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Dossier: Pensioni tra scaloni e scalini

E’ stato raggiunto l’accordo sulla riforma delle pensioni. Analizzeremo in dettaglio il pacchetto. Purtroppo non sembra prevista alcuna revisione automatica dei coefficienti di trasformazione, l’unico strumento in grado di garantire al tempo stesso sostenibilità finanziaria ed equità tra le generazioni. Il sistema pensionistico resta governato dalla discrezionalità politica ciò che in passato ha prodotto debito, inefficienza e iniquità. Forniamo ai lettori il testo delle delibere del nucleo di valutazione della spesa previdenziale che stabilisce i criteri per la revisione automatica dei coefficienti. Non c’è bisogno di istituire una nuova commissione e rinviare ulteriormente il problema.

Non è l’ultima sigaretta, forse neanche la penultima, di Tito Boeri e Agar Brugiavini 23-07-2007

Habemus pactum. Non è certo l’inizio di un nuovo patto intergenerazionale. È un tampone che serve a guadagnare tempo in attesa di nuovi correttivi. Ma tutti i problemi di fondo rimangono irrisolti, sia di forma che di sostanza. La “concertazione” non c’è stata. Ora bisognerà decidere cosa fare del metodo contributivo dato che questo accordo continua l’opera di demolizione della riforma varata nel 1996. E bisogna assicurare vere coperture. Quelle sui parasubordinati non lo sono. Perché si scambia il vincolo di bilancio annuale dell’Inps con il vero vincolo di bilancio di un sistema previdenziale: quello che guarda al futuro.

Chi deve fare il passo indietro

L’accordo è stato salutato come una vittoria della concertazione. Ma dopo sette mesi di trattativa da carbonari senza alcun coinvolgimento dell’opinione pubblica, giungiamo a un patto che impegna tutti, soprattutto i più giovani, ma che è stato concordato solo da Cgil, Cisl e Uil. Legittimo chiedersi: chi rappresentano Angeletti, Bonanni ed Epifani, firmatari dell’accordo? E, come può un Raffaele Bonanni spingersi fino a chiedere “ai politici di fare un passo indietro”? Il passo indietro lo dovrebbe fare il sindacato, accettando di rivedere le regole della concertazione, lasciando un posto a tavola anche agli altri, a partire dai rappresentanti dei giovani.

Un giudizio: rispetto a cosa?

Molti commentatori hanno valutato l’accordo sulla base delle aspettative della vigilia, quando si rischiava un’abolizione dello scalone tout-court. Avrebbe voluto dire 35 miliardi in più di spesa previdenziale in dieci anni presumibilmente a carico della fiscalità generale. Il tutto per proteggere 129.500 pensionandi d’anzianità, molti dei quali provenienti dal pubblico impiego, ben pochi (attorno a 15mila) da lavori considerati usuranti. Rispetto a questo scenario è davvero difficile fare peggio. Richiamarlo è solo utile per capire cosa voleva la cosiddetta “sinistra massimalista”. Forse bisognerebbe ribattezzarla “vecchia sinistra”. In tutti i sensi.
È giusto invece valutare l’accordo rispetto alla legislazione vigente, e cosa sarebbe accaduto senza l’accordo. Due i cambiamenti più importanti.
Primo è stata approvata la tabella con i nuovi coefficienti di trasformazione, proposta dal nucleo di valutazione della spesa previdenziale, prevedendone un aggiornamento d’ora in poi ogni tre anni. Bene anche se rischia di essere un’approvazione pro forma perché è prevista una commissione col “compito di verificare e proporre modifiche” agli stessi (si noti che è stato cancellato dal testo un “eventualmente” che andava prima del “proporre modifiche”).
Secondo, l’accordo comporta un aumento di spesa previdenziale di circa 10 miliardi di euro in dieci anni. Male, anche se questa spesa sarà interamente finanziata all’interno del sistema pensionistico. Soprattutto perché il finanziamento avverrà aumentando i contributi dei parasubordinati (fino a 3 punti di aliquota, per raccogliere 4,4 miliardi) e da tutti i contribuenti (3,5 miliardi) nel caso assai probabile in cui non ci fossero risparmi dal riordino degli enti previdenziali . In un paese in cui già oggi la spesa previdenziale assorbe due terzi della spesa sociale, impedendo il finanziamento di programmi di base di lotta alla povertà, bisognava finanziare l’ammorbidimento dello scalone con tagli ad altri capitoli di spesa previdenziale (l’unico taglio nell’accordo è il tetto all’indicizzazione delle pensioni più alte). Ma c’è anche un altro problema: siamo sicuri che quelle trovate siano vere coperture?

Sono coperture vere?

Non sappiamo quanto le stime delle entrate da incremento delle aliquote contributive dai parasubordinati tengano conto degli inevitabili effetti negativi che l’incremento avrà sull’occupazione: in quattro anni l’aliquota è aumentata di 9 punti. Ma c’è anche un ulteriore problema. Quando si parla di previdenza la contabilità deve essere fatta su più generazioni, non sul bilancio dell’Inps anno per anno. Se aumentano i contributi oggi, domani aumenteranno anche le prestazioni. Soprattutto se siamo in un sistema contributivo. Delle due l’una: o l’accordo vuole sopprimere il legame fra contributi e prestazioni oppure, quelle trovate, sono coperture “da ragioniere”: fanno quadrare i conti oggi, facendo aumentare il debito pensionistico che graverà sui futuri lavoratori.

Addio al metodo contributivo?

Come lo scalone di Maroni e Tremonti, l’accordo scardina l’impianto del metodo contributivo, introdotto con la riforma varata nel 1996. Non si responsabilizzano i lavoratori, abituandoli a ricevere in base a quanto versato durante l’intero arco della vita lavorativa, e lasciandoli liberi di scegliere quando andare in pensione, sulla base di regole che impediscono che sia conveniente andare in pensione appena possibile. L’accordo, invece, introduce una giungla di scalini arbitrari, differenziati per genere, condizione lavorativa (gli autonomi potranno andare in pensione dopo i lavoratori dipendenti, le donne prima degli uomini) esattamente come la riforma targata Maroni-Tremonti. È il trionfo della discrezionalità della politica. C’è da scommettere che un governo più vicino ai lavoratori autonomi domani cercherà di ripristinare la parità di trattamento.
C’è poi anche l’istituzione di una commissione (come al solito composta solo da governo e “organizzazioni sindacali più rappresentative”) che dovrà cercare di trovare un modo di garantire “un tasso di sostituzione al netto della fiscalità a livelli non inferiori al 60 per cento?” Oltre all’ambiguità della formula (vuol dire che garantiamo a chi va in pensione con un salario di 200mila euro 120mila euro di pensione all’anno?), come è possibile fare promesse di questo tipo in un sistema previdenziale? Ai lavoratori più giovani si aggiunge, oltre al danno, la beffa di una promessa da marinaio.

Non sarà l’ultima riforma

Speravamo in una riforma definitiva. Ma i protagonisti di questo accordo sono, una volta di più, afflitti dalla malattia dell’ultima sigaretta: la fumano voluttuosamente dicendo che sarà l’ultima, ben sapendo che non è così. Questa non sarà l’ultima, né presumibilmente la penultima riforma. Chi ci dice che fra un anno non ci sarà una nuova estenuante trattativa per cambiare i nuovi scalini? Una verifica, per la verità è già prevista nel 2011. E poi bisognerà capire cosa accadrà ai lavoratori del sistema contributivo puro (quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1996). Infatti, le regole vigenti della Maroni hanno eliminato anche per questi lavoratori la finestra anagrafica 57-65 per la vecchiaia con un requisito anagrafico stringente di 65 anni di età (60 per le donne). Inoltre prevedono un trattamento di anzianità con 35 anni di contributi e 62 anni di età (a meno di aver cumulato 40 anni di contributi). Non è chiaro se le regole dell’accordo si applicheranno anche a questi lavoratori (ad esempio con 36 contributi+61 età a quota 97). Evidentemente il raccordo fra i due sistemi è da rifare se si vuole evitare una giungla di regole. Anche per questo ci vorranno nuovi interventi.

Il piano di SuperInps ha una clausola-paracadute , di Giuliano Cazzola 23-07-2007

“Il governo si impegna a presentare entro il 31 dicembre 2007 un piano industriale volto a razionalizzare il sistema degli enti previdenziali e assicurativi e a conseguire, nell’arco del decennio, risparmi finanziari per 3,5 miliardi di euro”. Così recita uno dei punti dell’accordo di S. Elia (il 20 luglio toccava al Profeta di occupare il posto d’onore nel calendario) a cui è affidato un ruolo importante (per oltre un terzo del totale) nella determinazione della copertura finanziaria della riforma.

Le garanzie di copertura

Il ministero dell’Economia (Dio l’abbia in gloria poiché, in condizioni politiche proibitive, ha tentato di salvare il salvabile, riuscendo talvolta ad arginare la deriva) ha voluto inserire una clausola di salvaguardia: “a partire dal 2011, esclusivamente come elemento di garanzia, è previsto l’aumento dello 0,09 per cento dell’aliquota di tutte le retribuzioni soggette a contributi (lavoratori dipendenti, parasubordinati e autonomi). Tale incremento – prosegue l’accordo – non verrà attivato nel caso in cui il processo di razionalizzazione degli enti previdenziali e assicurativi assicuri con certezza il conseguimento di risparmi medi annui in grado di garantire l’obiettivo indicato nel capoverso successivo”. In sostanza, a voler considerare gli aspetti politici del progetto, non si può non notare che l’eventuale (probabile) fallimento delle misure di razionalizzazione, riguardanti poco più di 50mila dipendenti e una pletora di organismi istituzionali (solo all’Inps ce ne sono più di 900 per oltre 6mila poltrone) comporterà un prelievo diffuso e generalizzato (ancorché modesto) su oltre 22 milioni di lavoratori. Anche in questo caso il governo – persino nelle sue componenti più responsabili – è pronto a risolvere, more solito, i problemi di mancata riduzione della spesa mediante un incremento delle entrate a vasto raggio.

Le razionalizzazioni

Per quanto riguarda l’ambito della razionalizzazione il testo dell’accordo è abbastanza chiaro: sono compresi non solo gli enti pensionistici, ma anche l’Inail e l’Ipsema (che sono enti assicurativi). Il piano non dovrebbe comportare necessariamente processi di fusione e di incorporazione, per altro già consentiti in base alle norme contenute nella Finanziaria 2007. Si parla, infatti, solo di “sinergie tra i vari enti (sedi, acquisti, sistemi informatici, uffici legali)” che dovranno “produrre nel breve periodo i risparmi sopraevidenziati”. Il piano “sarà oggetto di confronto con le organizzazioni sindacali”. Molti dubbi sono stati sollevati sulla reale possibilità di realizzare risparmi tanto consistenti attraverso semplici misure di razionalizzazione. Tanto più che non sembra essere investito direttamente il principale “costo”: quello del personale. Al solo scopo di avere una dimensione dell’incidenza dei diversi costi di gestione (al netto dei recuperi) si considera di seguito il caso dell’Inps, che è il principale ente previdenziale. Nel 2007, gli oneri per il personale in servizio ammontano a 1,8 miliardi di euro (a cui vanno aggiunti 348,8 milioni per il personale cessato dal servizio); l’elaborazione automatica dei dati (informatica) comporta 182,7 milioni; le altre spese di funzionamento degli uffici (affitto locali e canoni d’uso, acquisto di beni e servizi) 387 milioni; le spese legali 179 milioni; organi e commissioni 9,5 milioni. I servizi affidati ad altri enti (Poste e banche per il pagamento delle prestazioni, Centri di assistenza fiscale, eccetera) impiegano 550 milioni. Si tratta di voci cui affluisce una notevole mole di risorse. I risparmi, quindi, non sarebbero impossibili ma solo difficili soprattutto quando sul cammino della razionalizzazione si frapporranno resistenze politiche e sindacali di ogni tipo. A partire dalla predisposizione del “piano industriale”, un’attività che ricorda, in maniera sinistra e male augurante, il caso Alitalia. Basti pensare che la Commissione bicamerale di controllo sull’attività degli enti previdenziali ha condotto in materia (evocata come “SuperInps”) parecchie audizioni, convocando tutte le personalità e le istituzioni (ha chiuso le audizioni la Ragioneria generale) dotate di voce in capitolo. In quella sede i ministri sono stati molto laconici e cauti nell’indicare possibili risparmi. Il solo che si è presentato con 12 tabelle (girategli sicuramente dal management Inps) è stato Giovanni Rossi, magistrato della Corte dei Conti addetto al controllo dell’Inps. La sua illustrazione, tuttavia, ha suscitato l’irritazione del presidente e del cda dell’Istituto, al punto da determinare una presa di posizione pubblica recante la “non conoscenza” dei suggerimenti di Rossi. La concitazione della trattativa e la mancanza di argomenti hanno fatto sì che, alla fine, le proposte del magistrato siano state usate dal governo, “un po’ per celia, un po’ per non morir”. Il “pacchetto” delle razionalizzazioni si concludeva proprio con la cifra dei 3,4 miliardi di risparmi cumulati dal 2008 al 2011, alla stregua di quanto il governo ha, poi, indicato in calce all’accordo del giorno di S. Elia Profeta. Ed è proprio l’osservazione della genericità di quel piano, dove vengono incasellati degli importi corredandoli di un’inadeguata spiegazione, a far sorgere più di un dubbio sulla reale consistenza dei risparmi prefigurati a copertura, non a caso la Ragioneria ha preteso la clausola di salvaguardia. Le indicazioni di massima vengono racchiuse nella scheda seguente, riguardante le sinergie tra i tre maggiori enti: Inps, Inail, Inpdap.

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Scheda

Sedi: 150 milioni di risparmio
Fondi immobiliari: 900 milioni una tantum
Unificazione rete informatica: 140 milioni
Centrale acquisti e forniture: 210 milioni
Spese legali: 60 milioni (gli avvocati in servizio sono 330 all’Inps, 260 all’Inail, 48 all’Inpdap)
Miglioramento riscossione crediti: 1.050 milioni
Personale: 200 milioni
Razionalizzazioni (commissioni bancarie, controllo on line dei decessi, prevenzione indebiti): 680 milioni

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Tanto per dare un’idea dell’estrema genericità dell’operazione riportiamo, come esempio, ciò che è indicato a proposito dell’informatica: “La realizzazione di sedi accorpate/unificate consentirà l’utilizzazione di una rete telematica unificata con i conseguenti risparmi dovuti alle migliori condizioni ottenibili sui contratti di fornitura e lo sviluppo unico del software. Lo sviluppo di canali telematici unitari consentirà di ottenere per gli enti risparmi sulle minori connessioni e per gli utenti avere un punto unico di accesso informatico ai diversi servizi attualmente forniti da enti diversi. Il passo consequenziale è la costituzione di un unico centro elettronico”. Come si vede si tratta di impegni cosiddetti programmatici di lunga e complessa realizzazione. Invece, già nel 2008 vengono indicati 885 milioni risparmi (a cui aggiungere i 170 milioni delle cosiddette razionalizzazioni, che nel progetto di Giovanni Rossi hanno un significato più specifico e limitato di quello di carattere generale, riferito all’accordo). Si direbbe, allora, che l’ottimismo della volontà abbia avuto il sopravvento sul doveroso pessimismo dell’intelligenza.

E’ una questione di metodo. Contributivo, di Agar Brugiavini e Elsa Fornero 12-07-2007

Oggi si vedrà se il governo Prodi è ancora in grado di progettare il futuro del paese, oppure se – costretto dalle divisioni interne alla sua maggioranza – si limiterà a “navigare a vista”. Il presidente del Consiglio presenterà infatti la “sua” proposta sulla riforma delle pensioni. Sarebbe un vero peccato se vertesse soltanto sulla questione del cosiddetto “scalone“, ossia sull’attenuazione del brusco innalzamento dell’età pensionabile (da 57 a 60 anni per i lavoratori dipendenti, da 58 a 61 per i lavoratori autonomi) introdotto dal precedente governo. Lungi dal configurare una riforma, limitare l’intervento al solo scalone costituirebbe invece un cedimento a quelle parti della maggioranza e del sindacato meno sensibili a progetti e visioni di lungo periodo.
Mentre ammorbidire lo scalone è possibile, il modo in cui l’attenuazione viene effettuata deve essere compatibile con la riaffermazione del metodo contributivo di calcolo della pensione, il punto forte della riforma del 1995, oggi a rischio.

Perché è importante dare attuazione al metodo contributivo

Il metodo contributivo, propriamente applicato, è l’unico in grado di garantire al tempo stesso sostenibilità finanziaria (cioè sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) ed equità tra le generazioni, ossia di evitare che le pensioni corrisposte a una generazione siano basate sulla formazione di nuovo debito a scapito di quelle future. Il sistema è inoltre perfettamente compatibile con l’equità entro le generazioni, nel senso che ciascun lavoratore riceve una pensione corrispondente all’equivalente attuariale dei contributi versati, con eccezioni ispirate soltanto alla solidarietà e non alla creazione di privilegi. Per definizione, le eccezioni debbono essere trasparenti e limitate ai lavoratori meno fortunati.
Il metodo presenta anche un altro vantaggio, oggi oscurato dalla discussione sullo “scalone”, ossia la flessibilità nell’età di pensionamento, stabilita dalla riforma del 1995 all’interno della fascia di età 57-65, con un limite inferiore che coincideva, per i lavoratori dipendenti, con l’età minima richiesta (in combinazione con i trentacinque anni di contribuzione) per la pensione di anzianità.
L’alternativa al metodo contributivo è un sistema pensionistico governato dalla discrezionalità politica, ciò che in passato ha prodotto debito, inefficienza, iniquità.
Riaffermare oggi il metodo contributivo, quand’esso appare lontano e poco credibile, sarebbe una scelta forte, in contrasto con la pratica delle contrattazioni di piccolo cabotaggio tese a favorire le coorti vicine al pensionamento. Per fare ciò è essenziale approvare senza indugi i nuovi coefficienti di trasformazione.

Il ruolo dei coefficienti per l’equilibrio e l’equità del sistema

I coefficienti indicano, per ciascuna età compresa nella fascia del pensionamento flessibile, l’importo della pensione per ogni euro di contributi maturati al pensionamento. Il capitale complessivo accumulato dipende, a sua volta, da tutti i contributi versati nel corso della vita lavorativa, e dalla loro “capitalizzazione” (un po’ come se fossero soldi depositati in banca), a un tasso che, anziché essere finanziario, coincide con la media quinquennale del tasso di variazione del prodotto lordo interno.
Il ruolo dei coefficienti è semplice. Si supponga che all’età 57 la vita attesa residua sia di venti anni (come media tra uomini e donne); in tal caso, il coefficiente potrebbe corrispondere a un ventesimo di ogni euro accumulato, e quindi sarebbe pari al 5 per cento. In realtà, i coefficienti incorporano anche un tasso di rendimento prefissato dell’1,5 per cento (come se il capitale accumulato, che viene corrisposto mese dopo mese in forma di pensione, fruttasse un rendimento) e quindi sono un po’ più alti di quelli che deriverebbero dalla semplice divisione del capitale per la vita residua al pensionamento. Tenendo conto che le pensioni sono poi indicizzate ai prezzi, questo metodo di calcolo anticipa ai pensionati un rendimento reale dell’1,5 per cento.
Il punto fondamentale dei coefficienti è che non sono costanti per età, ma si alzano all’aumentare dell’età di pensionamento, a riflettere la minore vita attesa residua. È questo un principio fondamentale di equità dal quale il sistema pensionistico non può prescindere.
Se si accetta questo principio base, ne discende immediatamente un corollario. La demografia non è costante; in particolare, la vita si allunga e le persone che oggi hanno 57 anni, o 60 o 65 vivono in media oltre due anni in più di coloro che avevano le stesse età nel 1995. Per questo la legge aveva previsto la revisione decennale dei coefficienti (già peccando di eccessiva timidezza, perché dieci anni sono un periodo troppo lungo, soprattutto in presenza di cambiamenti molto rapidi nella longevità). La prima revisione dei coefficienti era infatti prevista per il 2005, ma – nonostante l’Istat avesse fornito il dato e il Nucleo di valutazione della spesa pensionistica approvato la correttezza del procedimento di revisione – fu rinviata dal governo Berlusconi, il quale evidentemente riteneva di avere già “pagato” in impopolarità con l’approvazione, sia pure a effetto ritardato, dello “scalone” sull’età.
Da notare che mentre la revisione dei coefficienti in relazione all’accresciuta longevità è “dovuta” perché parte integrante della legge, variazioni del rendimento reale possono essere decise solo discrezionalmente. Non esiste nessun “adeguamento automatico” del rendimento reale e non c’è nessun legame con la crescita del Pil che insista sui coefficienti se non nella scelta di un rendimento a priori condivisibile.

Perché rinviare ulteriormente è “costoso”

Il costo di un ulteriore rinvio non è però dato da un incremento di spesa previdenziale. Oggi le pensioni che contengono, pro rata, una quota contributiva sono molto poche: il periodo di inizio delle pensioni miste è all’incirca intorno al 2015. Il costo è piuttosto l’ulteriore perdita di credibilità della riforma del 1995, che molti già considerano sorpassata, con l’inevitabile ritorno alla discrezionalità politica del passato.
È vero: una frazione di pensioni contributive o miste potranno risultare troppo basse, ma non è alzando artificiosamente le pensioni di tutti che si risolve il problema. Anzi, l’impostazione può essere rovesciata: tanto più il sistema pensionistico è in equilibrio, tanto più facile sarà trovare le risorse per proteggere i futuri pensionati i cui redditi saranno al di sotto una certa soglia. L’aggiustamento del sistema pensionistico può, in altre parole, permettere di trovare strumenti più efficaci a copertura del rischio povertà, senza le forzature del passato, in gran parte responsabili degli squilibri presenti e futuri del sistema stesso. Non soltanto: l’aggiustamento immediato non è incompatibile con l’insediamento di una commissione tecnica che studi il dettaglio del metodo contributivo e proponga accorgimenti per migliorarne il funzionamento, mentre l’opposto (ossia aspettare i lavori della commissione per approvare i nuovi coefficienti) non può che essere considerato un escamotage per affossare il metodo.

Come è possibile ammorbidire lo scalone coerentemente con il metodo contributivo

La revisione dei coefficienti offre anche una soluzione coerente e sostenibile per l’attenuazione dello scalone. Si è detto che la fascia di età prevista nel 1995 era compresa tra 57 e 65, e che l’aspettativa di vita a queste età è aumentata di oltre due anni nel periodo. Ciò significa che la fascia va alzata di due anni, e quindi portata a coincidere con le età 59 – 67 a partire dal 2008. In coerenza con la “filosofia” della riforma del 1995, l’età minima per la pensione di anzianità dovrebbe essere quindi portata anch’essa a 59. I risparmi di spesa che si perderebbero sarebbero a nostro avviso più che compensati dall’aumento di credibilità, e dalla maggiore sicurezza sulle spese future, che si avrebbe con il rinnovato sostegno a un disegno pensionistico equo ed equilibrato.

Leggi anche:  Più lavoratori, ma più vecchi

Aumento delle pensioni: perché darlo anche ai ricchi?, di Massimo Baldini 12-07-2007

Nella notte dello scorso 10 luglio governo e parti sociali hanno raggiunto l’accordo sui criteri da seguire per incrementare i trattamenti delle pensioni basse, come previsto dal decreto legge di luglio, che ha stanziato 900 milioni a questo fine già dal 2007.
Si è deciso di aumentare le pensioni da lavoro percepite da chi ha almeno 64 anni, uomini e donne, in modo differenziato a seconda del numero degli anni di versamenti contributivi: per i lavoratori dipendenti, l’incremento vale 352 euro annui fino a 15 anni di contributi, 432 euro all’anno per chi ha versato contributi per almeno 16 e non più di 25 anni, e 518 per chi può vantare più di 25 anni di versamenti. Per gli ex indipendenti le soglie sui contributi versati sono leggermente più alte (fino a 18, da 19 a 28, oltre 28). E’ poi previsto un incremento anche per alcune pensioni sociali, cioè per quelle pensioni prive di requisiti contributivi.
Questi incrementi spettano solo se il reddito individuale complessivo del pensionato non supera i 654 euro mensili, escludendo la rendita sulla prima casa.
Si è quindi scelto di condizionare il trasferimento ad una sola misura di reddito individuale, senza considerare il reddito globale disponibile della famiglia in cui il pensionato vive.
Il diritto al trasferimento, inoltre, dipende solo dal fatto che non si superi la soglia dei 654 euro mensili, ma l’importo del trasferimento non è funzione inversa del livello della pensione. In altre parole, due soggetti, uno con pensione mensile di 400 euro e l’altro di 650 euro, con 20 anni di contributi, riceveranno entrambi un incremento pari a 432 euro all’anno.

Tenere conto delle famiglie

Utilizzando il campione rappresentativo delle famiglie italiane, costituito dall’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie, proviamo a verificare quale può essere l’impatto di questa misura sulla distribuzione complessiva del reddito.
Se classifichiamo le famiglie in 10 gruppi ugualmente numerosi (decili), ordinati per valori crescenti di reddito disponibile equivalente, possiamo innanzitutto verificare quante famiglie, in ciascun decile della distribuzione, ricevono il trasferimento (fig.1). Tra il 10% più povero della popolazione, circa il 13% delle famiglie è interessata dalla misura decisa dal governo. Questa quota aumenta decisamente nel secondo e terzo decile, per poi diminuire successivamente, rimanendo comunque superiore al 10% anche nel sesto decile.

Fig. 1 – Quota di famiglie che ricevono l’incremento delle pensioni basse, per decili di reddito disponibile familiare

In termini percentuali, questo trasferimento vale in media lo 0,16% del reddito disponibile di tutte le famiglie italiane, percentuale che cresce al 2,04% per le sole famiglie che lo ricevono.
L’ultima colonna della tab. 1 ci mostra come i vari decili si ripartiscono l’importo totale del trasferimento. Al 10% più povero della popolazione italiana va il 10% del trasferimento totale, al successivo 10% va il 19% del totale, quindi al terzo decile il 24%, e così via.

Tab. 1 – Incidenza percentuale del trasferimento sul reddito disponibile delle famiglie, valori medi per decile

Media su Tutte le famiglie di ciascun decile

Media calcolata solo sulle famiglie che ricevono il trasferimento

Ripartizione del trasferimento totale

1

0.60%

4.07%

10%

2

0.78%

4.28%

19%

3

0.72%

3.79%

24%

4

0.29%

2.43%

13%

5

0.18%

1.92%

9%

6

0.15%

1.32%

9%

7

0.07%

1.09%

5%

8

0.06%

0.81%

5%

9

0.04%

0.70%

4%

10

0.01%

0.39%

2%

Totale

0.16%

2.04%

100%

L’indice di Gini, che misura la diseguaglianza complessiva della distribuzione del reddito, diminuisce da 0,3369 a 0,3358.
Se definiamo come povera una famiglia che possiede un reddito disponibile inferiore al 60% del reddito mediano (definizione coerente con le scelte metodologiche utilizzate da Eurostat), la quota delle famiglie italiane in povertà si riduce passando dal 18,51% al 18,11%.
Tra le famiglie dei pensionati, l’incidenza della povertà passa dal 16,75% al 15,77%.
Tutti gli indici quindi migliorano, anche se non in modo marcato. La misura ha, nel complesso, un effetto redistributivo positivo.

Pensioni basse e povertà non sono la stessa cosa

Nonostante l’incremento delle pensioni più basse sia sicuramente concentrato a favore della metà meno ricca della popolazione italiana, a beneficiarne maggiormente non sono le famiglie più povere, cioè quelle del primo decile, ma quelle dei decili immediatamente successivi, cioè il secondo e il terzo.
Il suo impatto distributivo ricorda quindi molto quello della riforma Irpef-Assegni familiari dell’ultima finanziaria, che è andato soprattutto a vantaggio dei redditi medio-bassi, ma non dei più bassi in assoluto.
Avendo scelto, come criterio per la determinazione del beneficio, il reddito individuale e non quello familiare, non si può evitare che una parte del trasferimento totale finisca in famiglie dai redditi complessivi anche molto elevati. Nel caso specifico, circa il 25% dell’incremento complessivo delle pensioni deciso due giorni fa andrà a favore di famiglie appartenenti ai cinque decili più alti .
L’impatto molto ridotto sulla povertà complessiva, peraltro atteso, visto l’importo totale della misura, indica che l’equivalenza tra pensione bassa e povertà non è molto forte: vi sono molti poveri che non sono pensionati, e vi sono molti pensionati con pensioni basse che, grazie agli altri redditi della famiglia, non sono poveri.
Il problema della povertà continua ad essere affrontato in modo frammentato e utilizzando vecchi strumenti. Avremmo invece bisogno di strumenti nuovi, validi per tutti i cittadini in difficoltà, indipendentemente dalla precedente storia lavorativa. Altrimenti, rischiamo di avere poveri di serie A, quelli rappresentati nei tavoli di concertazione, e poveri di serie B, gli altri.

Gli italiani e le pensioni, di Sandro Gronchi 10-07-2007

È stato autorevolmente detto che l’Italia dovrebbe copiare uno qualsiasi dei sistemi elettorali europei. Non importa quale: sempre meglio dei pasticci che sarà capace di combinare progettandone uno proprio. La raccomandazione può essere traslata in altri campi, pensioni comprese.
Il “dibattito” in corso sembra preludere a esiti che accresceranno il disordine già imperante. I temi che si affastellano meriterebbero, ciascuno, un’accurata analisi per poi trovare collocazione in un disegno organico di riordino che tenga conto delle interazioni fra i singoli interventi. E quelli riguardanti la fase transitoria andrebbero coordinati con gli altri, di più lungo periodo, inerenti il perfezionamento del sistema “contributivo” (che l’Italia, dove ebbe i natali, dovrebbe imparare a chiamare con l’acronimo Ndc – Notional Defined Contribution – usato nel resto del mondo). Invece, la scena è irrimediabilmente dominata dagli interessi immediati con la complicazione delle strumentalizzazioni tipiche di un paese instabile, condannato a vivere una sorta di campagna elettorale permanente.

Alla discussione sull’età manca un “punto di partenza”

Protagonista assoluto è il superamento dello scalone. Vale la pena ricordare che il requisito anagrafico minimo di 57 anni, scelto nel 1995 per i lavoratori (in tutto o in parte) “retributivi”, coincise non per caso col limite inferiore della fascia d’età (57-65 anni) entro cui i lavoratori “contributivi” furono ammessi al pensionamento. La coincidenza doveva impedire che, nella lunga fase transitoria in cui i lavoratori retributivi e quelli contributivi sarebbero andati in pensione assieme, i primi potessero farlo a un’età minima diversa da quella consentita ai secondi. Proprio per questo la coincidenza dovrebbe essere preservata nel senso che la nuova età minima dei lavoratori retributivi dovrebbe essere allineata (anche per gradi) a quella preliminarmente da individuare per i contributivi. Che c’entrano, allora, le “quote” che non prefigurano alcuna età minima di pensionamento? E perché nessuno sta proponendo la nuova fascia d’età pensionabile per i lavoratori contributivi che dovrebbe costituire il punto di partenza di ogni ragionamento?

Per i lavori usuranti la soluzione non può essere l’età

Altro tema caldo è quello dei lavoratori “usurati” che manterrebbero il diritto ai 57 anni. A che varrà tale diritto quando la pensione sarà calcolata con la formula contributiva e, per lasciare il lavoro prima, occorrerà pagare il prezzo di un coefficiente di trasformazione più piccolo? A regime, la soluzione va quindi cercata non tanto in età di pensionamento minori quanto in coefficienti maggiori. Nel frattempo, cos’altro escogitare per le pensioni ancora calcolate (in tutto o in parte) con la formula retributiva? Al quesito non esistono risposte facili in un contesto in cui si è già deciso che lo scalone dev’essere superato con gli scalini e/o le quote, anziché con correttivi degli importi di pensione che avrebbero opportunamente anticipato le logiche contributive, specialmente se ottenuti rapportando il coefficiente di trasformazione di ciascuna età a quello di un’età “canonica”. (1) Nel caso fosse stata scelta questa via, per i lavoratori usurati il rapporto avrebbe potuto recare, al numeratore, il loro coefficiente relativo all’età prescelta (fermo restando, al denominatore, il coefficiente del lavoratore “normale” all’età canonica). Ecco un esempio di come un disegno organico di riordino dovrebbe tener conto delle interazioni fra i singoli interventi evitando di procedere per compartimenti stagni.

Il super-Inps non è sufficiente

Di moda è anche il “super-Inps” che va bene ma per ragioni affatto diverse da quelle immaginate. In realtà, l’unificazione degli enti non serve tanto, o solo, a ottenere quei risparmi (sui costi di amministrazione) con cui si sogna di compensare, in parte, l’addolcimento dello scalone. È, invece, il presupposto per la unificazione delle gestioni previdenziali che, insieme alla unificazione delle aliquote, è un irrinunciabile “portato” della riforma contributiva. In un sistema Ndc frammentato gli equilibri delle singole gestioni non possono essere garantiti dal rendimento unico costituito dalla crescita dei redditi imponibili (da lavoro dipendente e autonomo) che il legislatore del 1995 volle irragionevolmente approssimare con la crescita del Pil. Piuttosto, gli equilibri dovrebbero essere affidati a rendimenti differenziati in ragione delle diverse evoluzioni delle basi imponibili. (2) Ma non può essere questa una soluzione socialmente accettabile.


(1)
S. Gronchi, Un’ipotesi di Correzione e Completamento della Riforma delle Pensioni del 1995, ministero del Tesoro – Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, Nota n. 10 del 1997.
(2) S. Gronchi, “Sostenibilità Finanziaria e Indicizzazione: un Commento alla Riforma del Sistema Pensionistico”, Economia Italiana, numero 1, 1996.

L’eredità previdenziale, di Vincenzo Galasso 10-07-2007

Al tavolo delle pensioni sembra di essere ormai all’ultima cena. Nessuno sguardo al futuro, nessun pensiero al domani. Al posto d’onore nessun convitato di pietra, ma Lorenzo il Magnifico con il suo “chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza”.

Un esercizio di contabilità

Se ci sono i fondi necessari – l’ormai mitico tesoretto – è possibile eliminare scaloni e anche scalini. L’idea, esplicitata il 5 luglio su La Repubblica da Luciano Gallino nella sua “Lettera aperta all’Inps” è di una disarmante semplicità, è molto efficace. Purtroppo, i calcoli riportati sono fuorvianti e la logica difficilmente condivisibile.

Concentrandosi sul flusso di cassa del sistema previdenziale – entrate correnti, ovvero le contribuzioni dei lavoratori, e uscite correnti, ovvero le pensioni – Gallino sostiene che nel 2007 ci saranno sufficienti risorse per pagare le pensioni dei lavoratori dipendenti. Ogni eventuale squilibrio di cassa è da imputare alle prestazioni assistenziali o ad altri sistemi diversi dall’Inps, ad esempio, dirigenti d’azienda, Fs, artigiani. Perché dunque chiedere proprio ai lavoratori dipendenti – per altro tradizionale elettorato del centrosinistra – di pagare il conto attraverso un allungamento della vita lavorativa? L’esercizio di contabilità presentato da Gallino si basa su una divisione ex-post e alquanto arbitraria tra assistenza e previdenza. (Si veda, su questo punto, la risposta di Boeri e Brugiavini a Eugenio Scalari).

E una logica sbagliata

Ma se anche la contabilità fosse giusta, la logica di fondo non lo sarebbe. Questa tesi si basa su una visione statica, se non miope, del sistema previdenziale: se ci sono abbastanza risorse per far fronte agli impegni di oggi, non serve cambiare. Ma cosa faremo tra qualche anno, quando il rapporto tra lavoratori contribuenti e pensionati si ridurrà drasticamente e non ci saranno le risorse sufficienti per pagare le pensioni – almeno non generose come adesso? Saremo disposti ad accettare una sostanziale riduzione degli assegni? Non sembra, visto che l’aggiornamento del coefficiente di rivalutazione previsto dalla riforma Dini è fortemente osteggiato. Preferiremo forse aumentare l’aliquota contributiva, già oggi la più alta d’Europa, o ricorrere in misura ancora maggiore alla fiscalità generale? Gallino non sembra preoccupato da questa seconda alternativa. Gli esperti internazionali – Fondo monetario internazionale, Ocse – ma anche i mercati finanziari, un po’ di più.

La dinamica demografica è lenta, ma i suoi effetti sul sistema previdenziale si faranno sentire drammaticamente quando i baby-boomers italiani inizieranno ad andare in pensione. Aspettare che (anche) l’Inps vada in disavanzo prima di agire è sicuramente inefficiente e miope: quale padre di famiglia non risparmierebbe parte del suo reddito corrente se sapesse che un magro futuro lo attende? Ma aspettare è anche iniquo. Verso le generazioni giovani e future, che saranno chiamate a sostenere l’intero costo dell’invecchiamento della popolazione. Se non oggi, infatti, un forte aumento dell’età di pensionamento si registrerà tra venti o trenta anni, quando i giovani lavoratori di oggi che si avvicineranno all’età di pensionamento con carriere contributive spesso brevi e discontinue, e dunque con pensioni basse, non potranno certo permettersi di pre-pensionarsi a 55 o 60 anni, come era accaduto ai loro padri (e madri).

Aumentare l’età di pensionamento, tramite incentivi ma soprattutto disincentivi, già da oggi e magari – se, come sostiene Gallino, l’Inps è in attivo e dunque le risorse ci sono – istituire un fondo pensione che agevoli il finanziamento delle pensioni dei baby-boomers, come accaduto negli Stati Uniti già negli anni Ottanta, rappresenterebbe invece un’eccellente eredità che una classe politica non certo giovane – o un gruppo di persone di persone con figli e nipoti – potrebbe lasciare alle generazioni future.

Lo “scalone” si può barattare, di Sandro Gronchi 21-06-2007

Ancora una volta il dibattito pensionistico italiano è interamente assorbito dalle preoccupazioni di breve periodo: a tener banco è lo scalone del primo gennaio mentre l’aggiornamento dei coefficienti sembra usato per mantenere in ostaggio il governo finché non abbia fatto le concessioni “giuste”. È un peccato che il tasso di sconto intertemporale di questo paese resti così elevato da azzerare l’interesse per tutto ciò che non è candidato ad accadere in breve tempo.

I problemi dei coefficienti

Nel 1995 fu ancora peggio nel senso che, dei soli tre mesi impiegati a partorire la più innovativa delle riforme europee, la maggior parte furono spesi a negoziare la tabella di marcia con cui l’età minima di pensione sarebbe stata gradualmente elevata fino a raggiungere gli attuali 57 anni. Rassicurato dai tempi biblici della transizione, il sindacato accettò di avallare in fretta una “proposta contributiva” improvvisata e zeppa di errori concettuali dei quali ancor oggi non si riesce a discutere.
Gli errori riguardanti i coefficienti di trasformazione sono certamente rilevanti, ma bisogna smettere di pensare che bastino revisioni annuali anziché decennali. Ciò servirà a evitare scaloni socialmente ingestibili e a impedire il privilegio altrimenti concesso a chi va in pensione alla fine di un decennio piuttosto che all’inizio del successivo. (1)
Ma non è tutto. In primo luogo, ogni generazione ha diritto ai “suoi” coefficienti che devono esserle stabilmente assegnati quando essa varca l’età pensionabile. Diversamente, a lavoratori nati nello stesso anno saranno iniquamente imputate tavole di sopravvivenza diverse in dipendenza dell’età di pensionamento prescelta; e la prospettiva di revisioni al ribasso si tradurrà in un formidabile incentivo ad anticipare il pensionamento. (2)
In secondo luogo, le tecniche di calcolo dei coefficienti devono essere perfezionate sia per smussare la volatilità della sopravvivenza sia per evitare che essi nascano obsoleti perché basati su tavole di sopravvivenza non aggiornate.

Tante cose da fare

La corretta regolamentazione dei coefficienti non esaurisce le cose da fare, l’elenco delle quali è troppo lungo per essere contenuto in un articolo di giornale. Mi si lascino solo menzionare gli interventi più importanti che vanno dalla correzione del meccanismo di indicizzazione per garantirne la coerenza coi coefficienti di trasformazione (3), allo “scorporo” dell’invalidità e della premorienza – entrambe inconciliabili con un sistema a contribuzione definita, alla unificazione delle gestioni previdenziali e al livellamento delle aliquote contributive – entrambi indispensabili per garantire l’equilibrio strutturale del sistema e non solo utili per ridurre i costi di amministrazione o fare cassa nel medio termine.
Agli interventi necessari per non lasciare incompiuta la “macchina contributiva”, se ne possono aggiungere altri con cui cogliere almeno alcune delle tante flessibilità che essa offre a costo zero. Fra questi, il “pensionamento graduale”, cioè la possibilità di trasformare in rendita una parte del montante contributivo lasciando che la parte residua sia alimentata dall’ulteriore contribuzione versata proseguendo (anche part time) l’attività lavorativa. In secondo luogo, la crescente femminilizzazione del mercato del lavoro apre la strada alla libera scelta fra rendite reversibili e non(4). In terzo luogo, i lavoratori potrebbero essere chiamati a scegliere il profilo temporale della loro pensione, anche accettando coefficienti di trasformazione più bassi in cambio di indicizzazioni più generose. La scelta li indurrebbe anche a riflettere sulle pensioni d’annata e sull’opportunità di posporre l’età di pensionamento.
Questi e altri dovrebbero essere gli argomenti di un dibattito pensionistico lungimirante e maturo. E se a impedirlo fosse lo scalone, bene farebbe il governo a barattarlo in cambio dell’impegno a consolidare il modello contributivo.
Non sarò l’unico a ricordare che gli interventi sull’età di pensione giunsero inattesi e che dall’attuale maggioranza furono non solo contestati nel merito, ma anche interpretati come un furbesco diversivo teso a distrarre l’attenzione dell’Europa dalla finanza creativa di leggi di bilancio poco incisive. Fino a quel momento tutti sembravano contenti della “dolce gobba”, salita la quale la spesa pensionistica in termini di Pil avrebbe cominciato a scendere proprio grazie alla riforma contributiva.

(1) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi in Il Sole 24Ore del 10 febbraio 2007.
(2) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi in Il Sole 24Ore del 9 maggio 2007.
(3) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi, in Il Sole 24Ore del 29 marzo 2007.
(4) Occorre comunque eliminare l’attuale regime di cumulo della pensione al superstite coi redditi autonomamente posseduti da quest’ultimo. Oltre ad impedire il calcolo corretto dei coefficienti, tale regime appare come un ‘tardivo’ tentativo di redistribuzione, del tutto stonato in un modello pensionistico che non prevede (pur potendolo fare con maggiore trasparenza di altri) redistribuzioni più importanti e significative di questa.

Tanto rumore per nulla?, di Tito Boeri e Agar Brugiavini 08-06-2007

La vicenda del rapporto Ocse sulle pensioni censurato dal governo italiano testimonia due cose. Primo, se il governo ha davvero al suo interno competenze tecniche maggiori del precedente esecutivo, fa di tutto per non metterle in mostra. Secondo, la moltiplicazione dei centri decisionali (ben tre ministeri coinvolti, più Palazzo Chigi, che non si parlano tra di loro) genera mostri. Questa storia ha sollevato un vespaio che ha tolto credibilità al governo italiano, rendendo ancora più difficile il negoziato in corso sulla riforma delle pensioni.

Stime Ocse e rilievi italiani

Il governo italiano, unico fra i trenta paesi dell’Ocse, ha voluto apporre una nota di censura in calce alla prima pagina del rapporto dell’organizzazione sulle pensioni negli Stati membri. Motivo? Una tabella contestata dai “tecnici” del ministero della Solidarietà sociale (non ci risulta siano stati consultati quelli del ministero dell’Economia).
Le statistiche dell’Ocse si basano su ipotesi che devono, per ragioni di comparabilità, essere applicate a tutti i paesi. Ad esempio, le statistiche sui tassi di occupazione (quelle prese a riferimento negli obiettivi di Lisbona) definiscono la popolazione in età lavorativa, il denominatore del tasso di occupazione, come la popolazione fra 15 e 64 anni. Non in tutti i paesi si inizia a lavorare così presto e si finisce così “tardi”. Ma è una convenzione da tempo accettata da tutti. Per quanto lontana dalla realtà di alcuni paesi, è vicina a quella della media dei paesi Ocse e permette di fare comparazioni internazionali su grandezze omogenee. Bene armonizzare le ipotesi tra paesi anche per renderle meno manipolabili dai governi nazionali: se un governo decide di permettere a tutti di andare in pensione a 50 anni, non deve poter abbassare il limite superiore della popolazione in età lavorativa di 15 anni per mostrarsi virtuoso nel raggiungimento degli obiettivi di Lisbona.
La ragione per cui l’Italia non ha firmato il rapporto è tutta in una tabella, quella che stima i tassi di sostituzione futuri delle pensioni (il rapporto fra pensione e salario). Questa tabella viene calcolata ipotizzando che un lavoratore entri nel mercato del lavoro a 20 anni e lavori fino al raggiungimento dell’età legale di pensionamento ai salari medi. In Italia, come nella maggioranza dei paesi Ocse, questo significa una carriera di 45 anni, da 20 a 65 anni. Troppo lunga la carriera ipotizzata, secondo i “tecnici” del ministero della Solidarietà sociale, che hanno chiesto all’Ocse di considerare una carriera di soli 40 anni e iniziata a 25 anni. L’Ocse ha rifatto le stime sotto queste ipotesi e le ha pubblicate sul rapporto, in aggiunta alla tabella originaria. Questo non è bastato al governo italiano, che, creando un pericoloso precedente, ha fatto aggiungere a pagina tre una nota in cui “esprime seri dubbi sull’adeguatezza dei dati e, dunque, sulla comparabilità dei risultati”. Una volta delegittimato dal governo italiano, il rapporto è stato poi immediatamente bocciato dal segretario della Cgil che lo ha definito “strabico”. Insomma, dietro all’obiezione “tecnica” si avverte il disagio nel vedere il sistema pensionistico italiano classificato come uno di quelli che offre trattamenti più alti (in rapporto al salario) tra i paesi Ocse.

Criterio OCSE

Criterio italiano

95,7

Grecia

92,9

Grecia

90,3

Lussemburgo

81,2

Spagna

83,6

Danimarca

79,8

Lussemburgo

81,7

Paesi Bassi

78,2

Danimarca

81,2

Spagna

76,7

Paesi Bassi

80,1

Austria

74,8

Islanda

80,1

Islanda

71,2

Austria

76,9

Ungheria

66,8

Ungheria

72,7

Corea

65,9

Turchia

72,5

Turchia

64,6

Corea

67,9

Italia

61

Italia

63,7

Svezia

60,5

Svezia

63,4

Finlandia

59,1

Repubblica Ceca

62

Svizzera

59

Norvegia

61,2

Polonia

58,2

Finlandia

60

Norvegia

58,2

Svizzera

56,7

Slovacchia

54,3

Portogallo

54,3

Repubblica Ceca

53,3

Polonia

54,3

Portogallo

49,5

Canada

51,2

Francia

48,8

Slovacchia

49,5

Canada

46,8

Nuova Zelanda

47,9

Australia

45,9

Australia

46,8

Nuova Zelanda

43,6

USA

43,6

USA

38,2

Irlanda

40,7

Belgio

37,9

Belgio

39,9

Germania

37,5

Francia

38,2

Irlanda

35,5

Germania

36,8

Giappone

34,4

Giappone

36,6

Messico

32,6

Regno Unito

34,4

Regno Unito

31,5

Messico

Media

Media

60,8

56,6

Coefficiente di correlazione tra le due graduatorie

0,98

Fonte: nostra elaborazione su dati Ocse

I calcoli secondo criteri italiani

Ma come sarebbe cambiato il rapporto se l’Ocse avesse seguito alla lettera le indicazione dei nostri “tecnici”? La tabella compara le stime di Pension at a Glance con quelle che si sarebbero ottenute ipotizzando per tutti i paesi una entrata sul mercato del lavoro a 25 anni. Come si vede, il tasso di sostituzione si abbassa per tutti i paesi (non potrebbe essere altrimenti: meno contributi portano a pensioni meno generose), ma non cambia affatto la posizione relativa dell’Italia.
Il tasso di sostituzione stimato per l’Italia dall’Ocse (67,9 per cento, vale a dire una pensione che rimpiazza circa due terzi del salario medio durante la vita lavorativa) è in linea con molte stime. All’atto della riforma Dini, il Bollettino economico della Banca d’Italia stimava il tasso di sostituzione per analoga carriera e profilo retributivo addirittura al 75 per cento. Anche i salari medi ipotizzati dall’Ocse (22mila euro lordi all’anno), sono coerenti con altre fonte statistiche. Infine, è utile ricordare che si tratta di tassi lordi: quelli al netto delle tasse, che servono a valutare il potere d’acquisto delle pensioni rispetto ai salari, sono di circa 10-15 punti più alti.
Insomma non si voleva far apparire il nostro sistema come troppo generoso. Ma se i “tecnici” avessero letto con cura le tabelle dell’Ocse, avrebbero potuto notare che il nostro sistema pensionistico non è affatto generoso: è solo di una insostenibile pesantezza perché versando il 33 per cento dei salari porta a un tasso di rimpiazzo inferiore a quello di paesi, come la Svezia, in cui il contribuente versa meno del 19 proprio del proprio salario. Inoltre le stime dell’Ocse dopotutto dimostrano che, anche con 45 anni di contributi, non si riesce a ottenere più di due terzi del salario. Per chi ha carriere discontinue questo traguardo è un miraggio. Ma il problema è più nel mercato del lavoro che nel sistema pensionistico.
Né i “tecnici” del ministero né Guglielmo Epifani hanno notato che le stime dell’Ocse ipotizzano che vi sia da qui al 2040 una revisione dei coefficienti di trasformazione, che dovrebbero scendere a 4.99 (dagli attuali 6.136) a 65 anni. Se ritengono le stime dei tassi di rimpiazzo dell’Ocse siano troppo alte, vuol dire che hanno non solo accettato di rivedere i coefficienti, ma anche di rendere questi aggiustamenti automatici, in base all’andamento demografico. È davvero così?

Domande fondamentali, di Tito Boeri e Agar Brugiavini 12-03-2007

1) I giovani avranno la pensione? E se sì, a che condizioni la avranno?

Per effetto delle riforme pensionistiche dell’ultimo decennio, per i giovani i tassi di rimpiazzo (ovvero il rapporto tra prima prestazione pensionistica e ultimo salario) delle generazioni che vanno in pensione ora sono irraggiungibili. Questo perché la pensione pubblica offrirà un rimpiazzo del reddito da lavoro del 35-40 per cento nei casi migliori, contro l’attuale 65-70 per cento. (1) L’unica via per coprire questo “buco” pensionistico è garantire, specialmente ai giovani, rendimenti più elevati all’accantonamento ora versato al trattamento di fine rapporto.
Il rischio è che un giovane che oggi entra nel mercato del lavoro finisca, anche dopo 45 anni di lavoro (otto anni in più in media di chi va in pensione ora), per ricevere una pensione inferiore al minimo sociale. È una questione di equità intergenerazionale e sostenibilità allo stesso tempo. L’aliquota di equilibrio (il contributo che dovrebbe essere pagato per azzerare il deficit dell’Inps) è oggi vicina al 45 per cento. Come si può a chiedere a qualcuno di trasferire quasi il 50 per cento del proprio salario a chi va in pensione a 57 anni, dopo 35 di lavoro, sapendo che lui stesso percepirà una pensione, in rapporto all’ultimo salario, del 20-30 per cento inferiore a quella del beneficiario del suo trasferimento? Quindi per i giovani deve essere incentivato al più presto il trasferimento del Tfr ai fondi pensione. Il sindacato ha un ruolo fondamentale da giocare in questo quadro. I giovani sono spesso occupati in piccole imprese, soggetti alle pressioni (se non al ricatto) dei datori di lavoro che chiedono di mantenere il Tfr presso l’azienda. Per evitare le pressioni e i ricatti, bisogna che la scelta su cosa fare del Tfr sia coordinata fra i lavoratori. Di qui il ruolo insostituibile del sindacato, che però sulla questione ci sembra molto distratto.

2) Coefficienti di trasformazione? Quali vantaggi o svantaggi per i giovani da un’eventuale riforma? Quali vantaggi o svantaggi, inoltre, dalla rimozione dello scalone?

Partiamo dai coefficienti di trasformazione. Quando si va in pensione, i coefficienti convertono il montante di contributi accumulati durante la vita lavorativa in quiescenza annuale. Il coefficiente tiene conto di due aspetti: è graduato sulla base degli anni di anticipo rispetto ai 65 anni (cresce al crescere dell’età di pensionamento) ed è calibrato sulla speranza di vita, perché una vita attesa più lunga implica che le prestazioni devono essere versate per un numero maggiore di anni. I coefficienti attualmente variano da un minimo del 4,720 per cento (a 57 anni di età) a un massimo di 6,136 (a 65 anni di età). Ciò significa che chi, a 65 anni di età, avesse accumulato un montante per 100mila euro, si vedrebbe riconosciuta una pensione di 6.136 euro all’anno.
Senza revisione dei coefficienti, il sistema contributivo non sarebbe sostenibile e non avrebbe più ragion d’essere. La variazione dei coefficienti di trasformazione è parte integrante della riforma Dini e costituisce uno dei capisaldi della equità intergenerazionale. Quando la longevità aumenta, le pensioni devono essere adeguate a questo cambiamento, altrimenti la generazione che va in pensione otterrà più risorse di quelle preventivate, facendo pagare “il regalo” alle generazioni presenti e future attraverso un aumento dell’imposizione fiscale. Non modificare i coefficienti di trasformazione equivale ad aumentare la generosità delle pensioni per quelle generazioni che andranno in pensione prima della prossima riforma. Infatti senza aggiustamento dei coefficienti il sistema sarà presto insostenibile e bisognerà intervenire di nuovo, aumentando ulteriormente i contributi sociali per i lavoratori oppure l’età di pensionamento o riducendo il reddito pensionistico per le future generazioni. Quindi, il mancato aggiustamento oggi dei coefficienti, aumenta anche il “rischio politico” di vedersi cambiate ulteriormente le regole previdenziali a proprio svantaggio in futuro (più contributi mentre si lavora, meno trasferimenti da pensionati e maggior età di pensionamento) e aumenta l’incertezza nel pianificare il proprio futuro previdenziale.

Per ridurre il rischio politico di nuove riforme, bisognerebbe rendere gli aggiustamenti dei coefficienti automatici in base agli aggiornamenti delle tavole di mortalità compilate dall’Istat, come già avviene in Svezia. La revisione automatica eviterebbe di intervenire sempre in ritardo (e con processi decisionali che finiscono inevitabilmente per non garantire i lavoratori più giovani) nell’adeguare il sistema previdenziale alla dinamica demografica.



Come mostra il grafico qui sopra, tratto da un rapporto della Ragioneria Generale dello Stato, senza l’aggiornamento dei coefficienti, la spesa pensionistica aumenterebbe di circa due punti di Pil. Da notare che il quadro previsionale offerto dalla Ragioneria potrebbe radicalmente cambiare ove insorgessero resistenze alla caduta tendenziale delle coperture al pensionamento così come di quelle successive. Se i coefficienti non fossero aggiornati e fossero introdotte, anche con cadenza irregolare, forme di perequazione delle pensioni superiori all’inflazione, il profilo della annunciata ‘gobba’ sarebbe diverso, fino a portare la spesa ben oltre il 20 per cento del Pil (anziché al 16 per cento). Per contro, la revisione indurrà i lavoratori a elevare spontaneamente l’età media di pensionamento. E, dal punto di vista macroeconomico, ciò conterrà la crescita dei pensionati liberando le risorse necessarie a preservare al meglio le pensioni e a garantire un reddito minimo a tutti, giovani e anziani, come misura di contrasto alla povertà.
Riguardo allo scalone, abbiamo espresso più volte le nostre perplessità su questa misura perché riteniamo che siano preferibili interventi che mantengano flessibilità e libertà di scelta su quando andare in pensione. Dal punto di vista dei giovani, tuttavia, l’abolizione dello scalone senza alcuna misura che contenga la spesa pensionistica (tipo riduzioni attuariali delle pensioni per chi va in pensione prima dei 65 anni), significherebbe dover sobbarcarsi quasi 9 miliardi in più di tasse per pagare le pensioni di chi si sta ritirando dalla vita attiva con quiescenze ben più alte di quelle cui i giovani avranno diritto domani. La rimozione dello scalone senza interventi sostitutivi sarebbe dunque un nuovo schiaffo all’equità intergenerazionale.

3) Che cosa vuol dire per voi impostare la riforma delle pensioni nell’ottica della solidarietà tra le generazioni?

Vuol dire anticipare l’entrata in vigore delle nuove regole previdenziali, come avvenuto in Svezia, dove il sistema contributivo è stato adottato subito per tutti, tranne per chi aveva più di 62 anni, anziché essere circoscritto ai più giovani. La comparazione fra Italia e Svezia, si veda il grafico qui sotto, è un chiaro esempio di come i giovani siano da noi sotto-rappresentati nel processo politico. Bene che oggi facciano sentire di più la loro voce.

Quanto è necessario il secondo pilastro? di Sandro Gronchi e Fulvio Gismondi 14-02-2007

L’evoluzione della copertura pensionistica (pensione/retribuzione) nella prima metà del secolo dipenderà dalle modalità e i tempi con cui il legislatore vorrà sciogliere i nodi riguardanti l’indicizzazione di tre parametri:

· il tetto di retribuzione pensionabile deputato, nella fase transitoria, a contenere le pensioni retributive medio-alte;

· il tetto di retribuzione imponibile deputato, a regime, a delimitare la quota di retribuzione coperta dall’assicurazione contro la vecchiaia;

· la pensione minima destinata a scomparire quando il sistema contributivo sarà a regime (1), ma ancora deputata, nella fase transitoria, a soccorrere le posizioni assicurative più deboli, oltreché inopportunamente utilizzata, anche a regime, come unità di misura degli scaglioni di pensione a indicizzazione differenziata. (2)

Le incertezze e le ipotesi

Ma il nodo maggiore riguarda le revisioni decennali dei coefficienti di conversione: l’omissione della prima (2006) pregiudica la seconda (2016) e perciò, a cascata, tutte le successive. Le mancate revisioni scardinerebbero il principio di corrispettività che è alla base della riforma contributiva, ma questo non sembra costituire un deterrente in un paese che di quella riforma non ha mai fatto una bandiera.
Alle incertezze del quadro normativo si sommano quelle riguardanti l’evoluzione delle variabili demo-economiche. Le scoperte in campo bio-medico annunciano shock rilevanti nel trend crescente della vita media, così da rendere imprevedibile l’evoluzione dei coefficienti. In un paese che deve fare i conti con la globalizzazione dilagante e la metamorfosi dell’economia mondiale nonché, all’interno, col calo demografico più acuto al mondo, densa di incognite appare anche la crescita economica in ragione della quale il sistema remunera i contributi.
Ciò premesso, il malcapitato previsore delle coperture in futuro offerte dal primo pilastro, è costretto a lavorare sotto ipotesi. Nel loro contributo al recente volume collettaneo curato da Marcello Messori (3), gli scriventi assumono lo scenario seguente:

· sarà dato corso alle revisioni decennali dei coefficienti, compresa quella omessa nel 2006;

· il tetto di retribuzione pensionabile potrà restare indicizzato ai soli prezzi, parendo che il conseguente contenimento delle pensioni medio-alte possa preparare la strada alla decurtazione, ben maggiore, che esse dovranno subire quando calcolate con la formula contributiva;

· anche la pensione minima potrà restare indicizzata ai prezzi, parendo che il conseguente contenimento delle integrazioni possa preparare la strada alla loro definitiva scomparsa;

· il tetto di retribuzione imponibile dei lavoratori contributivi sarà, invece, agganciato ai salari, parendo che la parziale esclusione dall’assicurazione contro la vecchiaia non debba riguardare le retribuzioni medio-basse;

· la sopravvivenza si evolverà come previsto dall’Istat ai fini della proiezione centrale della popolazione italiana;

· la produttività e l’occupazione si evolveranno come previsto dal modello macro-econometrico di lungo periodo del Cer. (4)

Gli esercizi svolti

Fatto riferimento ad un lavoratore con 37 anni di anzianità contributiva e 63 di età, le coperture offerte dal primo pilastro sono state calcolate per quattro coorti e tre carriere caratterizzate da altrettante dinamiche retributive. I risultati sono esposti nella tavola 1. (5) La drastica caduta delle coperture è dovuta non tanto all’avvento della formula contributiva, quanto al fatto che essa, diversamente da quella retributiva che genera pensioni immutabili nel tempo, sa essere tanto generosa quanto lo consentono le compatibilità macroeconomiche generali. Il calo demografico frenerà la crescita del Pil, e perciò la remunerazione dei contributi, mantenendola inferiore a quella della produttività e dei salari. Scenari un po’ più ottimisti di quello assunto, che maggiormente confidino sull’aumento della partecipazione femminile, riuscirebbero a migliorare le coperture marginalmente.

Tav.1: le coperture per anno di pensionamento e tipologia di carriera

anno di pensionamento

2005

2015

2030

2045

crescita del salario per anzianità(*)

bassa (0,75%)

70%

66%

52%

41%

(9%)

(17%)

(21%)

media (2%)

65%

60%

45%

34%

(12%)

(22%)

(28%)

alta (5%)

43%

43%

29%

20%

(0%)

(21%)

(31%)

(*) che si aggiunge alla crescita da contrattazione nazionale e integrativa

Entro parentesi, la tavola 1 reca anche le aliquote ‘compensative’ (tutte attestate ben oltre la devoluzione del Tfr) che i lavoratori destinati ad andare in pensione nel 2015, nel 2030 e nel 2045 dovrebbero, da subito, versare al secondo pilastro per preservare (con l’aggiunta della pensione complementare) le coperture di cui hanno beneficiato i lavoratori andati in pensione nel 2005. Le stime sottintendono l’ipotesi che i rendimenti finanziari supereranno di 1,5 punti la crescita economica e che i coefficienti di conversione del secondo pilastro seguiranno l’evoluzione della sopravvivenza prevista dall’Istat.
Infine, limitatamente alle retribuzioni a crescita bassa (operai e impiegati) la tavola 2 mostra, lungo le colonne, la rapida caduta che, stante il meccanismo di indicizzazione, le coperture subiranno dopo il pensionamento (pensione/salario del pari grado in attività). Lungo le righe, si osserva l’incipiente (ma non trascurabile) fenomeno delle ‘pensioni d’annata’ (compresenza di pensioni a importo diversificato per anno di decorrenza) destinato ad esplodere nella seconda metà del secolo, quando le pensioni in essere saranno tutte contributive e le coperture iniziali saranno state perciò simili.

Tav.2.: retribuzioni a crescita bassa – evoluzione della copertura oltre il pensionamento

pensionati del 2005

pensionati del 2015

pensionati del 2030

pensionati del 2045

2005

70%

2010

67%

2015

62%

66%

2020

55%

59%

2025

50%

53%

2030

45%

48%

52%

2035

40%

42%

46%

2040

35%

37%

40%

2045

33%

35%

41%

2050

30%

33%

37%

2055

30%

34%

2060

27%

32%

2065

24%

29%

2070

26%

2075

23%

2080

21%

Conclusioni

Il messaggio tranquillizzante indirettamente lanciato dalle proiezioni a legislazione vigente della spesa pensionistica, deve fare i conti con la sostenibilità sociale degli spaccati offerti dalle tavole 1 e 2. Il quadro previsionale potrebbe radicalmente cambiare ove insorgessero resistenze alla caduta tendenziale delle coperture al pensionamento così come di quelle successive. Se i coefficienti non fossero aggiornati e fossero introdotte (anche con cadenza irregolare) forme di perequazione delle pensioni superiori all’inflazione, il profilo della annunciata ‘gobba’ sarebbe diverso, fino a portare la spesa ben oltre il 20 per cento del Pil (anziché al 16 per cento). Gli avvenimenti in corso testimoniano che le resistenze sono già cominciate: la prima revisione decennale dei coefficienti è stata omessa e il sindacato giudica non più procrastinabili interventi per meglio tutelare il potere d’acquisto delle pensioni.
La caduta tendenziale delle coperture non può essere contrastata impedendo la revisione dei coefficienti. Si tratterebbe di una strategia perdente perché destinata, nel lungo periodo, a essere sopraffatta dalle esigenze di bilancio indotte dai mutamenti demografici. Occorre, invece, l’esatto contrario: la revisione indurrà i lavoratori a elevare spontaneamente l’età media di pensionamento. E, dal punto di vista macroeconomico, ciò conterrà la crescita dei pensionati liberando le risorse necessarie a preservare al meglio le pensioni.


(1)
Nella visione individualistico-assicurativa che il modello contributivo assume, si ritenne non vi fosse più spazio per la pensione minima. L’assistenza ai cittadini anziani (pensionati e non) fu posta a carico della fiscalità e demandata all’assegno sociale (anche ponendo fine al dibattito sulla natura – assistenziale ovvero previdenziale – delle integrazioni al minimo).
(2) Anche quando le pensioni retributive saranno estinte e le integrazioni al minimo saranno solo un ricordo, la pensione minima dovrà essere mantenuta ‘artificialmente in vita’ sol perché in termini di essa saranno ancora definiti gli scaglioni.
(3) S. Gronchi e F. Gismondi (2006), “Quanto è necessario il secondo pilastro?” in M. Messori, La Previdenza Complementare in Italia, Bologna, Il Mulino.
(4) Vedi S. Gronchi e F. Gismondi, op. cit., pp. 528-529.
(5) Stanti l’età e l’anzianità ipotizzate, i pensionati del 2005 sono interamente retributivi; quelli del 2015 sono retributivi al 49 per cento (18 anni di anzianità contributiva su 37) e contributivi al 51 per cento (19 su 37); quelli del 2030 sono retributivi all’8 per cento (3 anni su 37) e contributivi al 92 per cento (34 anni su 37); quelli del 2045 sono interamente contributivi.

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11 commenti

  1. Fabio Pancrazi

    Ho 53 anni compiuti e 31 di contribuzione. Con la Maroni sarei potuto andare in pensione all’età di 62 anni (2016). Con l’accordo di stanotte fra Governo e Sindacati potrò andarci a 61 anni (2015, con quota 100): pare che le “finestre” saranno 2, gennaio e luglio quindi a luglio 2015. Al 31/12/2015 avrò anche 40 anni di contribuzione. Sei mesi prima della Maroni: costo per la collettività 10 miliardi in 10 anni! Per quanto mi riguarda soldi buttati via…e sicuramente la mia pensione sarà più bassa (meno soldi) di quello che sarebbe stata. Mi verrebbe da dire una parola che per la Cassazione non è ritenuta più ingiuria ma di linguaggio comune.

  2. Antonio Fiori

    Così a caldo, noto con una certa amarezza che la fresca bozza di riforma previdenziale pone due o trecentomila lavoratori in situazione peggiorativa rispetto alla riforma Maroni: pretendere infatti il doppio requisito dell’età più la quota (ma non era stato detto che il mix età + contributi era nella quota?) comporta che i signori nati nel 1955 debbano attendere comunque i 61 anni di età (erano 60 con lo scalone); spero solo sia rimasta la possibilità di ‘uscire’ a 40 anni di contributi senza limiti di età…

  3. Guido Pettinari

    Per Fabio Pancrazi
    Grande parte di quei 10 miliardi di euro di costo è causato dalla rimozione dello scalone, il quale riguarda(va) chi era imminente (1-2-3 anni) al pensionamento. Tu, con i tuoi 53 anni, non rientri in questa categoria e pertanto per te la differenza rispetto alla legislazione attualmente vigente è minima.
    D’altro canto, le (se ricordo bene) 400.000 persone che sarebbero state direttamente interessate dallo scalone ora si vedranno consegnata la pensione in anticipo rispetto a quando l’avrebbero ricevuta stante la legge Maroni —> più spese per lo stato.

  4. Francesco Locci

    Mi auguro di non dover scoprire lunedi’, quando saranno disponibili i dettagli dell’accordo, che abbiamo perso la possibilita’ di uscire con i 40 anni di contributi senza limiti di eta’!!

  5. Leonardo Biscetti

    Premetto che, in tema di pensioni,sono più vicino alle posizioni de lavoce.info che a quelle della sinistra radicale. Tuttavia, ascoltando un dibattito televisivo su La7 tra il professor Boeri e il ministro Ferrero, mi sono trovato d’accordo con quest’ultimo. Ferrero sosteneva che per modificare i coefficienti di trasformazione bisogna tener presente, oltre che l’andamento demografico, anche la crescita del Pil. Boeri, con un tono un pò supponente, diceva che il Pil non c’entra nulla con i coefficienti. ebbene questa affremazione mi ha lasciato allibito. E’ del tutto logico che in un sitema a ripartizione come il nostro bisogna considerare sia le uscite che le entrate, che come si può intiure sono strettamente legate alla crescita del Pil. Altrimenti in caso di decrescita economica,una revisione dei coefficienti legata esclsivamente all’aumento dell’età media e dunque della spesa previdenziale, e che ignora la riduzione delle entrate, produrebbe degli squilibri fortissimi. Viceversa, in una fase di crescita economica, una riduzione dei coefficienti, che considera solo l’aumento della spesa, sarebbe una misura eccessivamente punitiva per i lavoratori. Il ragionamento di Boeri andrebbe bene se avessimo un sistema a capitalizzazione in cui i contributi di ciascuno vengono accantonati ed investiti e poi restituiuti al lavoratore quando va in pensione. Ma allo stato attuale una revisione attenta dei coefficienti deve considerare sia l’aumento della vita media che l’andamento de PIl,per lo meno della parte di esso conosciuta al fisco.

  6. Francesco Smorgoni

    Ho quaranta anni e piu’ che per la mia pensione, sono preoccupato per il futuro di mia figlia, che di anni ne ha 13.
    In che razza di Paese crescera’, se ad ogni cambio di coalizione dobbiamo riscrivere leggi e “riforme” del Governo precedente ?
    Non si era scelto e concordato con i sindacati di applicare lo scalone nel 2008 ? Non si era definito di riconsiderare i coefficienti di calcolo dal 2005 ?
    Leggo ora che pare raggiunto il quorum per il referendum sulla legge elettorale, questa si’ oggetto di un colpo di mano.
    Speriamo che il referendum (o la legge che lo anticipera’) ci aiuti a far piazza pulita di quei partiti che rappresentano solo se stessi e gli interessi di frange marginali ma ricattatorie dell’elettorato.
    da secoli e’ finita l’eta’ dei comuni e del “particulare”, ma molti non se ne sono accorti.

  7. roberto

    Con la modifica della legge (e ancor prima con la Maroni) mi hanno obbligato a lavorare almeno 40 anni! e certamente prendere una pensione più bassa.
    Che equità c’è nell’obbligarmi a lavorare così a lungo (spostandomi la quiescenza proprio sotto il naso), quando le nuove generazioni lavoreranno a malapena 35 anni circa (visto che ora si inizia a lavorare a 28-30 anni, quando va bene)?
    Il risanamento dei conti non deve passare dalle solite tasche oramai super tartassate, ma con una sana, robusta e severa fiscalità. Ho girato parecchi paesi nel mondo sviluppato e tutti ci superano nella capacità di contribuire alla ricchiezza del paese; senza andare tanto lontano basta guardare alla Francia che ha un fisco stupefacente! Ma i ns politici preferiscono pulirsi la bocca copiando il peggio degli altri nel nome dell’Europa!

  8. Sisto Pasquino

    Pensare che il Ministero del Tesoro con quota 98 (senza il mix con un’età minima) aveva calcolato un pareggio di spesa con la riforma Maroni.
    E sarebbe stato equo, per tutti e da subito!

  9. antonio petrina

    Nella lettera dei senatori Dini e D’Amico sul Sole 24 ore del 19 luglio si invitava il governo a considerare il pareggio del bilancio e tagli alla spesa prmaria dello 0.5%,altrimenti è inutile fare un Dpef. Con la riforma previdenziale si accentua la spesa utilizzando l’extragettito che serviva per il pareggio del bilancio che continua a rinviarsi. Ma questa è la domanda: se si rinvia il pareggio in anni di sviluppo e di maggiori entrate, quando saremo alla vacche magre, come potrà farsi quel pareggio del bilancio a cui però lo stato ( che non si incammina in tal senso) obbliga al momento tutti gli altri enti pubblici con tagli e vincoli di spesa sugli avanzi? la proposta di tagliare le tasse rinviata ancora sarà attuabile?

  10. Sandro

    Non ci posso credere! Fanno pagare il lusso di una pensione a 58 anni a persone ancora perfettamente in grado di lavorare per almeno altri 10, ai parasubordinati! A quelli che vivono con salari da fame, non hanno alcuna garanzia per il futuro, non possono fare un mutuo, non possono mettere su famiglia. A loro ora chiediamo anche di pagare le pensioni a persone ancora perfettamente abili! Non voglio più vivere in questo paese, mi vergogno di viverci, mi vergogno di avere votato questa gente.
    Io privilegiato perché ho un lavoro a tempo indeterminato chiedo scusa a tutti i parasubordinati d’Italia!

  11. Romano

    Francamente non capisco molte cose, dopo la telenovela dei disincentivi e incentivi si è preferito passare alle vie di fatto. Consentendo il cumolo tra pensione e reddito da lavoro e non rinnovando gli incentivi per chi rimane al lavoro non si fa altro che diminuire i posti di lavoro per i più giovani.

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