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SPAGNA-ITALIA: IL SORPASSO

In Spagna, la classe dirigente ha chiara l’urgenza della principale sfida per il futuro: far crescere la produttività totale. E non si ha paura di lasciare indietro chi non tiene il ritmo dell’innovazione, siano università inefficienti o imprese poco competitive. In Italia il ministro dell’Economia indica la globalizzazione come causa dei nostri malanni. Ma se vogliamo tornare a crescere, dobbiamo risolvere i problemi interni. A partire da due risorse inutilizzate come Mezzogiorno e lavoro femminile. Aggiungendo molta concorrenza. L’alternativa è solo un dolce declino.

“Dobbiamo promuovere riallocazioni tra settori per aumentare la produttività. Se ciò comporta una maggiore disoccupazione, dobbiamo dare priorità alla produttività perché solo così si avrà occupazione stabile”. In altre parole: dobbiamo favorire gli aggiustamenti richiesti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione, lasciando morire alcune imprese in certi settori per vederne nascere in altri, anche a costo di aumentare la disoccupazione nel breve periodo, perché solo così potremo aumentare reddito e occupazione nel lungo periodo. Chi ha rilasciato questa dichiarazione? Qualche economista dal cuore di pietra? Nient’affatto, trattasi di Cándido Méndez, segretario generale del sindacato spagnolo Ugt, in occasione del primo maggio.

LA SFIDA DELLA PRODUTTIVITÀ TOTALE

In Spagna, la classe dirigente ha chiara l’urgenza della principale sfida per il futuro: far crescere la produttività totale. Nel periodo 1995-2005, quel paese ha conosciuto una crescita media annua del Pil del settore privato pari al 3,6 per cento (un numero da sogno per la stagnante Italia), ma il contributo arrivato della produttività totale dei fattori è stato negativo (-0,9 per cento). (1)
Si è trattato di una crescita “estensiva”, sospinta dall’edilizia e basata su incrementi nell’uso dei fattori produttivi, piuttosto che di una crescita “intensiva” fondata su aumenti di efficienza. Nonostante i tempi di vacche grasse continuino, quindi, ci si pone il problema della loro sostenibilità negli anni a venire. La Spagna mantiene punti di debolezza sia nel sistema imprenditoriale sia in quello educativo, tanto che è ancora difficile prevedere se la sfida della crescita intensiva sarà vinta. (2)
Ma la consapevolezza che non esiste altra via è diffusa. E non si ha paura di lasciare per strada chi non tiene il ritmo dell’innovazione, si tratti di università inefficienti o di imprese poco competitive.
La teoria economica insegna che i costi dell’assenza di istituzioni e politiche che incentivino la creatività sono tanto maggiori quanto più un’economia si avvicina alla frontiera della tecnologia. (3)
Il mestiere di chi insegue è relativamente più facile: devi assimilare le tecnologie e i modelli organizzativi usati nei paesi più avanzati e accumulare capitale, magari anche proteggendo un po’ le grandi imprese già esistenti. Per chi si trova già sulla frontiera e deve ogni giorno ridefinirla, invece, le cose si complicano. Si tratta di costruire il futuro , premiando le imprese, i manager, i lavoratori e i ricercatori che hanno dimostrato di saper competere, lasciando indietro gli altri (nessun pasto è gratis). Solo con questa selezione si difende il proprio vantaggio comparato e si aumenta la produttività totale. La sfida non riguarda solo le imprese e il mercato del lavoro: sistema educativo, pubblica amministrazione, partiti politici, università e ricerca, tutto deve favorire l’innovazione e la selezione dei migliori. Anche a costo di minare le rassicuranti certezze di chi è soddisfatto dello status quo distributivo.
In Italia, purtroppo, sembra che l’urgenza di questi temi sia presente solo in dosi omeopatiche. Il neo-(ex-)ministro dell’Economia ha recentemente puntato l’indice contro la globalizzazione come causa dei nostri malanni. (4)
Secondo Giulio Tremonti, si possono imputare alla globalizzazione l’aumento dei prezzi delle materie prime, i problemi ambientali su scala mondiale e le difficoltà dei ceti popolari nei paesi ricchi, a causa dell’effervescente sviluppo dei paesi emergenti. Ma l’accusa contiene già in sé il riconoscimento del merito principale del fenomeno: aver favorito lo sviluppo e l’uscita dalla povertà di una grossa fetta del pianeta. Ammesso, e non concesso, che si possa rallentare lo sviluppo della Cina e di altri paesi, questa strada, oltre che moralmente eccepibile, sarebbe economicamente miope, perché rinunceremmo a opportunità comuni di sviluppo senza risolvere uno solo dei nostri problemi.
La prima cosa che si insegna in un corso di macroeconomia è che le prospettive di crescita del reddito di un paese nel lungo periodo dipendono dalla capacità di aumentare i fattori impiegati nella produzione (lavoro, capitale fisico, capitale umano e materie prime) o di migliorare l’efficienza complessiva e il livello tecnologico (incrementando la produttività totale dei fattori). Su quasi tutti questi fronti, l’Italia è al palo da decenni. Nel periodo 1995-2005, la nostra crescita media è stata dell’1,4 per cento, ma l’1 per cento è dipeso dall’aumento dell’occupazione (grazie alle riforme del mercato del lavoro), mentre il contributo della produttività totale dei fattori è stato negativo (-0,4 per cento). Negli stessi anni, la produttività contribuiva alla crescita Usa per l’1,4 per cento e a quella cinese per il 3,9 per cento. I nostri problemi, insomma, sono interni. E vengono da lontano, visto che il declino del sistema educativo e la stagnazione degli investimenti non nascono certo oggi. Se la nostra classe dirigente cercherà di cavalcare facili capri espiatori, si comporterà come quei genitori che, per quieto vivere familiare, danno ragione ai figli che imputano la colpa dei loro brutti voti ai professori. Come se i nodi non venissero al pettine, al momento dell’ingresso (dei cattivi studenti) nel mondo del lavoro.

VERSO IL DOLCE DECLINO?

Certo, i cambiamenti richiesti alle nostre economie provocano paure e incertezze, cui i cittadini chiedono risposte immediate, pena trasformarsi in elettori incattiviti pronti a soffiare sulle vele del neo-populismo protezionista. Può darsi che il tremontismo sia politicamente utile per intercettare le ansie degli elettori. Ma, alla resa dei conti, non risolverà i loro problemi. Il fenomeno non è nuovo. Così come ogni volta che c’è paura di un nemico esterno scattano riflessi condizionati a livello sociale che mettono a rischio le libertà civili, appena ci sono difficoltà economiche nascono rigurgiti protezionistici e di ostilità verso il mercato, almeno dai tempi delle civilizzazioni del Mediterraneo. (5) Le soluzioni non sono mai arrivate da chi ha cavalcato la paura in chiave anti-liberale, ma da chi si è rimboccato le maniche per costruire un’equilibrata miscela di democrazia, mercato e stato sociale.
Se l’Italia vuole tornare a crescere, deve risolvere i suoi problemi interni. Cercando di dare fondo a due risorse inutilizzate come il Mezzogiorno (abbattendo rigidità salariali, costi burocratici e criminalità) e il lavoro femminile (spendendo meno in pensioni e più in asili nido). E rimettendo in moto gli italiani con dosi massicce di concorrenza: dai servizi finanziari alla distribuzione commerciale, dai servizi pubblici locali a quelli alla persona, dal settore pubblico all’università. Questa strategia d’urto comporta dei costi. Liberalizzando, molti perderanno rendite e si troveranno in difficoltà. A colpi di merito, qualcuno verrà lasciato per strada.
Se non si vogliono pagare questi costi, esiste sempre l’alternativa del declino dolce. Dati i livelli di reddito raggiunti dal nostro paese, possiamo mandare avanti la baracca e goderci il quieto vivere senza stress per altri decenni. Accettando, in cambio, che risorse preziose vadano all’estero per valorizzare le loro capacità. Che le famiglie che non hanno accumulato ricchezza grazie allo sviluppo del dopoguerra, o al debito pubblico dei decenni successivi, siano le prime a scivolare sotto la soglia di povertà. Che turismo, moda e cibo, finché le pressioni competitive non saranno troppo forti anche lì, siano l’unica presenza dell’Italia all’estero. Augurandoci buona fortuna.

(1) Tutti i dati riportati su crescita e produttività sono ripresi dalle stime di Van Ark B., O’Mahoney M. e Timmer M.P. (2008), “The Productivity Gap between Europe and the United States: Trends and Causes”, Journal of Economic Perspectives, 22(1), pp. 25-44.
(2) Si veda Pérez-Díaz V. (2002), Una interpretación liberal del futuro de España, Taurus.
(3) Si veda il modello teorico proposto da Acemoglu D., Aghion P. e Zilibotti F. (2006), “Distance to Frontier, Selection, and Economic Growth”, Journal of the European Economic Association, 4(1), pp.37-74. Per una strategia di crescita basata su innovazione e selezione, si legga Sapir A. et al. (2004), An Agenda for a Growing Europe, Oxford University Press.
(4) Si veda Tremonti G. (2008), La paura e la speranza, Mondadori.
(5)Si legga Pipes R. (2000), Property and Freedom, Vintage. Sul legame tra minacce esterne e libertà civili, si veda Lewis A. (2008), Freedom for the Thought That We Hate, Basic Books.

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IL PREZZO DEL PREGIUDIZIO

30 commenti

  1. Alessandro Sciamarelli

    Non si può che concordare su tutta la linea. Chiunque abbia una minima cultura macroeconomica o conosca minimamente i dati fondamentali di natura “strutturale” del nostro paese (crescita di Pil e produttività, mercato del lavoro, sistema educativo ecc.) non credo possa giungere a considerazioni diverse. Il problema è che tutto questo non può rientrare nell’agenda dei nostri policymakers, nel momento in cui costoro hanno ottenuto il consenso elettorale basandosi su presupposti essattamente opposti (è colpa dei cinesi cattivi, della globalizzazione perfida, della BCE, e altre amenita` del genere); insomma, il messaggio è che invece di rimboccarci le maniche come hanno fatto Spagna, Finlandia, Irlanda ed altri (ma anche la Germania che ha ristrutturato il suo sistema industriale) gli italiani dovrebbero dare la colpa agli altri ed affidarsi allo stellone o ai leader carismatico-miracolistici. Che rifiutano la complessità e fanno quotidianamente leva sull`ignoranza, sulla paura (ancorché legittima) del futuro economico e sulla demagogia dei bassi istinti. Non aspettiamoci niente di diverso, meno che mai che il nostro declino strutturale inverta la tendenza.

    • La redazione

      Concordo in pieno, ma conservo un briciolo di speranza sul fatto che finiremo per "rimboccarci le maniche" anche noi. Lo so: ottimismo della volontà più che della ragione.

  2. Marco Trento

    Questo articolo mi lascia un po’ perplesso. Mi sembra più un manifesto politico che un testo scientifico. Sa molto di Chigago Boys, si citano gli articoli di Acemoglu come se fossero le sacre scritture e si aggiunge una spolverata di darwinismo sociale. Difficilmente condivisibili le proposte sul lavoro femminile: le donne non sono una “risorsa sottoutilizzata” da sfruttare al massimo per far crescere la produttività secondo le leggi del vantaggio comparato. Mi sembra invece che qui si sposi l’idea di una specie di specializzazione del lavoro uterina secondo qui le donne partoriscono i figli, ma poi questi devono essere “allevati” 8 ore al giorno dagli asili nido perché la madre ha un vantaggio comparato nel mondo del lavoro e quindi è meglio che stia in ufficio e non coi figli. Come se bastasse costruire asili nido per far lavorare le donne! Le donne che hanno voglia di lavorare lo facciano e si fermi questa campagna ideologica contro le donne che vogliono invece dedicarsi alla famiglia e alla cura dei figli.

    • La redazione

      Su un punto siamo d’accordo: il mio pezzo non è un testo scientifico (altrimenti non sarebbe ospitato da Lavoce.info, che raccoglie commenti e testi divulgativi). E sì, è un testo ispirato a un’ideologia precisa, se la intendiamo come visione del mondo e non come sistema chiuso d’idee: trattasi, per scimmiottare Pérez-Díaz, di un’interpretazione liberale del futuro (auspicato) del nostro paese.
      È inutile continuare a parlare di "meritocrazia" e "concorrenza" se non si fanno nomi e cognomi di chi finirà per perdere qualcosa da strumenti del genere. Sempre che non s’intenda la meritocrazia come in certe agenzie pubbliche (dove, sfidando il senso del ridicolo, si distribuiscono i premi di risultato a pioggia su tutti i dipendenti), quando ci si propone di premiare i migliori, qualcuno finisce per essere scontentato (leggi: quelli che non sono identificati come tali). Se ci si apre alla concorrenza, i detentori di rendite finiscono per perderle e si sentono alla deriva. A tutti noi piacciono le rendite, che danno stabilità e sicurezza. Ma se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che le fasi della nostra vita in cui siamo stati più creativi sono quelle in cui ci siamo messi in gioco senza reti di protezione. All’Italia serve una scossa di questo tipo. Ed è un peccato che qualsiasi proposta volta a "selezionare" sia tacciata di darwinismo sociale. Che c’entra? Nessuno vieta di accompagnare meritocrazia e concorrenza con interventi volti ad aiutare chi resta indietro (ad esempio, con un sistema efficiente di ammortizzatori sociali per i lavoratori flessibili). Tanto più che è difficile considerare egualitario un sistema immobile come quello italiano, almeno che non si consideri inevitabile che la probabilità di diventare avvocato sia dieci volte maggiore per il figlio di un avvocato rispetto al figlio di un imbianchino. Se si vuole aumentare la mobilità sociale verso l’alto (per rimettere in moto gli incentivi ma anche per favorire l’eguaglianza delle opportunità), si deve accettare un pizzico di mobilità verso il basso, magari affiancandole le giuste forme di tutela. L’alternativa? Il declino dolce, secondo la visione (liberale) espressa nel mio pezzo. Spero, ovviamente, di sbagliarmi.
      Una postilla sull’occupazione femminile (obiettivo conclamato di tutte le strategie di sviluppo dell’Unione Europea da oltre un decennio): il nostro paese è agli ultimi posti per il tasso di partecipazione femminile, siamo sicuri che per tutte le donne italiane si tratti di una scelta? Se è così, non sarà certo qualche servizio in più a farle cambiare idea. Se non è così, è bene aiutarle aumentando la loro libertà di scelta. Nessuna imposizione, ma solo una serie di politiche che aiutino tutti (anche gli uomini, perché no?) a scegliere la combinazione preferita tra attività lavorativa e tempo dedicato alla famiglia.

  3. franco

    Chiara e lucida l’analisi dell’articolo. Sono verità che purtroppo, lobby e rendite parassitarie fanno fatiche a condividere.La strada indicata è il passaggio obbligato per il rilancio, pena la decadenza irriversibile dell’Italia. Chi dovrebbe da noi indicare le vie di uscita? Dovrebbe essere il sistema produttivo, industria e sindacato, alleati naturali nel rilancio del sistema perchè alla fine rimangono i veri attori del proprio destino , il sistema formativo, scuola e università, e la cultura. E’ necessaria una rivoluzione dell’etica dei comportamenti e della responsabilità individuale. Con tutta la buona volontà e senza pregiudizi non può essere il governo Berlusconi a impegnarsi in queste analisi e indicare prospettive. Speriamo solo che il centro sinistra dia più spazio alle competenze presenti nel proprio campo e non ricada nella sterile contapposizione dell’antiberlusconismo, perchè è il campo preferito dalla destra parassitaria molto brava a rimandare la soluzione dei problemi e più protesa al tirare a campare.

  4. Luca Boccianti

    Nell’articolo si dice: occorre spendere meno in pensioni e più in asili nido. negli ultimi anni in Italia si sono verificati fenomeni interessanti: i prezzi del mercato immobiliare (affitto e vendita) sono aumentati in media del 50%, aumentano relativamente le immatricolazioni di veicoli e natanti di lusso, eccetera. è evidente che chi era già molto ricco lo è diventato ancora di più, e non credo si tratti di meritocrazia. forse i soldi per gli asili, invece che prenderli dai pensionati (che non hanno fatto niente di male se non lavorare tutta la vita e aspirare ad una vecchiaia dignitosa), li si potrebbe prendere da chi è ricco davvero, non trova? e si potrebbe evitare di fomentare questa strisciante guerra tra poveri e tra generazioni.

    • La redazione

      È vero: lo slogan del pezzo è una semplificazione; le risorse si possono trovare anche da altre parti. Resta che quando si devono recuperare risorse a favore di generazioni già tutelate dal nostro sistema di welfare, come i cinquantenni coinvolti dallo scalone previdenziale, si passa subito dalle parole ai fatti, mentre per la riforma degli ammortizzatori sociali (che aiuterebbe i giovani lavoratori flessibili) i soldi non si trovano mai.

  5. Tommaso Sinibaldi

    No, l’economia spagnola, lungi dall’essere un modello cui ispirarsi, è in gravi difficoltà. I due problemi maggiori sono la bolla nel settore immobiliare ed il deficit di parte corrente nei conti con l’estero. Concentriamoci su quest’ultimo : nel 2007 il deficit ha raggiunto i 105,8 miliardi di €, il 10,1% del Pil : è in valore assoluto il secondo del mondo dopo quello degli USA. Per coprirlo nel 2007 la Banca Centrale ha venduto oro e valute : all’inizio del 2008 ha ottenuto dalla BCE anticipazioni per 44 mlrd €, in questi ultimi mesi le grandi banche spagnole liquidano attività all’estero e rimpatriano fondi. Ma si sta ormai raschiando il fondo del barile. Secondo David Owen, economista della Dresdner Kleinwart (Daily Telegraph.co.uk del 5 apr.08) “…Non c’è da discutere se ci sarà o meno una recessione in Spagna, ma solo quanto dura e lunga sarà…(La Spagna) potrebbe dover fronteggiare una crescita zero per 5 anni..” Prospettiva assai dura : d’altronde è difficile vedere alternative, a meno di quella estrema di una uscita dall’Euro.

    • La redazione

      Concordo sul fatto che la Spagna mantenga forti elementi di debolezza su molti fronti. Ne faccio cenno nel pezzo citando il bel saggio di Pérez-Díaz, che li elenca con grande lucidità (lo so: questa parte è un po’ offuscata dal titolo di risiana memoria). Restano, comunque, altri innegabili elementi di forza, dal basso debito pubblico al sistema politico che garantisce l’effettività del governare. Tra luci e ombre, vedremo chi avrà la meglio nei prossimi anni.

  6. piero de pietro

    Condivido, purtroppo, l’articolo perchè non vedo , soprattutto nella classe dirigente e nella società civile meridionali nessun senso civico o consapevolezza culturale dei problemi. Il particulare mai come in questa epoca è la cifra culturale dell’Italia e aggiungo dell’italia meridionale. Speriamo almeno che il declino sia veramente dolce e non aspro come invece ritengo.

  7. paolo

    La Spagna è un falso termine di paragone. I problemi italiani sono noti: sud in mano alla mafia e politica in mano ai mafiosi. Senza questi ostacoli la Spagna non verrebbe nemmeno presa in considerazione. Si tratta infatti di un paese dove fuori delle grandi città è possibile trovare solo una economia agricola e grande disoccupazione. Il loro Pil dipende quasi esclusivamente da una crescita immobiliare smodata con una cementificazione selvaggia di coste e periferie. Mancano di basi industriali comparabili a quelle italiane. Dalla loro hanno sicuramente un grande entusiasmo e una maggiore onestà. ( e non è poco).

    • La redazione

      In parte è così, ma solo in parte. In alcuni settori, si comincia a intravedere l’alternativa al “ladrillo” (edilizia). Se la Spagna ce la farà o no, lo valuteremo tra qualche decennio.

  8. umberto carneglia

    I nodi strutturali del sistema Italia mi sembrano molto evidenti, ed in parte anche molto noti. E’ spesso ripetuto che nel settore pubblico nel suo complesso – di cui gli enti territoriali e comunque non statali sono una larga parte – i margini di spreco di incompetenza ed inefficienza sono colossali. Al settore pubblico va aggiunta una miriade di realta’ ibride – società miste – che operano all’ombra del pubblico , un’ombra a volte molto fitta. E’ anche noto che il nostro è il Paese degli interessi corporativi e paramonopolistici – dall’informazione in alto alle varie corporazioni giu’ giu’ fino ai tassisti ed oltre . E’ ultranota l’azione di blocco del mercato e dell’economia della mafia nel Mezzogiorno ed anche fuori. Potrei continuare ancora a lungo. Ma la conclusione è già evidente: la classe politica italiana non aggredisce i nodi che bloccano il sistema ed il mercato e non recupera gli enormi margini finanziari e di spreco che contengono. Segue per lo più l’onda degli umori di massa , ai quali dedica il massimo delle energie: sondaggi, blandizie, promesse, show mediatici ecc. Intanto qua e la’ fa qualche indulto, qualche scalata, o legge a proprio vantaggio.

  9. franco

    Esporto un poco in Spagna , il mio importatore si è fermato e mi ha detto (testuali parole) “l’effetto psicologico della pacchia è finito, la realtà è quella di tutti gli altri Paesi, dura! ” Tornando all’Italia, aggiungo caro Professore, che l’deologia e gli slogan che ormai la fanno da padrone in questo Paese non vengono solo dai mediocri politici, ma anche da chi scrive e chi studia (o dovrebbe). Questo Paese riprenderà solo con una azione traumatica. Allora Le faccio una domanda: se la sente Lei di togliere il 50% di apparati pubblici con relativi dipendenti che generano una burocrazia inutile e dannosa? Se la ente di togliere l’auto blu con relativo autista a uno dei centinaia di presidenti di Provincia? Se la sente di spiegare a noi analfabeti che cosa realmente fa un funzionario regionale? Il Mezzogiorno , il lavoro femminile è solo una dolce illusione, con la consapevolezza che il peggio deve ancora venire. La follia di 40 anni di spreco pubblico e la pazzia del federalismo -patacca, non si risolvono con la cura ma con il bisturi!

    • La redazione

      Alcuni dei temi che lei cita (riduzione della spesa pubblica e iniezioni di concorrenza/efficienza nella burocrazia) sono già presenti
      nella "ricetta" proposta nel mio pezzo, che ovviamente non pretende di essere onnicomprensivo… Ma non vedo perché questi obiettivi debbano essere presentati in contrapposizione con il rilancio dell’occupazione femminile e lo sviluppo del Mezzogiorno.

  10. decio

    In Italia, circa il 50% dell’occupazione è nel settore pubblico. Per accedervi, occorre 1. aspettare che esca il bando 2. fare domanda 3. Prova scritta ed orale un anno dopo. 4. Graduatoria 5. Presa di servizio. 6. Qualcuno che fa ricorso. Siamo veloci, vero? Ovviamente pochissimi posti e soprattutto entrano molti non adatti. Perchè? Semplice: non c’è nessuno che scelga in base al curriculum, ma in base ad un tema interrogazione orale: già, come in terza media o quarta superiore. Se non mettiamo un ufficio risorse umane che sia responsabile delle scelte che opera (entro un mese da un avviso di chiamata, e non bando), la PA soffrirà ancora, l’economia girerà poco perchè i giovani con alti curricula (l’Italia è piena) non potranno far valere le loro singole capacità, che con il tema e le interrogazioni di cui sopra non emergono. Ci vuole tanto a capirlo? Andando avanti così ci supereranno tutti!

  11. franco

    Professor Nannicini in merito alla Sua risposta vorrei dirle che non si tratta di contrapposizione di obiettivi verso altri. A mio modestissimo avviso questo Paese ha bisogno di una cura traumatica che nessun ha voglia e forza di fare perchè è un Paese talmente ingessato e rigido che qualsiasi azione traumatica porta al crollo. Se vogliamo parlare di rilancio del Sud e di lavoro femminile, Lei sa meglio di me che sono due cose che non si possono fare con leggi e decreti, ma soltanto con anni di cultura e di educazione civica. Le domando: ne abbiamo il tempo? Un mio amico elettrauto di Verona per mettere un cartello di 50 cm x 20 a forma di freccia che indica l’ubicazione della Sua officina ha dovuto fare domanda a 3 Comuni e alla Provincia di Verona sono passati, tra lettere raccomandate, fax , 3 mesi senza ottenere risposta alla fine ha rinunciato. Il declino di questo Paese è palese in questi atteggiamenti. Quale speranza?

  12. Davide Bianchini

    Gentile professore, il problema non è più come far crescere il paese, ma il concetto stesso di crescita. Se l’aumento di produzione degli ultimi 40 anni ha riempito le nostre vite di ogni tipo di oggetto è anche vero che a fronte di una crescita del 300% la popolazione dedita al lavoro è rimasta attorno ai 20milioni di occupati smentendo clamorosamente l’assioma crescita=+occupazione. Non la tedio con l’elenco dei problemi che questo tipo di sviluppo ha generato, le faccio solamente presente un pensiero: non si può crescere all’infinito e le prime due leggi della termodinamica lo dimostrano da più di qualche lustro. Concludo: anche quando l’Italia fosse completamente scevra da mafia e politici incapaci ci troveremmo ad affrontare comunque il problema della crescita così come posto oggi in quanto i costi di petrolio e materie prime sono indipendenti dalle nostre decisioni; qualora fossimo decisivi sulla determinazione di queste variabili ci troveremmo ad affrontare la scarsità congenita delle fonti.

  13. habsb

    Concordo con l’impostazione e con le tesi dell’articolo. L’Italia ha forti potenzialità basate sulle risorse umane e il territorio, ma e` stata finora frenata da una politica anti-liberale, oltre che da un’indubbia debolezza del sistema scolastico e universitario (direi i capisaldi di questa cutlura anti-liberale). Purtroppo pero’ uscire da questa situazione non pare alla portata dei governi italiani, da quando le "constraints" europee ne limitano fortemente la sovranita`. Le indispensabili liberalizzazioni, di fronte ai campioni esteri sostenuti quando non posseduti dai rispettivi governi, presentano seri rischi di colonizzazione economica. La sciagurata perdita della sovranita` monetaria rende difficile ogni politica economica. Perfino il rilancio del mezzogiorno pare aleatorio in un quadro politico europeo fondamentalmente iniquo, che ha visto grandi capitali destinati ai Laender orientali, vere e proprie nazionalizzazioni (Northern Rock) e iniezioni di denaro pubblico (West LB), mentre ogni aiuto a Alitalia viene minacciato di duro contenzioso, e l’Italia resta contributore netto della PAC, malgrado le sue arretrate campagne meridionali.

  14. sergio finozzi

    Si continua a paragonare Spagna con Italia ma il confronto è impari: – percentuale di giovani su popolazione attiva, – possibiltà di ulteriore sviluppo industriale in relazione al territorio, – influenza della chiesa cattolica in politica e in società sono tutti elementi che condizionano negativamente la situazione italiana rispetto alla spagnola e che anche in futuro agiranno negativamente

  15. Marco T. - Veneto

    Le analisi di un paese con così grandi differenze geografiche come l’italia senza disaggregare i dati genera spesso false cure. Non si può non notare che il problema enorme del sistema sia il Sud. Se guardiamo ai dati generali (PIL, istruzione, evasione) troviamo un Nord in linea o con parametri superiori a quelli delle più avanzate aree Europee. Di contro, se guardiamo alle regioni del Sud, sono evidenti carenze così pesanti, che matematicamente vanno a modificare le statistiche globali. Se vogliamo risolvere i problemi bisogna agire con meno retorica nazionalista e più pragmatismo: soluzioni ed azioni specifici per problemi diversificati.Fare il contrario vuol dire rivedere un sistema che, mi pare evidende, ha già (o lo fa dolcemente) fallito.

  16. Rocco

    Condivido in pieno il testo dell’articolo, in particolare la parte che dice "se l’Italia vuole tornare a crescere, deve risolvere i suoi problemi interni. …..rimettendo in moto gli italiani con dosi massicce di concorrenza: dai servizi finanziari alla distribuzione commerciale, dai servizi pubblici locali a quelli alla persona, dal settore pubblico all’università. Questa strategia d’urto comporta dei costi. Liberalizzando, molti perderanno rendite e si troveranno in difficoltà. A colpi di merito, qualcuno verrà lasciato per strada." Però, a differenza di quello che sembra il "tenore" generale dell’articolo, sono più ottimista: sono convinto che suderemo lacrime e sangue, raschieremo ancora di più il fondo, ma che ce la faremo. Se non altro, perché saremo obbligati a reagire, nel momento in cui il mercato globale ci darà una mazzata da stenderci secchi tutti. Cordiali saluti Se non si vogliono pagare questi costi, esiste sempre l’alternativa del declino dolce.

  17. Franco

    il problema di questo Paese è nel sistema Paese. La disinformazione, il lavarsi la coscenza, gli slogan, le statistiche alla Totò non aiutano. E’ un sistema Paese che produce molto fatturato in nero (molto spesso per sopravvivere) per cui i PIL dei territori non sono reali, l’evasione territorio Veneto è elevata e notevole come in altri zone (ci vivo e ci lavoro), la cultura in questa zona basta leggersi la ricerca su l’analfabetismo di Ilvo Diamanti vicentino doc, il problema immondizia è agli stessi livelli di alcune zone della Campania (provate ad andare sulla Traspolesana, o nelle campagne tra Dolo, Mirano, Padova per non parlare di Marghera o i cavalcavia di Isola della Scala riempiti con materiale inquinato) . Per cui è il sistema malato. Il Sud serve molto spesso per lavarsi la coscienza e andare a dormire tranquilli, viene usato in contrapposizione a territori che sembrano avere meno problemi. Vogliamo poi andare di persona dai produttori di Prosciutti di Parma e domandargli se i fatturati e le quantità di prodotto li sviluppano in territori come Campania, Puglia e Sicilia piuttosto che in Lombardia e Piemonte? Disinformare rende e crea potere!

  18. Francesco G.

    Strano che persone che vengono a lavorare in Veneto, abbiano poi il piacere a sputare nel piatto in cui mangiano: a che serve? Per generazioni si è emigrato, nessuno vieta loro di andare all’estero. In realtà si vuole solo giustificare l’assistenzialismo meridionale, e mai, dico mai, prendere il toro per le corna. Ma prima o poi il sistema cadrà. Una lettura interessante: http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/780

  19. Daniele Sassi

    Non credo nei benefici diretti che un’eventuale massiccio recupero dell’enorme evasione produrrebbe. Temo, anzi, che una maggiore disponibilità economica nelle casse dello Stato, procrastinerebbe ulteriormente l’agonia dell’apparato. Di contro, penso che se si estendesse la platea dei contribuenti, anche a tutti quei soggetti che, in barba ai dati ISTAT e CENSIS, non vedono intaccato il loro potere di acquisto e le loro entrate, perchè frutto di economia sommersa, si produrrebbe comunque un effetto dirompente in termini sociali. Chi finora non ha avuto il coraggio di lamentarsi per l’inefficienza dei servizi pubblici, credo che a fronte di cospicui versamenti all’erario, ritroverebbe anche il senso civico smarrito. In altre parole, fare pagare le tasse a tutta la classe media che evade bellamente, se da una parte porterebbe acqua al mulino delo spreco pubblico, dall’altra potrebbe rivelarsi un detonatore sociale inaspettato.

  20. franco

    Sono un piccolo imprenditore lavoro e vivo (in parte) in Veneto , come nel Lazio, come in Umbria come in Europa. Per me l’assistenzialismo è assistenzialismo non è ne meridionale, ne settentrionale. Siccome sono abituato a prendere il toro per le corna, ma spesso per salvarmi, anche da qualche altra parte, innoridisco davanti agli 11.000 forestali calabresi, come per i 18.000 dipendenti della Prov. di Trento. Io credo, per esperienza di vita (ho 50 anni), che è il sistema Paese che sta arrancando di fronte ai nuovi scenari del mondo. Un Paese confuso, le ultime elezioni (mi considero un liberale di destra) lo hanno ampiamente dimostrato!

  21. Federico Nuccio

    Concordo con l’articolo e vorrei aggiungere che all’Italia manca una visione di grandezza intesa nel senso di una basata su un progresso che prende vita e corpo dal lavoro e dalla giustizia sociale. E’ ovvio che la mediocrita’ della nostra classe politica non e’ portatrice e promotrice di quella rivoluzione di cui questo Paese ha bisogno. A mio parere l’investimento nella ricerca di base e applicata accompagnata da un sistema scolastico e universitario meritocratico nell’essenza innescherebbe un processo virtuoso di creazione di valore aggiunto che iniettatto nell’industria e nei campi d’applicazione creativi in cui l’Italia eccelle, porterebbe non solo a una maggiore consapevolezza del ruolo del singolo nella societa’ ma anche a un maggiore rispetto indotto delle regole e a una visione piu’ critica della politica e dei poteri forti. L’Italia dovrebbe aspirare a investire nella conoscenza non l’1 ma il 3, 4 anche 5% del PIL. Insegnare l’educazione civica come investimento nella formazione del futuro cittadino, stimolare le capacita’ individuali e fornire gli strumenti a scuola come al lavoro per soddisfarle e farle crescere. Poter crescere dentro e’ contribuire anche alla societa’

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