irving Fisher Committee Workshop on CPI Measures, aprile 2006.
(4) Vedi Diewert op. cit. per una discussione del perché questo è necessario

*Il testo inglese è pubblicato sul sito www.voxeu.org

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