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La riforma della previdenza

Una raccolta di interventi precedenti sulla riforma previdenziale elaborata dal Governo. Come cambieranno le pensioni degli italiani? Gli interrogativi lasciati aperti dalle stime della Ragioneria Generale dello Stato sugli effetti della riforma. E il rischio di fughe di anzianità scatenate dal cosiddetto “effetto di annuncio”: facile profezia, dato che nel 2003 le domande di prestazioni di anzianità sono aumentate del 20%.

Informare nel riformare

di Tito Boeri e Agar Brugiavini
31 ottobre 2003

Riforme, piani di risparmio e democrazia

Un Governo in procinto di varare una riforma delle pensioni ha il dovere di informare prima possibile i cittadini sugli effetti di questo intervento sui loro redditi futuri. Se diminuiscono le prestazioni pensionistiche, occorrerà per tempo rimediare, modificando piani di risparmio che normalmente si adattano molto lentamente. C’è molta inerzia in queste decisioni.
Ed
è anche una questione di democrazia: occorre conoscere per decidere. Legittimo chiedersi quanti parlamentari sappiano come cambieranno le pensioni degli italiani con la riforma Maroni-Tremonti.

Ci saremmo perciò aspettati, subito dopo lapprovazione da parte del Governo dellemendamento alla delega previdenziale, la pubblicazione di tabelle che informassero i potenziali interessati su quanto potranno attendersi di ricevere in futuro dallInps con o senza la riforma. Sul sito del ministero del Welfare troviamo, invece, solo una sintesi dellemendamento che, oltre a termini comprensibili solo agli addetti ai lavori, contiene affermazioni quanto meno fuorvianti. Ad esempio, si afferma che in virtù della certificazione dei diritti si potrà “andare in pensione in qualsiasi momento, anche se nel frattempo la legge cambierà“! Una ragione in più per ritenere che molti parlamentari non siano informati: si sancisce l’inutilità del loro mestiere.

Perché non informare allora?

Il Governo dispone di tutte le informazioni necessarie per fornire stime accurate delle pensioni future degli italiani. È su questa base, peraltro, che si generano le proiezioni della spesa previdenziale della Ragioneria dello Stato, riportate da tempo su questo sito (Boeri-Brugiavini) (e sulle quali siamo ancora in attesa di chiarimenti).

Perché allora non dare conto agli italiani di cosa accadrà con la riforma? Forse si teme di scatenare lira della piazza? Oppure si ha paura di bloccare sul nascere la ripresa dei consumi, alimentando forti risparmi precauzionali? Ma è proprio lincertezza la peggior nemica dei consumi. E quanto alla piazza, questa si nutre di disinformazione. Ad esempio alcuni volantini distribuiti in occasione dello sciopero del 24 ottobre sostenevano che la riforma “applica dal Primo gennaio 2008 a tutti il calcolo contributivo, tagliando fino al 50 per cento la pensione prevista”. Non c‘è che dire: tre inesattezze (in corsivo) in una sola riga!

Lavoce.info vorrebbe contribuire a colmare queste gravi lacune informative. Sandro Gronchi ha fornito calcoli sui vantaggi e svantaggi del cosiddetto superbonus (la riforma Maroni) e li discute con i lettori. Ci concentriamo qui sugli effetti delle misure che interverranno dal 2008 in poi (la riforma Tremonti). Utilizzando le informazioni disponibili ai comuni mortali (il casellario dellInps è accessibile solo dal ministro Maroni in persona, si veda la circolare del Commissario Straordinario Sassi), abbiamo ricostruito allindietro le carriere lavorative di alcune tipologie rappresentative di lavoratori e abbiamo stimato in avanti le loro probabili prestazioni pensionistiche con e senza la riforma. I risultati di questo esercizio sono riportati nella tabella qui sotto.

 


Nota: Per la classe 1958 si ipotizza che i disincentivi introdotti sperimentalmente saranno decaduti nel 2015.


La tabella riporta le pensioni lorde, a prezzi 2003, che si possono legittimamente attendere lavoratori e lavoratrici dipendenti nel settore privato, con redditi mediani, a seconda dell
età in cui andranno in pensione con e senza la riforma.
Ad esempio, una lavoratrice con redditi mediani, nata nel 1953 e con 36 anni di contributi nel 2010, con le regole attuali potrebbe, a quella data, percepire una pensione di 10.618 euro all
anno. Se, invece, andasse in pensione lanno dopo, sempre con le regole attuali, riceverebbe una prestazione annuale di 10.731 euro. Le caselle barrate corrispondono ad anzianità anagrafiche e contributive in cui non è possibile ricevere alcuna prestazione previdenziale.
Il calcolo
è riportato per due generazioni investite dalla riforma Tremonti: la classe 1953 e la classe 1958. Nel primo caso, gli individui rappresentativi sono oggi interamente sotto il regime retributivo. Nel caso della classe 1958, invece hanno una pensione definita in base alle regole del regime “misto” (retributivo fino al 31-12-1995 e contributivo di lì in poi).

Dal punto di vista contributivo, consideriamo casi estremi e realistici: persone che a 57 anni hanno 36 anni di contributi (ad esempio hanno iniziato a lavorare a 21 anni senza interruzioni di carriera) oppure persone destinate a maturare i 40 anni di contributi richiesti dalla riforma Tremonti al compimento del sessantacinquesimo anni di età (quando anche i maschi, con la nuova normativa potranno avere una pensione di vecchiaia). Nel caso della classe 1953 abbiamo anche riportato in corsivo le penalizzazioni previste in via sperimentale fino al 2015 dallemendamento presentato dal Governo al Senato. Si tratta di unapplicazione integrale del metodo contributivo a chi andasse in pensione prima di avere maturato i requisiti anagrafici o contributivi previsti dalla riforma Tremonti.

Tre i fatti più importanti segnalati dalla tabella. Primo, la riforma Tremonti colpisce fortemente le classi dal 1951 al 1956, quelle ancora interamente sotto il regime retributivo. Questo avviene perché il regime retributivo premia fortemente landata in pensione appena possibile. Per i profili salariali del lavoratore mediano scelto nel nostro esempio, la pensione addirittura diminuisce (in linea con la riduzione del reddito da lavoro per queste fasce di età) sopra i 62 anni. Dunque, il costo del pensionamento posticipato è molto forte. Si può stimare una riduzione del valore atteso della prima prestazione previdenziale dellordine del 25 per cento per i lavoratori con lunghe anzianità contributive nel 2010 e del 46 per cento per quelli con 40 anni di contributi solo a 65 anni. Secondo, la riforma vincola molto le classi di età successive (dal 1957 in poi), a fronte però di riduzioni della prima prestazione attesa relativamente modeste. Questo avviene perché la pensione progredisce rapidamente allallungamento della vita lavorativa: un ritardato pensionamento implica pensioni “più pesanti”. Laltra faccia della medaglia è che questi vincoli hanno effetti di riduzione della spesa previdenziale relativamente contenuti dal 2013 (quando iniziano a maturare i requisiti per il pensionamento danzianità, sotto le regole oggi vigenti, per i lavoratori sotto il regime misto). Terzo, la riforma colpisce molto di più i lavoratori che le lavoratrici perchè queste ultime possono sempre accedere alle pensioni di vecchiaia a partire dal sessantesimo anno di età. E, in virtù della loro maggiore longevità, percepiranno questa pensione più a lungo. Mentre sono relativamente poche le lavoratrici nelle classi maggiormente colpite dalla riforma che si vedranno privare (per al massimo tre anni) dell’accesso alle pensioni d’anzianità. Per queste poche, tuttavia, le penalizzazioni saranno molto marcate.

L’effetto annuncio

di Agar Brugiavini e Francesco Fasani

La teoria economica si basa sul principio di razionalità degli agenti economici, che può essere applicato anche al modo in cui i consumatori e i lavoratori prefigurano il loro futuro: nel decidere comportamenti e scelte attuali formulano “aspettative razionali” su di esso. In particolare, i cittadini sono in grado di prevedere, senza commettere errori sistematici, gli effetti futuri delle riforme che vengono attuate. Di conseguenza, i lavoratori possono avere delle reazioni oggi in risposta a tali previsioni sul loro futuro, e in alcuni casi modificare o addirittura vanificare, l’efficacia delle riforme.

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Riforme e aspettative

Le riforme del sistema previdenziale sono fra quelle che sicuramente inducono i cittadini italiani a non essere miopi. Infatti, tali riforme mirano a intervenire su equilibri di lungo periodo che riguardano il loro futuro e quello dei loro figli. I processi riformatori dei sistemi pensionistici europei attuati a partire dagli anni Ottanta sono stati tutti rivolti a un contenimento della spesa pensionistica, è quindi razionale attendersi che ogni nuovo intervento riduca la generosità del sistema piuttosto che aumentarla. I processi decisionali che portano alla loro formulazione finale non passano mai inosservati, ma, anzi, riempiono le prime pagine dei giornali e, spesso, le piazze.
Il rischio di riforme volte al contenimento della spesa pensionistica è quindi quello di ingenerare fughe verso il pensionamento. L’annuncio dell’intenzione di intervenire sul sistema previdenziale, e il dibattito conseguente, può essere un elemento sufficiente a spingere migliaia di lavoratori ad abbandonare il posto di lavoro, indipendentemente dai contenuti della riforma stessa.
Ma i cittadini razionali dovrebbero anche conoscere i contenuti della riforma: i lavoratori più accorti, che sono in grado di interpretare le nuove regole di quiescenza e abbiano calcolato un vantaggio a restare sul posto di lavoro, dovrebbero invece rimanere nel mercato del lavoro.
Ma le aspettative si formano sulla storia passata: potrebbero anch’essi temere nuovi cambiamenti in futuro.

Cosa dicono i dati

Il grafico, risultato di elaborazioni Frdb e Cerp su dati Laboratorio R. Revelli.- Inps, ci permette di seguire l’andamento nel corso degli anni del numero di lavoratori (di età compresa tra i 45 e i 67 anni) che hanno scelto di andare in pensione. Sull’asse verticale troviamo il numero di nuovi pensionati, su quello orizzontale gli anni dal 1985 al 1998, mentre le righe verticali indicano le tre riforme attuate finora, Amato (dicembre 1992), Dini (agosto1995) e Prodi (dicembre 1997).

Emerge in maniera evidente l’estrema variabilità dei valori da un anno all’altro. Un altro dato importante è l’aumento del numero medio di pensionamenti prima e dopo il 1992 – anno in cui si è avviato il processo riformatore tuttora in corso – con un passaggio da circa 150mila pensionati all’anno a oltre 230mila (linee tratteggiate).

L’effetto annuncio può essere riconosciuto nei tre picchi che contraddistinguono il grafico: nell’anno della riforma, o in quello immediatamente precedente, il numero di lavoratori che hanno optato per il pensionamento ha superato abbondantemente il numero di 250mila, raggiungendo un picco assoluto nel 1992, con quasi 350mila.

Nuove domande

di Tito Boeri e Agar Brugiavini
23 settembre 2003

Dopo il nostro articolo, il Tesoro è opportunamente intervenuto per offrire qualche delucidazione in più sui contenuti della riforma previdenziale che dovrebbe essere varata dal Governo contestualmente alla Legge finanziaria 2004. Le informazioni aggiunte sono sostanzialmente tre.

Innanzitutto, è stato fornito alla stampa un grafico (riprodotto qui sotto) che riassume i risultati di una simulazione della Ragioneria dello Stato sui risparmi conseguibili con il mantenimento di un solo canale per l’accesso alle pensioni di anzianità, vale a dire il requisito dei quaranta anni di contributi.

 

 

La simulazione assume che il requisito dei quaranta anni venga applicato anche a chi andrà in pensione interamente con il regime contributivo introdotto dalla riforma Dini e non solo ai lavoratori soggetti al sistema retributivo o a un ibrido fra i due.

È stata confermata l’intenzione del Governo di certificare per legge i diritti acquisiti al 31 dicembre 2007, in modo da scoraggiare le uscite precoci verso le anzianità.

I punti da chiarire

Questi chiarimenti inducono qualche commento. Soprattutto, però, suscitano nuovi interrogativi cui ci auguriamo il Tesoro vorrà rispondere quanto prima. Procediamo punto per punto:

1. Il grafico assume che nel 2012 la riforma porti a risparmiare 12 miliardi di euro, vale a dire un punto di Pil. E che, rispetto allo scenario senza riforma, persista un risparmio di poco inferiore fino al 2035, quando cominceranno ad andare in pensione i lavoratori interamente sotto il regime contributivo della Legge Dini.

Ipotizzando che la pensione media di anzianità rimanga in termini reali attorno ai 14mila euro, bisognerebbe “bloccare” quasi 900mila lavoratori per ottenere le riduzioni della spesa pensionistica che si evincono dal grafico.

Di qui, le domande. Si è forse ipotizzato che, senza la riforma, tutti gli aventi diritto avrebbero optato per la pensione di anzianità? Oppure i risparmi derivano anche da altri provvedimenti, tipo restrizioni sulle pensioni di invalidità e sulle cosiddette “pensioni d’oro”?

E come possono i risparmi rimanere su livelli così elevati anche quando (dal 2014 in poi) andranno in pensione i lavoratori cui si applica il metodo contributivo nel calcolare gli incrementi per ogni anno in più di lavoro (quindi avranno pensioni molto più “pesanti” dopo i tre-quattro anni di proseguimento forzato della vita lavorativa)?

2. Il Governo è davvero intenzionato, come suggerito dal grafico, a modificare un aspetto centrale del sistema contributivo introdotto con la riforma del 1996, vale a dire la possibilità di andare in pensione anche con brevi anzianità contributive (il limite di legge introdotto dalla Dini è di cinque anni di contributi)? Si tratta, inutile sottolinearlo, di un cambiamento importante. Nelle simulazioni si è tenuto conto dei possibili effetti che questo potrebbe avere sugli incentivi a contribuire al sistema previdenziale? Nella filosofia della riforma Dini, l’imposizione di limiti contributivi molto bassi voleva incoraggiare il versamento di contributi da parte di persone con brevi anzianità contributive e sostanzialmente fare emergere il lavoro sommerso.

3. La certificazione dei diritti acquisiti non può violare il principio secondo cui “lex posterior derogat legi priori”. Secondo i nostri calcoli, tra il 1966 e il 2000 ci sono state cinque riforme (di cui due particolarmente rilevanti concentrate negli ultimi dieci anni) e ben quaranta cambiamenti o mini-riforme nel sistema (di cui quindici negli ultimi dieci anni). Le regole hanno subito ripetute variazioni, ad esempio con ripensamenti (cui non è estraneo l’attuale Governo) sulla possibilità di cumulare pensioni e redditi da lavoro. Questi dati suggeriscono che la legislazione in materia previdenziale è soggetta a notevoli rischi di alterazioni. Da qui al 2008 vi sarà, inoltre, una verifica previdenziale e nel 2006 le elezioni politiche. Come intende il Governo garantire i diritti acquisiti anche dopo la fine di questa legislatura?

Alla luce di queste domande, non sarebbe forse utile mettere a disposizione degli studiosi i dati e le metodologie adottate, per permettere a tutti di capire come il Tesoro ha elaborato queste simulazioni?

 

Sarà strutturale?

di Tito Boeri e Agar Brugiavini
18 settembre 2003

In un’intervista al Corriere della Sera del 16 settembre, il ministro Giulio Tremonti ha reso pubblici i contenuti dell’accordo maturato nella maggioranza sulla riforma delle pensioni.
La riforma si articolerebbe in due fasi. Da qui al 2008 entrerebbero in vigore le misure previste dalla delega previdenziale, ferma in Parlamento da ormai due anni: lo smobilizzo del Tfr e gli incentivi all’allungamento della vita lavorativa.

“A ridosso del 2008”, invece, verrebbero innalzati i requisiti per l’accesso alle pensioni d’anzianità. Senza la riforma, nel 2008 potranno accedere alle pensioni d’anzianità i lavoratori con 57 anni di età e 35 anni di contributi oppure con 40 anni di contributi. La riforma dovrebbe chiudere il primo canale, lasciando aperto solo il secondo.

Molte domande legittime, pochi dati

Alla luce di queste dichiarazioni, sono legittime alcune domande: quanti saranno i lavoratori coinvolti dalla stretta? Quali gli effetti sui conti previdenziali?

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Quesiti importanti non solo per i potenziali interessati, ma anche per giudicare se si tratta di un intervento “strutturale” o meno, da far eventualmente valere dal nostro Governo per ottenere un’interpretazione più accomodante dei vincoli del Patto di Stabilità e crescita.
Le cifre che circolano in questi giorni sul numero di lavoratori coinvolti dalla riforma sembrano il risultato di una cabala. Si oscilla dai dieci milioni di lavoratori (quasi tutti i lavoratori dipendenti privati assicurati presso l’Inps) a poche centinaia.
Parte considerevole delle colpe di questa incertezza ricade sulla scelta dell’Inps di non rendere pubbliche le proprie elaborazioni sui dati del casellario (
vedi circolare Inps). In questo modo si rendono possibili illazioni di ogni tipo.

Non ci rimane allora che utilizzare i dati dell’Indagine sulle forze di lavoro condotta dall’Istat, assieme all’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia, campioni rappresentativi della realtà italiana.

L’effetto annuncio

L’esperienza ci insegna che l’annuncio di riforme che irrigidiscono l’accesso alle pensioni di anzianità tende a stimolare forti uscite prima che il provvedimento venga attuato.
La figura mostra come, ad esempio, il blocco delle pensioni di anzianità nel 1993, 1995 e 1997 fu anticipato da un marcato incremento nei flussi verso il pensionamento, tale da quasi completamente vanificare gli effetti del blocco

Il solo parlare di tagli alle anzianità, sembrerebbe aver portato quest’anno a un incremento di quasi il 20 per cento dei flussi verso le anzianità, secondo la ricostruzione offerta a La Repubblica dal sottosegretario Brambilla (la Repubblica 27/8/03). In genere, più rigida la stretta, più forte l’effetto annuncio.
Il Governo sembra intenzionato a contrastare questa fuga con l’arma spuntata degli incentivi (vedi
Brugiavini-Peracchi) e con una certificazione dei diritti, che rischia di non risultare credibile agli occhi del cittadino. Non si può perciò escludere che gran parte degli aventi diritto alle pensioni d’anzianità utilizzerà questa prerogativa prima del 2008.

Quanti sono i lavoratori che potrebbero essere indotti ad anticipare l’andata in pensione dall’annuncio di una riforma nel 2008?

Secondo le nostre stime, sono circa 400mila (di cui 260mila di età compresa tra i 57 anni e i 65 anni) i lavoratori che oggi hanno diritto a una pensione di anzianità e che non ne hanno sin qui fruito (lo stock).
Ogni anno, inoltre, circa 250mila lavoratori maturano i diritti. Fra questi circa il 60 per cento (attorno a 150mila) decide effettivamente di andare in pensione, mentre i rimanenti 100mila continuano a lavorare. Dunque, sono circa 700mila i lavoratori che potrebbero essere indotti a lasciare le forze di lavoro proprio dall’annuncio di un irrigidimento della normativa nel 2008. Stimando che l’effetto di annuncio anticipi mediamente di quattro anni l’andata in pensione (ciò che si ottiene dividendo lo stock con i flussi annuali di aventi diritto e non fruitori delle anzianità), si può stimare che questo si traduca in un aggravio del debito delle casse previdenziali (1) di circa 22 miliardi di euro (in valori del 2003).

Chi non mangia la minestra….

Vediamo, invece, i lavoratori che subirebbero il blocco senza “poter fare nulla”.

Il ministro Tremonti ha lasciato capire che la finestra potrebbe chiudersi nel 2008 con un “salto” che porti tutti i lavoratori a sottostare al vincolo dei 40 anni di contributi indipendentemente dall’età.
Se chi poteva è già fuggito prima, le “vittime” del provvedimento saranno quei lavoratori che, con più di 57 anni (ma meno di 65) nel 2008, raggiungessero a quella data i 35 anni di contributi e coloro che, avendo già raggiunto i 35 anni di contributi, compissero 57 anni nel 2008.
Secondo le nostre stime, si tratta di circa 220 mila lavoratori, di cui il 60 per cento (circa 130 mila) avrebbe fruito della pensione. Questi lavoratori nel 2008 avranno un’anzianità contributiva media di circa 36 anni e 58 anni di età, quindi verranno privati dall’accesso alle anzianità per, mediamente, quattro anni.

Questo effetto si trascinerebbe dal 2008 al 2014, quando le prime generazioni che hanno un trattamento pensionistico ibrido (basato per diciotto anni sul metodo retributivo e per i restanti su quello contributivo), maturerebbero i requisiti per le anzianità. Da allora in poi, non si avrebbero effetti apprezzabili sul debito pensionistico dal rinvio dell’età di pensionamento.
In totale, quindi, sarebbero circa 800mila i lavoratori coinvolti dall’inasprimento delle normative (con punte di circa mezzo milione all’anno), per una riduzione stimata del debito pensionistico di circa 25 miliardi di euro a valori 2003.
Chiaramente se la soglia venisse ridotta, come paventato da diversi esponenti della maggioranza, il numero di persone coinvolte (e le riduzioni di spesa) sarebbero meno consistenti.
Il saldo fra effetto annuncio e risparmi successivi al 2008 potrebbe, dunque, posizionarsi vicino ai tre miliardi di euro, che difficilmente può essere presentato come una riforma strutturale.
Certo, l’effetto annuncio potrebbe non coinvolgere la totalità degli aventi diritto alle pensioni d’anzianità. Ma è anche possibile che lo scalino del 2008 possa essere smussato.
Oppure che la riforma venga posticipata al 2009, come dichiarato in questi giorni dal ministro Umberto Bossi. Quel “a ridosso del 2008” si presta a diverse interpretazioni.

Il dilemma fra rinvio e gradualità

In sintesi, un muro troppo alto eretto nel 2008 rischia di scatenare una fuga negli anni immediatamente precedenti, tale da compromettere i risparmi conseguibili con l’inasprimento delle condizioni di anzianità.
Un intervento più graduale, che spalmasse su più anni l’innalzamento dei requisiti contributivi minimi, scatenerebbe meno fughe, ma avrebbe anche effetti molto più limitati sulla dinamica della spesa previdenziale perché interverrebbe quando cominciano a realizzarsi i primi effetti della riforma Dini.

Il vero problema è, dunque il rinvio al 2008 della riforma.

Partendo prima, ad esempio nel 2004, si potrebbe intervenire con maggiore gradualità. Il rinvio della riforma al 2008 non ha alcuna giustificazione economica: ogni anno di rinvio ha costi elevati (vedi Boeri e Brugiavini).
La scelta di aspettare il 2008 è giustificabile solo in termini di acquisizione di consenso politico. Forse più nella maggioranza che nel Paese. Non è infatti detto che il posticipo al 2008 riduca l’opposizione alle riforme. Questa sarà particolarmente agguerrita in prossimità del 2008 (ad esempio durante la verifica del 2005 o la campagna elettorale del 2006), il che apre la possibilità di ammorbidimenti successivi (nel qual caso ne subiremmo solo le conseguenze negative, le fughe).
Ragioni di consenso dovrebbero, invece, suggerire una semplice accelerazione della transizione al sistema Dini, su cui vi sono state importanti aperture dell’opposizione e nello stesso sindacato. E sarebbe maggiormente comprensibile all’elettorato, come un intervento che ripristina equità nel sistema.
La “riforma Tremonti”, invece, creerebbe nuove iniquità, concentrando l’aggiustamento su un numero ristretto di generazioni (quelle dal 1953 al 1957) ed eventualmente premiando le generazioni precedenti (con gli incentivi).
Aumenterebbero le disparità di trattamento perché avremmo non più solo due, ma quattro regimi diversi (retributivo “semplice”, retributivo con premio, retributivo con irrigidimento delle anzianità e contributivo). Lavoratori coinvolti in questi quattro regimi oggi si trovano ad operare, fianco a fianco, nella stessa impresa.

E la complessità del sistema non potrebbe che accentuarsi.

(1) Il valore presente dei diritti acquisiti da lavoratori e pensionati

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Leggi anche:  Pensioni senza un'idea di futuro

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17 commenti

  1. paolo landi

    Sulla riforma pensioni in atto vorrei sottolineare una conseguenza che a molti pare sfuggire. Gli incentivi a rimanere sul posto di lavoro anche oltre la soglia di diritto dalla pensione producono si, dei risparmi al sistema, ma con l’effetto di “sclerotizzare” ulteriormente la struttura degli organici aziendali. In una dinamica strutturale di riduzione dell’occupazione, tipica dei paesi industrializzati, se gli anziani ritardano ulteriormente l’uscita dal sistema produttivo i giovani non faranno ancora più fatica a trovare il primo impiego? Mi pare che la riforma proposti inasprisca ancor di più lo scontro inter-generazionale che mi sembra il vero dramma previdenziale del nostro paese. Non solo a noi giovani tocca l’onere di pensioni piu basse, posizioni contrattuali piu precarie etc., adesso anche “l’ingorgo da incentivo”. Credo che le attuali classi dirigenti siano veramente irresponsabili, su questo punto, nei confronti di coloro a cui lasceranno un sistema insolvente ed iniquo.

    • La redazione

      Ci può essere in effetti qualche difficoltà, soprattutto nel breve periodo, all’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, a seguito dell’introduzione degli incentivi. Soprattutto se il premio comnporterà il proseguimento automatico dei contratti. Ed è vero che la riforma premia generazioni che hanno già adesso privilegi rispetto ai lavoratori più giovani.

  2. Michelangelo Filippi

    Nel grafico si evidenzia un altro limite della simulazione (non facile da risolvere in verità). Fino al 2008 con o senza riforma Tremonti la spesa non cambia. Ma non è realistico pensare che la riforma non modifichi la propensione al pensionamento, probabilmente incentivando l’uscita (vedi gli anni ’90) e limitando così i risparmi immediati.
    Altra osservazione. Trovo irritante sentire parlare di diritti acquisiti intoccabili quando nel tempo sono cambiate le regole di rivalutazione delle pensioni (già liquidate) e le norme sul cumulo pensione reddito, tanto per fare due esempi.

  3. carlo la bella

    temo di essere confuso.
    ho riletto l’ottimo articolo di nicola sartor su quanto pesa l’evoluzione demografica. avevo capito che il problema era l’allungamento della vita media e pertanto: via le pensioni di anzianità; tutti a casa a 65 anni.
    oggi leggo le proposte di tremonti: tutti a casa con 40 anni di contributi.
    un mio collega mi racconta di suo padre, pensionato con 40 anni di contributi, morto di recente, ha lasciato la moglie con una reversibilità di 550 euro. un poco di più di quello che riceve chi non ha mai fatto nè versato nulla.
    i giovani non trovano spazi liberi e le aziende tentano in tutti i modi di scaricare gli over 50.
    perchè insistere su un modello di previdenza che era già vecchio ai tempi della riforma Amato?

    • La redazione

      Innalzando i requisiti contributivi, si finisce per innalzare anche l’età di pensionamento. MSi può convenire che sarebbe meglio, semmai, innalzare i requisiti anagrafici. Quanto alle pensioni di reversibilità, sono in Italia relativamente generose. Cordiali saluti.

  4. Mara Gasbarrone

    Gli incentivi consisteranno nel dare ai lavoratori anziani più salario oggi e meno pensione domani, perché questa rimarrà ferma al livello teorico del 70% del salario, cioè a quello della pensione di anzianità.
    Se i nostri politici avessero utilizzato di più la teoria del risparmio nel ciclo di vita formulata da Modigliani – e la cosa può sorprendere, perché al Ministero dell’Economia c’è anche qualche suo importante allievo – forse non sarebbero così certi che offrire un po’ di soldi ai lavoratori anziani sia sufficiente a persuaderli nel senso desiderato.
    Da parte mia, vorrei continuare a lavorare per migliorare la mia futura pensione, e gli incentivi (obbligatori? posso non riceverli?) me lo impediranno.
    Nel mio caso, e siamo in molti a pensarla così, forse produrranno effetti opposti.

    • La redazione

      Infatti. Non è il solo a pensarla così, come lo dimostrano diversi interventi già apparsi sul sito. Cordiali saluti.

      Tito Boeri

  5. Paolo Rossi

    Vorrei ragionare su alcune cose e poi domandare una cosa:
    sono circa dieci anni, dal primo governo Amato che l’Italia come società civile e come sistema economico è sottoposta a forti stress economici e sociali dovuti ai parametri europei, al troppo debito pubblico e di conseguenza al collasso del sistema previdenziale.Ciò è possibile verificarlo analizzando le finanziarie partendo via via dai vari governi succedutisi sia di centrosinistra che di centrodestra.
    Il sottoscritto 43enne con 20 anni di contributi è rassegnato al pensionamento nel 2030.
    Credo che però queste riforme strutturali continue abbiano gia minato la fiducia nel futuro:
    calo delle nascite
    attacco di panico e stress nervosi in aumento per molti italiani
    il sistema mediatico che su questi temi cerca di dorare le pillole e non dice mai la verita sulla reale situazione.
    la domanda è questa : come pensate voi economisti di risolvere la crisi economica visto che l’economia si basa anche sulla fiducia in un futuro migliore e nell’ottimismo delle aspettative che non si vedono all’orizzonte?
    Io ora non credo a nulla non vedo nulla e non spero in nulla!
    e non ci sarà nè un Prodi nè un Berlusconi che risolleverà il mio morale A quale progetto di società si mira?

    • La redazione

      Il problema delle aspettative è centrale all’analisi economica,
      e sono molto difficile da invertire. E in realtà gli economisti non sanno sempre cosa fare. E’ in effetti pensabile che la genta non investa solo perchè si aspetta che l’economia andrà male, ed in effetti l’economia finisce per andare male proprio perchè la gente non ha investito. Ma 43 anni sono il pieno dell’attività lavorativa!
      Coraggio, Pietro

  6. Marco Di Marco

    ho appena letto la notizia del varo della riforma delle pensioni e la trovo ben congegnata: non si abolisce il privilegio di poter andare in pensione a 57 anni ma si chiede di rinunciare in questo caso al surplus rappresentato dalla parte retributiva…
    condivido questa idea da tempo e vorrei perciò suggerire un leggero ma importante cambiamento di terminologia…
    nel presentare la riforma alla stampa, si è detto che la rinuncia al retributivo per chi andrà in pensione con le regole della Dini è una ‘penalizzazione’, un ‘disincentivo’…
    io penso che si possa presentare la cosa in un altro modo: in realtà, la riforma proposta oggi trasforma di fatto il surplus retributivo in un ‘incentivo’ a prolungare la vita lavorativa…
    non è solo un gioco di parole…
    si tratta di una differenza importante rispetto al regime in vigore: nella Dini, in effetti, il surplus retributivo agisce come un disincentivo a prolungare la vita lavorativa, cioè spinge la gente ad andare in pensione troppo presto…
    l’impianto della riforma di oggi è elegante proprio perchè trasforma un vizio ereditato dalla Dini in una virtù…
    è un rovesciamento significativo, coerente con la teoria economica della scelta dell’età pensionabile…
    insomma, secondo me non deve essere chiamato ‘penalizzazione’ o ‘disincentivo’…
    per gli altri dettagli della riforma, mi sembra necessario ragionare ancora sull’elemento della gradualità: il salto improvviso di 5 anni (indipendente dall’età in cui il lavoratore raggiunge il minimo contributivo) mi sembra inutilmente ‘rigido’. Oltretutto, ignora la diversa vita residua (e la ricchezza pensionistica) di lavoratori che raggiungono i 40 anni di contributi in età diverse

    • La redazione

      Nella Commissione Rurup in Germania hanno deciso di bandire il termine “penalizzazioni”. Li chiamano “aggiustamenti”. Concordo sul fatto che il problema principale di questa riforma è la mancanza di gradualità e che il meccanismo per innalzare per l’età di pensionamento è troppo rigido.

      Tito Boeri

  7. Alessandro Grilli

    A proposito di lavoratori giovani. Non mi è ben chiaro se la riforma presentata va ad incidere anche sul meccanismo pensionistico per gli assunti dopo il 1996, quelli per i quali vige ormai il sistema contributivo. Se ne era parlato, ma poi la questione non è stata trattata con il dovuto risalto, soprattutto considerando che uno dei motivi della riforma era proprio quello di garantire risorse per una generazione la cui pensione futura sarà con certezza molto bassa. In pratica, resta in vigore la norma per la quale questi lavoratori potranno uscire dal lavoro tra 57 e 65 anni, a prescindere dagli anni di contribuzione (moltiplicando il montante contributivo versato nella vita lavorativo per un coefficiente crescente)? Oppure i 40 anni di contributi varranno comunque anche per loro, il che equivale a dire, con quasi certezza viste le condizioni del mercato del lavoro, arrivare a 65 anni di età per poter smettere di lavorare (salvo ulteriori innalzamenti che saranno effettuati in futuro)?

    • La redazione

      In effetti la riforma prevede un incremento dei requisiti contributivi per chi è passato al regime contributivo. Si passerà da 5 a 40 anni oppure a 35 nel caso che la sperimentazione dal 2008 al 2015 di questo “requisito ridotto” venisse prolungata.
      Cordiali saluti
      Tito Boeri

  8. Antonio Amabili

    Sono d’accordo con le vostre critiche alla proposta di riforma delle pensioni del governo.
    Ma quali misure dovrebbe contenere una ipotetica riforma per essere realmente equa e strutturale?

    • La redazione

      Si dovrebbe cercare di accelerare il passaggio al regime contributivo, applicandolo pro rata a tutti e usando le stesse riduzioni previste dalla riforma Dini per chi decide di andare in pensione prima del compimento del 65 anno di età. In questo modo si ridurrebbero le disparità di trattamento fra generazioni diverse e si avrebbero effetti di riduzione della spesa pensionistica fin da subito. Anche se quanto sopra fosse introdotto gradualmente.

  9. Francesco Di Giano

    Condivido pienamente le parole dette sull’effetto annuncio – pensioni. Parlare troppo di riforme del sistema pensionistico senza agire in modo veloce e consapevole, comporta l’annullamento degli effetti economici di una riforma previdenziale. Gli annunci o i rinvii cambiano le aspettative dei soggetti economici. Il governo dovrebbe imparare a ponderare le sue parole e non a rinviare la patata bollente della previdenza al prossimo governo. Inoltre dovrebbe avere la correttezza di sentire anche la campana dei pensionati e non solo degli uomini di Confindustria. infine bisognerebbe smettere di considerare gli anziani come peso. Possono ancora essere una risorsa per la nostra società, anchè se non producono più valore economico. Sono in ogni modo degli esseri viventi che hanno vissuto una storia che molte volta va ascoltata e dalla quale i giovani potrebbero coglieresuggerimenti per il loro futuro. Desidero precisare una cosa: io non sono un anziano, ho 28 anni…

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