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BREVETTI SOTTO TIRO

I brevetti si trovano sotto un fuoco incrociato di critiche, in larga misura fondate su preconcetti ideologici: a destra disturba l’idea di un monopolio creato dallo Stato, a sinistra il concetto stesso di proprietà intellettuale. La teoria economica e l’evidenza empirica disponibile suggeriscono che, allo stato attuale, la protezione garantita non remunera gli innovatori eccessivamente, ma che semmai li remunera troppo poco. Il legislatore dovrebbe però cercare di limitare l’eccessiva facilità con cui gli uffici preposti li concedono.

Oggigiorno i brevetti si trovano sotto un fuoco incrociato di critiche, in larga misura fondate su preconcetti ideologici: a destra disturba l’idea di un monopolio creato dallo Stato; a sinistra l’idea stessa di proprietà intellettuale.
Detto tra parentesi, i critici di sinistra sembrano dimenticare che con i brevetti la nuova conoscenza tecnologica è subito messa in comune e trascorsi venti anni tutti possono utilizzarla anche per scopi commerciali: se questi principî valessero per tutti i beni, certamente non ci vorrebbe una rivoluzione per fare il comunismo. Comunque, è chiaro che ogni possibile effetto negativo dei brevetti è grosso modo proporzionale al livello di protezione che questi garantiscono all’innovatore e quindi si manifesta solo se la protezione è troppo ampia.

Il livello di protezione ottimale

Davvero i brevetti forniscono una protezione eccessiva o, al contrario, questa è troppo limitata? L’analisi economica non è ancora in grado di dare una risposta certa. Alcuni economisti ritengono che allo stato attuale delle nostre conoscenze sarebbe temerario anche solo affrontare il problema; ma questa posizione è troppo rinunciataria. Sviluppando l’impostazione proposta da Nordhaus nel 1969, in un recente lavoro ho voluto capire cosa abbiamo imparato da allora. (1)
Il primo passo dell’analisi consiste nel calcolare una soglia minima per il livello di protezione ottimale che tiene conto dei costi sociali dei brevetti, a partire dal fatto che grazie al potere di mercato ottenuto, gli innovatori possono aumentare il prezzo dei loro prodotti. Sotto ipotesi che mi sembrano ragionevoli, vale la seguente conclusione: il livello di protezione ottimale deve assicurare all’innovatore un ammontare di profitti il cui valore, rapportato a quello massimo possibile (cioè quello che si avrebbe con un monopolio completo e di durata infinita), è almeno pari all’elasticità dell’offerta di innovazioni rispetto alla spesa in ricerca e sviluppo.
L’elasticità dell’offerta di innovazioni rappresenta l’aumento percentuale del numero delle innovazioni causato da un aumento dell’1 per cento della spesa in ricerca. Se per esempio l’elasticità fosse 0,6 – se cioè un aumento della spesa in ricerca del 100 per cento facesse aumentare il numero di innovazioni del 60 per cento – gli innovatori dovrebbero ottenere, grazie alla protezione brevettuale, almeno il 60 per cento dei profitti di cui godrebbero con un’esclusiva completa e di durata infinita.
Negli ultimi venticinque anni, l’elasticità dell’offerta di innovazioni è stata stimata in numerosi lavori empirici. Studiando il settore farmaceutico, per esempio, Acemoglu e Linn stimano indirettamente un’elasticità dell’offerta di innovazioni compresa tra 0,8 e 0,85. (2)
In uno dei lavori più recenti e accurati per il complesso del settore manifatturiero, Arora, Ceccagnoli e Cohen ottengono una stima puntuale di 0,6 e un intervallo di confidenza al 95 per cento da 0,5 a 0,7. (3) Anche le stime di molti altri lavori, quando non sono più alte, si collocano in quest’intervallo che quindi può essere prudentemente preso come riferimento. Vale la pena di sottolineare che la quasi totalità di questi studi ha finalità diverse dalla valutazione del livello ottimale di protezione brevettuale e quindi non può sorgere neppure il sospetto che le stime siano condizionate da pregiudizi ideologici.
Possiamo dunque concludere che i brevetti forniscono una protezione eccessiva solo se gli innovatori ottengono mediamente più dei due terzi, o almeno più della metà, dei profitti teorici generati dalle loro innovazioni. Ma tutto lascia pensare che in realtà ottengano di meno: forse anche un terzo è un calcolo eccessivamente ottimistico. Baumol, per esempio, stima che il rendimento privato della spesa in ricerca sia circa un quinto del rendimento sociale. (4)

Rischio imitazione

Ci sono due ragioni per cui gli innovatori, anche se protetti dal brevetto, ottengono solo una piccola quota dei profitti teorici generati dall’innovazione.
La prima è che la durata dei brevetti è limitata: in teoria venti anni, ma in pratica di meno perché spesso l’innovazione comincia a essere sfruttata solo diverso tempo dopo la concessione del brevetto. (5)
La seconda, e probabilmente più importante, ragione è che, anche prima della scadenza, i brevetti non mettono completamente al riparo dal rischio che l’innovazione sia imitata o superata da innovazioni successive, che spesso non avrebbero potuto neanche essere concepite se prima non fosse stata ottenuta l’innovazione di base.
In conclusione, la teoria economica e l’evidenza empirica disponibile suggeriscono che, allo stato attuale, la protezione garantita dai brevetti non remunera gli innovatori eccessivamente, ma che semmai li remunera troppo poco. Ovviamente, data la difficoltà di stimare l’elasticità dell’offerta di innovazioni e il rapporto tra rendimenti privati e rendimenti sociali della spesa in ricerca, questa conclusione va presa con le dovute cautele e comunque non esclude la possibilità che qualche innovatore sia invece sovra-compensato dalla protezione brevettuale. Inoltre, va detto che il sistema oggi presenta diverse distorsioni, come l’eccessiva facilità con cui i brevetti sono concessi dagli uffici preposti, che il legislatore dovrebbe cercare di limitare. Ma anche se il sistema è migliorabile, le critiche più radicali appaiono fondate solo su convinzioni ideologiche o teorie prive di fondamento empirico.

(1)Vedi W. Nordhaus, Invention, growth and welfare, Cambridge, Mass., Mit Press, 1969. E V. Denicolò, "Do patents over-compensate innovators?", Economic Policy, 22 (ottobre 2007), pp. 679-729.
(2)   D. Acemoglu. e J. Linn, "Market size in innovation: Theory and evidence from the pharmaceutical industry", Quarterly Journal of Economics, 119 (2004), pp. 1049-1090.
(3)A. Arora, M. Ceccagnoli e W. M. Cohen, "R&D and the patent premium", W. P. No. 9431, National Bureau of Economic Research, 2005.
(4)W. Baumol, The free market innovation machine, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2002.
(5) Nel settore farmaceutico, ad esempio, la durata effettiva media dei brevetti non supera i dodici anni nonostante i certificati complementari di protezione previsti per i farmaci: si veda H. Grabowski e J. Vernon, "Effective patent life in pharmaceuticals", International Journal of Technology Management, 19 (2000), pp. 98-120.

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. Pietro Della Casa

    A mio parere i brevetti risentono di due problemi fondamentali: 1) in un modo globalizzato sarebbe necessario poter brevettare una invenzione in tutto il pianeta, mentre i brevetti hanno sempre valore nazionale. Tra l’altro, i criteri di brevettabilità sono radicalmente diversi da nazione a nazione. 2) Gli uffici brevetti non sono in grado di discriminare efficacemente tra le idee realmente innovative e quelle "ovvie" perché questo richiederebbe investimenti troppo onerosi in fatto di personale specializzato. Ciò detto, credo anche che la protezione della proprietà intellettuale sia fondamentale per garantire un progresso tecnologico, e che quindi i due problemi sopracitati dovrebbero essere affrontati a livello politico globale. Ma su questo temo di nutrire un certo pessimismo…

  2. Paolo Bertoni

    Ottimi, per sintesi ed efficacia, sia l’articolo che il commento. Da avvocato che si occupa della materia, permettetemi di segnalare almeno altri due problemi, specificamente italiani: 1) la lentezza dei processi civili, nonostante nell’ambito della proprietà intellettuale siano stati apportati cambiamenti con l’istituzione delle sezioni specializzate; 2) la tradizionale ritrosia giudiziale a sanzionare la violazione con somme cospicue a titolo di risarcimento danni. Anche sotto questo profilo qualcosa sta cambiando (cfr. l’introduzione del criterio della riversione degli utili del contraffattore), ma resta da fare ancora molta strada. Quanto alla capacità di analisi dell’Ufficio in sede di rilascio del brevetto, credo che sia un problema da analizzare solo a livello internazionale. In Italia mi accontenterei di avere un Ufficio Marchi e Brevetti che adempie alle proprie incombenze meramente formali in tempi rapidi, pur non esaminando la domanda di brevetto in modo sostanziale. Chi, già oggi, vuole ottenere un brevetto di fatto più "serio", chiede il Brevetto Europeo, o di altri Stati che prevedono l’esame di anteriorità. Ergo, istituire lo stesso esame in sede nazionale avrebbe un effetto duplicativo sproporzionato rispetto agli ingenti investimenti richiesti. A volte il meglio è nemico del bene.

  3. Gianluca Salvatori

    In questa impostazione ci sono due aspetti che meriterebbero di essere approfonditi. Il primo riguarda il concetto di elasticità dell’offerta di innovazioni, che è definita come aumento percentuale del numero di innovazioni causato da un aumento della spesa in ricerca. Un rapporto tuttaltro che dimostrabile, vista la difficoltà – di cui si è detto altre volte – di stabilire un nesso causale tra investimenti in ricerca e innovazione. La formula potrebbe quindi essere inficiata dall’indeterminatezza dei valori. Il secondo aspetto è invece relativo all’assunto che il calcolo debba riguardare prioritariamente il vantaggio economico dell’innovatore, quasi che la situazione di brevetti riconducibili a singoli inventori sia rappresentativa della maggioranza dei casi. La realtà empirica sembra indicare invece che la protezione brevettuale è prevalentemente un processo che vede la partecipazione congiunta di soggetti fisici e soggetti giuridici (laboratori, centri di ricerca, università e imprese). Con la conseguenza che spesso la scelta di brevettare risponde a logiche che non sono riconducibili esclusivamente alla valorizzazione economica. Nelle strategie di un’azienda talvolta si procede a protezione brevettuale per negoziare accordi o per frapporre ostacoli all’azione dei propri competitori. Nelle istituzioni di ricerca e universitarie invece il brevetto oggi tende sempre più spesso ad essere considerato un elemento di valutazione dell’attività scientifica (con tutte le distorsioni del caso…). http://gianlucasalvatori.nova100.ilsole24ore.com/

  4. Carlo

    Un’osservazione sui brevetti software: in questo settore si e’ gia’ superato il ridicolo, e, se si continua di questo passo, si finira’ per brevettare le lettere dell’alfabeto. Esempio concreto: Amazon ha brevettato una "tecnologia" per effettuare ordini con 1 click: se il sito ha memorizzati l’indirizzo e la carta di credito del cliente, l’ordine viene concluso con un click senza bisogno di confermare i dettagli. Come puo’ una simile banalita’ considerarsi un’innovazione meritevole di brevetto e relativa tutela? Eppure il brevetto e’ stato concesso, quindi se io voglio realizzare la stessa cosa per il mio sito non posso! Esempi simili nel mondo del software abbondano, e li reputo molto pericolosi perche’ di fatto limitano il mercato, tutelando come brevetti delle banalita’ che non rappresentano alcuna novita’ ne’ innovazione.

  5. Vincenzo Mazzotta

    Buonasera, ma chi di voi ha mai verificato quanto torni in tasca allo scopritore di un idea di un processo industriale ecc…
    Se la legge fosse che colui che viene pagato non puo’ essere l’azienda bensi lo scopritore e questi non puo’ cedere i diritti alle aziende bensi queste recupereranno le spese di R&D e poi un percentuale massima

  6. Alberto

    Non mi sembra, onestamente, che i brevetti siano sotto tiro. In particolare, non direi proprio che la destra sia così avversa ai monopoli creati dallo stato (Alitalia-Malpensa); ma soprattutto, respingerei totalmente l’idea che la sinistra sia contraria all’idea stessa di proprietà intellettuale, quando è stata proprio la sinistra al governo che ha finalmente istituito il rapporto di ricerca, nonostante che nella maggioranza ci fossero comunisti.

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