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Il rischio di credito: uscito dalla porta, rientrato per la finestra

Come e perché la favilla relativamente piccola di un’impennata di insolvenze sui prestiti subprime ha potuto innescare la grande fiammata di una crisi finanziaria dalle possibili conseguenze sistemiche? Il sistema bancario, diversamente da quanto ci si attendeva, è stato un portatore del contagio, mostrando sintomi di fragilità che meritano attenzione. Se ne accorgono ora banche centrali e autorità di vigilanza. Che cercano di appurare quale sia, dietro le quinte dei bilanci e per il tramite di terzi, l’esposizione effettiva delle banche.

Oggi anche la proverbiale massaia di Voghera sa tutto sui prestiti subprime: pur se mai ha potuto averne uno, e meno che mai avere un Ninja loan, un prestito concesso con “no verification of income, job status or assets“. Non è invece del tutto ovvio come e perché la favilla relativamente piccola di un’impennata di insolvenze su quei prestiti abbia potuto innescare la grande fiammata di una crisi finanziaria dalle possibili conseguenze sistemiche. Dopo tutto, le insolvenze sui subprime, nel peggiore dei casi, potrebbero provocare perdite dirette dell’ordine di 100 miliardi di dollari (Bernanke): poco più di una goccia nel grande mare delle attività finanziarie in circolazione; poca cosa rispetto ai 5miila miliardi andati in fumo alla fine della bolla delle dot.com. a inizio secolo.

Il tassello mancante

Sappiamo che il tendenziale aumento delle insolvenze ha a un certo punto provocato una drastica riduzione di liquidità: non di quella monetaria, abbondante oggi come un anno fa, ma di quella di mercato, intesa come possibilità di vendere e acquistare strumenti finanziari senza provocare forti escursioni dei prezzi. Dall’oggi al domani attività ritenute liquide, rappresentative non solo di prestiti subprime, ma anche di mutui ragionevolmente sicuri, sono rimaste immobilizzate nei bilanci degli operatori e non hanno potuto essere rifinanziate con il credito a breve, che si è all’improvviso inaridito. Un rischio limitato di insolvenza – quello che valutano le agenzie di rating – è stato moltiplicato da un rischio di liquidità, che nessuno aveva scontato nei prezzi. Gli economisti avranno modo di riflettere sulle cause e le conseguenze delle fluttuazioni della liquidità di mercato (magari rileggendosi Shleifer e Vishny sul Journal of Finance del 1997)
Ma c’è ancora un tassello mancante. Da qualche anno si parla del trasferimento del rischio di credito e del nuovo business model delle maggiori banche, definito come “originare e distribuire”: originare prestiti e distribuirne all’esterno il rischio. Questo modello, alla base del grande castello dei derivati di credito, consente alle banche di spogliarsi di parte del rischio e a operatori terzi, che non sono intermediari finanziari, di partecipare al mercato del credito. La diffusione del rischio di credito fra soggetti non bancari dovrebbe frazionare le conseguenze delle insolvenze, ridurne gli effetti sistemici e aumentare la liquidità degli strumenti di credito. Sui costi – riduzione del monitoraggio del debitore, prima operato dalle banche, impossibilità di conoscere dove siano finiti i rischi – dovrebbe prevalere il beneficio di una maggiore immunizzazione del sistema dagli shock.
Ma allora, come mai in questo mondo nuovo qualche decina di miliardi di insolvenze riesce a provocare un contagio così diffuso? La risposta è: perché quel rischio di credito, trasferito dalle banche in varie guise (risparmio gli acronimi della nuova ingegneria) è a esse tornato in altri modi. Solo uno di questi modi aveva preoccupato i regolatori: il rischio di controparte nei rapporti finanziari (di prestito e di brokeraggio) fra banche e hedge funds. Non altri, che oggi divengono palesi.

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Dietro gli acronimi fantasiosi

Il più rilevante si è manifestato nell’esistenza di entità connesse alle banche, ma collocate fuori bilancio. Con nomi esotici, quali conduits e Siv (structured investment vehicles) queste entità investivano nelle obbligazioni strutturate di credito, finanziandosi a breve con carta commerciale (Abcp: asset backed commercial paper), ma godendo di una linea di credito da parte delle banche: queste, incassando commissioni, vendevano così un’opzione di provvista di liquidità di ultima istanza non evidenziata in bilancio. Quando il prezzo delle obbligazioni è crollato, si è chiuso anche il mercato degli Abcp e le banche sono state costrette a intervenire, evidenziando in bilancio i crediti erogati. VÈ così che due banche tedesche, la Ikb e la Sachsen Landesbank, hanno dovuto alzare bandiera bianca e chiedere un salvataggio.
In secondo luogo, sono andati in crisi, negli Stati Uniti, molti intermediari specializzati, che operano sul mercato dei mutui e verso cui le banche erano esposte. In terzo luogo, molte banche erano attive con trading proprietario sul mercato delle obbligazioni strutturate di vario tipo: dopo aver trasferito il rischio di credito, lo ricompravano e lo rivendevano per trarne profitti differenziali. Quando i prezzi sono caduti, esse hanno dovuto sopportare le perdite sulle obbligazioni ancora in portafoglio. Infine, nella grande scorpacciata di leveraged buy out degli ultimi anni le banche finanziavano a dovizia le operazioni di acquisto a debito dei fondi di private equity per poi, naturalmente, rivendere fuori il credito acquisito. Un bel po’ dei crediti concessi per le operazioni più recenti gli è tuttavia rimasto sul gozzo, perché non hanno fatto a tempo a dar via le obbligazioni corrispondenti, che oggi nessuno vuole: si tratta, secondo alcune stime, di almeno 200 miliardi di dollari.
Il sistema bancario dunque, diversamente da quanto ci si attendeva, è stato un portatore del contagio: un portatore ancora abbastanza sano, dopo anni di alti profitti e di consolidamento della situazione patrimoniale; ma con sintomi di fragilità che meritano attenzione. Se ne accorgono ora le banche centrali e le autorità di vigilanza: le quali distribuiscono freneticamente questionari per appurare quale sia, dietro le quinte dei bilanci e per il tramite di terzi, l’esposizione effettiva delle banche sistema a quei rischi del credito, che usciti dalla porta sono in parte tornati per la finestra.

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15 commenti

  1. Carlo Catalano

    Non conosco la normativa americana in tema di redazione dei bilanci degli enti creditizi e finanziari ma, per quel che riguarda l’Europa, evidenzio che da una corretta applicazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 87/92 (art. 20), che reca norme in tema di redazione dei bilanci delle banche e degli enti creditizi e finanziari recependo una direttiva comunitaria, dovrebbe conseguire la possibilità di valutare l’esposizione dei predetti soggetti generata dal rilascio di garanzie, e pertanto anche ciò che viene supposto celato dietro “acronimi fantasiosi” trova una sua collocazione fra i conti d’ordine ed in nota integrativa.
    Cordiali saluti

    • La redazione

      Caro Catalano,
      La ringrazio per le sue puntuali osservazioni. Premesso che il decreto legislativo 87/92 è stato largamente reso obsoleto dal recepimento degli IAS, resta il fatto che le financial guarantees dovrebbero normalmente trovare posto, come dice anche lei, nei conti d’ordine delle banche: dunque sotto la linea del bilancio; dunque senza incidere sulla “apparenza contabile” della banca e sui coefficienti patrimoniali. L’emersione avviene solo all’atto dell’erogazione del credito (v. anche l’art. 8.1 del decreto citato); e, quando avviene per ammontari ingenti, provoca una riduzione della capacità di concessione di credito da parte della banca o la necessità di liquidazione di altre voci dell’attivo (come è appunto avvenuto). Certo, un’attenta ricognizione dei conti d’ordine, voce per voce, consentirebbe di individuare i rapporti di financial guarantee instaurati dalla banca con i “veicoli” di cui parlavo nel mio articolo. Evidentemente, anche ad escludere che esistano configurazioni ancora più opache di quei rapporti, una siffatta ricognizione non era stata compiuta. Non si spiegherebbe altrimenti l’incredula sorpresa nel constatare che una modesta banca tedesca (la Sachsen LB) aveva assunto impegni per 17 miliardi di dollari. Né si spiegherebbe perché solo dopo l’inizio della crisi le autorità di vigilanza abbiano sentito il bisogno di chiedere ai soggetti vigilati se avessero rapporti (fuori bilancio) con SIV, conduits e simili. Ci si potrà poi chiedere se questo sia il risultato di un’inadeguatezza delle regole oppure della pratica di vigilanza.

  2. Enrico Gallina

    Grazie al Prof. Spaventa per la chiarezza e schiettezza della spiegazione. Se posso vorrei sollecitare all’ ex Presidente della Consob un contributo aggiuntivo sulla base della sua esperienza umana e professionale. Qual’è la lezione che le autorità di vigilanza devono imparare per il futuro? Se è vero – come molti dei commentatori dell’articolo del Prof Boeri e Guiso sono convinti – che non si può addossare la colpa alle autorità monetarie che hanno altri obbiettivi da raggiungere, qual’è stata la superficialità delle autorità di vigilanza e/o del sistema della agenzie di rating? E’ il caso di introdurre altri vincoli alla selezione del credito verso prenditori finanziari? Perché l’adozione dell’ Internal Credit Rating di Basilea II non sembra aver funzionato? (Conto in una risposta senza personalizzazioni ma schietta come è nello stile del Prof. Spaventa).

    • La redazione

      Caro Gallina,
      Grazie per i suoi commenti e per i suoi quesiti. In premessa ricordo che le garanzie di provvista di liquidità prestate ai veicoli, formalmente autonomi, che investivano in strumenti rappresentativi di credito fondiario finanziandosi con carta commerciale a breve, finiscono sotto la linea del bilancio della banca (rinvio anche alla mia risposta al lettore Catalano): non incidono pertanto sui coefficienti patrimoniali e sui requisiti richiesti da Basilea 2. Constatata, dopo la crisi, la diffusione del fenomeno (per quanto riguarda l’eurozona soprattutto in Germania), sorprende che, sino alla crisi, le autorità preposte alla vigilanza sulla stabilità finanziaria – siano esse banche centrali o altri soggetti – lo abbiano largamente trascurato (se non ho letto male le varie Financial Stability Reviews e i documenti del Financial Stability Forum), concentrando quasi esclusivamente l’attenzione sui rischi di controparte assunti dalle banche nei rapporti di credito con gli hedge funds. I vigilanti chiedevano insistentemente alle banche di sottoporsi a stress tests nel caso di eventi situati sulle code della distribuzione. Ci si chiede se in questi test fosse inclusa la possibilità di improvvisa emersione sopra la riga di impegni sommersi di provvista di liquidità. Forse anche questa volta le regole e la pratica dei regolatori sono rimasti “dietro la curva” rispetto all’innovazione finanziaria. Ma non credo che, per recuperare terreno, occorra ricorrere a vincoli selettivi sul credito; forse basta adattare Basilea2.
      Quanto alle agenzie di rating, che dire? Esse hanno candidamente ammesso che il rating valuta il rischio di insolvenza, ma non quello di liquidità; e forse vi è stata una qualche disinvoltura anche nella valutazione del rischio di insolvenza, quando si trattava di raggiungere lo investment grade.
      Che i titoli della Repubblica Italiana abbiano un rating inferiore a quello di tanti CDO induce a perplesse meditazioni. Resta un fatto: i prenditori istituzionali delle obbligazioni strutturate di credito non dovrebbero abdicare alla loro responsabilità di valutazione in grazia delle lettere dell’alfabeto di S&P, Moody’s o Fitch.

  3. Lino Morandotti

    Le parole del Prof. Spaventa mi fanno prendere in seria considerazione la possibilità che l’incidente Sub Prime sia il primo di una probabile serie che condurrebbe a una imponente crisi Finanziaria e poi economica globale. La metafora del Naufragio del Titanic mi sembra molto azzeccata. Un sistema finanziario lanciato a tutta velocità in un mare disseminato di iceberg. Le parole autorevoli e tranquillizzanti dei comandanti del transatlantico che ribadiscono l’inaffondabilità del sistema. Il mio problema è di capire se in qualità di promotore finanziario, corro il rischio di sostenere il ruolo dell’orchestrale che , impegnato a seguire le direttive del Maestro, suona sempre più forte per accompagnare in modo spensierato gli sventurati passeggeri di seconda e terza classe verso gli abissi, mentre i passeggeri di prima classe hanno già calato le scialuppe di salvataggio per allontanarsi in tutta sicurezza dal luogo del disastro. Sarei grato al Prof. Spaventa se volesse darmi una sua opinione.

    • La redazione

      Caro Morandotti,
      Capisco che di questi tempi il suo è un brutto mestiere e le esprimo la mia solidarietà. Il suo pessimismo mi sembra però eccessivo. E’ una brutta botta: ma non tale da affondare la nave; tale piuttosto da rallentarne la velocità, che era invero eccessiva – e qui si tratta di vedere di quanto.. Questa volta, poi, anche i passeggeri di prima classe qualche conseguenza la hanno subita. Gli investitori nei tanti hedge fund che erano rimasti lunghi sul credito non erano esattamente vedove e orfani; né verseremo molte lagrime se i bonus dei banchieri nel 2007 subiranno un cospicuo taglio. Più seriamente, i prossimi giorni ci diranno se il sistema è in grado di rifinanziare la carta a breve che viene a scadenza. Da questo dipendono in larga misura le vicende del mercato azionario, che, pur se vivace, non viveva una bolla speculativa remotamente simile a quella del 1999-2000. La caduta delle quotazioni azionarie, che in linea di principio non dovrebbero essere toccate direttamente dalla crisi delle obbligazioni di credito fondiario, è stata provocata, e potrebbe ancora esserlo, dalle vendite forzate di gradi operatori, come gli hedge funds, bisognosi di fondi per far fronte alla svalutazione di quella parte di attivo riferita alle obbligazioni creditizie. Tenga d’occhio quello che succede agli asset-backed commercial papers. E comunque, se vede traccia di complesse strutturazioni nei prodotti che colloca,ne avverta i clienti.

  4. Marco Boleo

    Egregio prof. Spaventa
    vorrei chiederle una opinione sul ruolo che i derivati dovrebbero avere nella gestione del rischio e su quello che effettivamente hanno: alla fine come mostra anche la crisi dei subprime il frazionamento del rischio non ha sortito l’effetto voluto di una sua riduzione ma solo un suo trasferimento nelle mani di una miriade di risparmiatori seguendo lo schema del gioco del cerino che alla fine è rimasto nelle mani dei più deboli. Cosa bisognerebbe fare per evitare cio’. Come potrebbero i Banchieri avere la capacità di governare il rischio invece di riversarlo su altri. Un caro saluto
    Marco Boleo

    • La redazione

      Caro Boleo,
      I derivati hanno, e non solo dovrebbero avere, un ruolo importantissimo nella gestione del rischio: non facciamo di tutt’erba un fascio! Anche il trasferimento del rischio è un fenomeno fisiologicamente sano, che ha contribuito allo sviluppo finanziario. Pigliamocela con le degenerazioni, quali si sono palesate nella recente crisi, e cerchiamo di prevenirle. Comunque questa volta il cerino non è rimasto in mano ai piccoli, se non per gli effetti della caduta (non drammatica, peraltro) delle borse: gli investitori in hedge fund non sono “vedove e orfani”; né piangeremo per le perdite delle banche.

  5. Marco Di Marco

    Ricorda professor Spaventa quei camioncini che, 10 anni fa, giravano nei quartieri annunciando: “24 rotoli mille lire”?
    Era carta igienica. La gente, dal prezzo infimo, deduceva che la carta igienica fosse un bene di scarso valore e, invero, ne faceva un uso innominabile.
    Due giorni fa hanno depositato nella mia cassetta postale un volantino pubblicitario. Un hard discount annuncia con enfasi che, nella prima settimana di apertura, si può acquistare quattro
    rotoli di carta igienica al modico prezzo di 1.99 euro. Mille lire a rotolo, più o meno.
    Se dieci anni fa avessimo risparmiato la carta igienica invece di distruggerla in malo modo, oggi potremmo rivenderla ad un prezzo 24 volte superiore. In altri termini, chi avesse investito in carta igienica negli ultimi dieci anni avrebbe avuto un rendimento del 2400%.
    Le chiedo: che lei sappia, quale altro strumento finanziario ha avuto un simile vertiginoso rendimento? Io risponderei: nessuno, ma non sono un esperto di mercati finanziari (altrimenti, avrei speculato sulla carta igienica e oggi sarei su una spiaggia delle Seychelles, lontanissimo dalle preoccupazioni e dai rischi di credito).
    Per fare un esempio concreto: se invece di investire la liquidazione in titoli finanziari dal nome fantasioso il risparmiatore di Voghera avesse avuto a suo tempo l’intuizione di scommettere sulla carta igienica… con 30 milioni di lire di allora se ne potevano acquistare 720 mila rotoli.
    Oggi si potrebbe rivenderli alla bella cifra di 360 mila euro.
    John Maynard Keynes riteneva inconcepibile che l’economia di un paese dipendesse dall’esito dei giochi di Borsa, da lui ironicamente paragonata ad un Casinò.

    • La redazione

      Caro Di Marco,
      Il suo suggerimento è interessante, ma mi consenta di esprimere qualche dubbio sull’opportunità di andare “lunghi” su TP (toilet paper). Nel suo calcolo lei omette: i costi di stoccaggio di 720.000 rotoli; i costi di distribuzione alla rivendita, con adeguato margine da corrispondere al distributore. Comunque, per avere rendimenti interessanti, anche se non paragonabili a quello del TP, bastava investire in immobili. Sarebbe invece andata male agli investitori in hardware di computer e in apparecchi telefonici.

  6. Marco Vesentini

    Gent.mo Professore,
    gradirei conoscere la Sua autorevole opinione in merito a tre aspetti che personalmente reputo cruciali per comprendere le cause della recente crisi sui mercati finanziari:
    1) conflitto di interessi delle Agenzie di Rating che in molti casi hanno partecipato anche alla fase di strutturazione dei prodotti oltre che a quella (tradizionale e salutare) di assegnazione del rating, con il rischio di veri e propri arbitraggi dei modelli utilizzati dalle stesse Agenzie;
    2) ampio utilizzo da parte degli Hedge Funds di operazioni di pronti contro termine (repurchase agreement) per aumentare la leva finanziaria ed eventuale possibilità (a mio avviso necessità) di modificare la regolamentazione in termini di assorbimento di capitale di tali operazioni a livello di Controparti Prime Brokerage (ovvero le principali Investment Banks);
    3) sottostima del rischio di modello (risk model) legato alla copertura (hedging) delle posizioni di credito strutturato (CDS, CDO, CDO Square e, in qualche caso, anche Cube…) e necessità di includere in tali modelli anche il rischio di liquidità.
    Cordialità.

    • La redazione

      Caro Vesentini,
      Cerco di rispondere alle sue puntuali e penetranti osservazioni.
      1) Ha ragione da vendere sul potenziale, o effettivo, conflitto
      d’interessi, che si manifesta anche senza partecipazione alle
      strutturazioni: l’ottenimento di un rating si paga! Guardiamo tuttavia al di là del rating. Una banca che mantiene un credito sui suoi libri fa un suo rating per apprezzare la solvibilità del debitore. I prenditori della carta rappresentativa di miriadi di crediti trasferiti dalle banche si accontentano del rating delle agenzie: non dovrebbero fare qualcosa di più? Quanto ai modelli delle agenzie sono una black box soggetta a continue revisioni.
      2) Si è discusso a lungo, e si discute, sull’opportunità di regolare gli hedge funds. Tuttavia: a) la regolazione di protezione dell’investitore non viene (giustamente, a mio avviso) applicata, perché le soglie minime di investimento sono talmente alte da sottrarre la vendita delle quote al risparmio diffuso – per usare il linguaggio della SEC, i sottoscrittori degli HF “can fend off by themselves” e non sono perciò bisognosi di specifica protezione; b) gli HF non sono intermediari creditizi e sono pertanto sottratti alla regolazione prudenziale di stabilità. Il Financial Stability Forum ha più volte esaminato il problema. L’indicazione, sinora, è stata quella di indurre le banche a compiere stress tests sul rischio di controparte in casi estremi.
      Comunque, a mio avviso, nelle recenti vicende i problemi maggiori si rinvengono nelle banche, sul doppio fronte del trading proprietario, che ha sovente un leverage non inferiore a quello degli HF, e su quello delle entità fuori bilancio (SIV o conduits) a cui le banche concedono una financial o liquidity guarantee, che finisce sotto la linea. Le banche grandi hanno spalle sufficientemente grandi. Ma le piccole? A caccia di guadagni facili, le due piccole banche tedesche sono finite
      sotto. Altri problemi riguardano le istituzioni specializzate in mutui fondiari, che, negli Stati Uniti, non sono regolate, pur se si
      approvvigionano presso le banche. Per queste istituzioni e per le banche mi pare che vi sia stata una qualche regulatory failure.
      3) Lei mette il dito su un punto essenziale. Il rischio di liquidità si rivela non meno importante del rischio di credito. Le agenzie di rating ne prescindono (una A in meno a un BTP, liquidissimo, rispetto a un qualsiasi CDO!). Mi chiedo tuttavia, e le chiedo: come valutare il rischio di liquidità per correggere (semplificando) una determinazione di VAR? Esistono risposte nella letteratura e nella pratica? Torniamo forse, più elementarmente, a un problema di prudente apprezzamento, in
      cui si tenga presente che cosa potrebbe avvenire le caso di un liquidity shock.

  7. renzo pagliari

    La crescita impetuosa dei valori immobiliari, verificatasi a livello mondiale negli ultimi anni, prima della crisi innescatasi in America nel 2007, deve senz’altro essere messa in relazione con la crescita della liquidità mondiale in percentuale del PIL, (come è stato chiaramente messo in luce in una delle ultime Considerazioni Conclusive del Governatore di Banca Italia), ed alla conseguente accresciuta ricerca di oggetti di investimento da parte dei detentori/amministratori di tale accresciuta liquidità.
    Questa crescita dei valori immobiliari è stata però amplificata dalla politica dei bassi tassi di interesse praticata da molte banche centrali, tra cui la FED E BCE, per molti anni, politica che ha permesso alle banche commerciali di concedere mutui di sviluppo temporale abnorme, anche trenta anni, a tassi irrisori, con copertura del valore dell’immobile pari, se non superiore, al 100%, anche in presenza di valutazioni degli immobili sempre in crescita, anche rapida, senza motivazioni di carattere reale della medesima.
    I mutui subprime sono solo un aspetto di questa politica dissennata delle banche commerciali di utilizzare la crescente liquidità, disponibile a prezzo conveniente, in impieghi in larghissima parte improduttivi e forieri di gravi pericoli a livello di sistema.
    Prestare denaro a lungo termine, a tassi bassi, addirittura in alcuni casi a tasso fisso, anche a soggetti con forte rischio di insolvenza, malgrado l’utilizzo di sofisticati strumenti finanziari per la diluizione del rischio tra moltissime istituzione finanziarie/assicurative conserva un forte margine di pericolosità a causa della globalizzazione dei mercati finanziari, in cui in via ipotetica, potrebbe accadere, come è accaduto, che il rischio che si crede di aver scaricato su altri, ritorna in qualche modo su chi credeva di averlo ceduto definitivamente. Inoltre come è possibile concedere mutui a trenta anni quando è impossibile avere previsioni razionali su quanto accadrà?

  8. enricodesimone@fastwebnet.it

    Egregio Prof Spaventa, nel mio breve intervento di coda all’ISPI del 27 u.s., ho confuso la parte per il tutto, comunque sempre pubblico e’ il tutto "sovrano" anche perche’ sovranamente si puo’ non onorare insieme con quello interno. Dove vorrei insistere parzialmente in disaccordo con la sua risposta e’ non sulla componente ricchezza prodotta che rimane il pilastro per la sostenibilita’ dell’euro, ma sul debito che conduce al rapporto debito PIL di insignificanza a mio avviso: il debito euro, debito di valuta per eccellenza deve esprimere, in quanto strumento di scambio, patate contro fagioli prodotti in sostituzione del baratto internazionale, alla fin fine cioe’, moneta di conto.

  9. enricodesimone@fastwebnet.it

    Egregio Prof., Bersani da New york ha parlato di debito sovrano proponendo la cessione di un pezzo al FMI esattamente come lo definii all ‘ISPI: debito dello Stato nei confronti dei suoi cittadini nonche’ di risparmiatori esteri. Confido in una Sua gradita risposta che assorbirebbe anche il precedente script.

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