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QUANDO LA FUSIONE AUMENTA I PREZZI

Le fusioni sono vantaggiose o svantaggiose per i consumatori? Negli Stati Uniti, su cinque casi problematici, quattro mostrano alla verifica empirica un aumento dei prezzi al consumo dei prodotti coinvolti. Tutto sommato modesto, ma considerato che siamo nel campo del largo consumo, il trasferimento implicito dai consumatori alle imprese è rilevante. E’ senz’altro possibile che permettendo alcune fusioni non competitive, l’autorità di controllo ne abbia ammesse altre più efficienti, che sarebbero state ostacolate da una politica antitrust più rigida.

Ogni anno sono più di mille le richieste di fusione presentate alle Autorità antitrust degli Stati Uniti. Tuttavia, solo un numero esiguo di transazioni è respinto o sottoposto a modifiche per la preoccupazione che possano risolversi in prezzi al consumo più alti e non competitivi. Tra gli esempi più recenti di proposte di fusione molto controverse si possono citare l’unione tra le due compagnie aeree americane Delta e Northwest e l’offerta Microsoft per Yahoo!.

Ingenti risorse pubbliche e private sono dedicate all’esame dei potenziali effetti non competitivi delle fusioni prima che vengano approvate, sorprendentemente bassa è invece la valutazione sulle  fusioni ammesse, per verificare se si sono poi rivelate non competitive. Senza questa informazione è impossibile determinare se le politiche adottate dall’Autorità siano troppo rigide o troppo moderate e quali aggiustamenti si possano fare.
Più in generale, il valore e l’efficacia delle stesse politiche antitrust è oggetto di un dibattito animato, che si fonda però su una davvero scarsa informazione confortata dai fatti. Per esempio, Robert Crandall e Clifford Winston sostengono che le politiche antitrust non hanno comportato alcun beneficio per i consumatori, mentre Jonathan Baker afferma esattamente il contrario. (1)

CINQUE FUSIONI SOTTO ESAME

Alla fine degli anni Novanta, l’economia americana ha vissuto la più grande ondata di fusioni della sua storia, con il numero di richieste più che duplicatosi tra il 1994 e il 1999.
Abbiamo selezionato le fusioni da prendere in esame tra quelle realizzate e che dai documenti pubblici apparivano come le più problematiche dal punto di vista delle autorità antitrust: quelle che più probabilmente avrebbero dovuto dare come risultato un aumento non competitivo dei prezzi. Gli incrementi di prezzo determinati da queste fusioni contemplano un limite superiore che anche altre fusioni ammesse potrebbero aver prodotto e un limite inferiore che avrebbe potuto verificarsi anche in fusioni respinte. In questo modo abbiamo fornito un’indicazione per dire se la politica dell’Autorità in fatto di fusioni possa essere stata troppo ostile o troppo accondiscendente.
Per identificare le fusioni potenziali oggetto di studio abbiamo consultato il “Merger Yearbook” e abbiamo selezionato cinque fusioni realizzate, nelle quali le parti in causa producevano prodotti sostituti su mercati che da notizie di stampa apparivano piuttosto concentrati. I cinque casi sono l’acquisto da parte di Procter & Gamble di Tambrands (prodotti di igiene femminile), l’acquisto da parte di Aurora Food di Log Cabin di Kraft (sciroppi), l’acquisto da parte di Pennzoil di Quaker State (olio per automobili), l’acquisto da parte di General Mills della divisione cereali di Ralcorp e la fusione tra Guiness e Grand Metropolitan.

L’APPROCCIO “DIFFERENCE IN DIFFERENCES”

Per dar conto di eventuali fattori di disturbo che potrebbero essere intervenuti al momento della fusione, per esempio possibili cambiamenti nella domanda, nei costi o nei prezzi, abbiamo utilizzato un approccio  “difference in differences” per misurare l’effetto sul prezzo al consumo delle fusioni. Abbiamo considerato gruppi di controllo multipli e intervalli di osservazione vicini agli eventi sotto esame. Il nostro gruppo di controllo preferito è composto dai prodotti private label venduti in ognuno dei settori interessati. Il vantaggio di questa scelta è che per i consumatori le private label sono probabilmente sostituti remoti dei marchi di più alta qualità interessati dalla fusione. E tuttavia, i prodotti private label (con l’eccezione della pubblicità) dovrebbero condividere molti  fattori utilizzati per produrre i prodotti di marca. Se assumiamo che le private label sono offerte in modo perfettamente elastico, il loro prezzo dovrebbe fornire un buon controllo per i costi e allo stesso tempo questi prodotti dovrebbero essere relativamente poco colpiti dall’incremento dei prezzi non competitivo attuato dagli attori della fusione. Il nostro intervallo preferito contiene una quantità simmetrica di dati pre e post fusione. Eliminando i dati entro tre mesi dalla fusione evitiamo il problema di stabilire esattamente quando le imprese iniziano a coordinare il loro comportamento  rispetto al prezzo, lasciandoci con misure non inquinate della determinazione del prezzo da parte delle aziende prima e dopo la fusione.
I nostri risulati empirici mostrano che quattro delle cinque fusioni in esame hanno avuto come conseguenza alcuni aumenti in alcuni prezzi al consumo. Gli incrementi di prezzo stimati possono essere considerati relativamente modesti: sono generalmente tra il 3 e il 7 per cento. Tuttavia, considerato il largo consumo di questi prodotti, il trasferimento implicito dai consumatori alle imprese è rilevante. Mentre la grandezza di alcuni effetti di prezzo varia a seconda della tecnica di stima utilizzata, non è mai cambiata la conclusione che i prezzi al consumo non sono diminuiti, anzi molto probabilmente sono aumentati, anche quando abbiamo modificato il sistema per misurare i prezzi al consumo o il gruppo di controllo, o quando abbiamo cambiato l’intervallo di tempo vicino all’evento durante il quale i cambiamenti di prezzi avrebbero potuto essere effettuati.

REGOLATORI TROPPO “BUONI”

Alcuni dei “non interventisti” saranno sorpresi di apprendere che la nostra stima migliore degli effetti di prezzo della fusione marginale è positiva, e non negativa come dovrebbe essere se la fusione marginale comportasse grandi benefici per i consumatori attraverso l’efficienza di una azienda più grande.
I nostri risultati hanno molti limiti, e sarebbe perciò prematuro concludere che le fusioni che abbiamo preso in esame siano state dannose per i consumatori o che la nostra valutazione sia completa. Primo, non siamo in grado di analizzare i possibili effetti di più lungo periodo sui prezzi, che possono derivare dalla accresciuta efficienza economica delle imprese che si sono fuse. Né siamo in grado di studiare il ruolo delle fusioni nello sviluppo di nuovi prodotti.
Secondo, abbiamo ristretto la nostra analisi a fusioni nel campo dei prodotti di consumo, che sebbene attraggano molta attenzione, costituiscono solo una piccola parte delle fusioni effettuate nel periodo in esame. Infine, il nostro studio ha preso in esame solo le implicazioni di errori di secondo tipo: l’incapacità di bloccare una fusione quando potrebbe essere utile farlo. La nostra ricerca non analizza errori di primo tipo: non aver ammesso fusioni che non avrebbero avuto come risultato prezzi più alti.Èpossibile che permettendo alcune fusioni non competitive, l’autorità di controllo abbia ammesso anche fusioni più efficienti e che sarebbero state messe in dubbio da una politica antitrust più rigida. Una valutazione completa del comportamento ottimale di applicazione delle regole deve prendere in considerazione tutti questi temi.

(1) Vedi Crandall, Robert W. e Clifford Winston. “Does Antitrust Policy Improve Consumer Welfare? Assessing the Evidence”.Journal of Economic Perspectives Vol. 17 (2003) pp. 3-26. E Baker, Jonathan. “The Case for Antitrust Enforcement”. Journal of Economic Perspectives Vol. 17 (2003) pp. 27-50.

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  1. Mauro

    Mah, secondo me le fusioni hanno solo lo scopo di "riassestare" bilanci in perdita ed effettuare speculazioni in borsa.

  2. aris blasetti

    Almeno in Italia e nel campo bancario non vi era bisogno di alcun studio particolareggiato per appurare che le fusioni e le privatizzazioni non hanno portato alcun beneficio ai consumatori ma esclusivamente ai bilanci delle banche ed alle remunerazioni degli alti dirigenti.Le spese sono salite alle stelle, i prodotti venduti devono portare alti utili nell’immediato e non tendono a fidelizzare, in modo sano, il cliente. Pare che negli USA questa tendenza stia per essere abbandonata, speriamo bene.

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